Aveva nelle orecchie ancora il suono delle risate e le mani
ancora un po’ appiccicose per lo zucchero e profumate di
chantilly quando rientrò al Louis-le-Grand. Camille, proprio
un bambino, come si diceva spesso fra sé e sé
Maxime, descriveva fra gli scoppi di risa la meravigliosa consistenza e
il sapore divino dei bigné ripieni alla crema che il suo
amico gli aveva offerto.
Mentre Maxime lo ascoltava spensierato come era raramente, sentendo la
sua testa leggera e un sentimento distinto d’euforia agitarsi
nel suo petto, a stento contenuto dalla tela nera del suo abito, vide
un giovane uomo, parimenti vestito di nero, che gli veniva incontro.
“Buongiorno, padre Petitjean”, lo
salutò, senza essersi ancora totalmente ricomposto.
“Maxime, Maxime, complimenti!” lo
apostrofò eccitato quest’ultimo.
Padre Petitjean, che da giovane era stato compagno di studi di suo
padre, era il professore che Maxime più amava e che
più credeva in lui, dandogli sostegno e fiducia.
Camille, al suo arrivo, assunse un’aria grave da persona
seriosa ma il religioso, con un sorriso appena accennato, gli fece
capire che non era necessario.
“Grazie mille, Padre” lo ringraziò
Maxime, arrossendo nuovamente al ricordo della sua importante vittoria.
Petitjean gli diede un buffetto, poi gli disse: “E quel che
è meglio è che ora il direttore vuole avere un
colloquio con te, per capire se davvero ti meriti questo onore. Da
parte mia non ne dubito…”, e poi abbassando la
voce fino a renderla un sussurro: “…
però lo sai che Soulet è un osso duro, e
soprattuto è un ragazzo di buona famiglia, con tante
conoscenze e tanti sostegni…”
Maxime lo guardò seriamente, questa volta per davvero, e nei
suoi grandi occhi verdi bottiglia si vedeva la più ferrea
determinazione.
“Se non ti dispiace, Maxime, il direttore vorrebbe vederti
subito, data l’importanza della situazione.”,
riprese il prete, riprendendo il consueto tono di voce.
“Certo, certo, quando vuole…”
biascicò Maxime, impreparato, cercando di rimettere a posto
la parrucca e di ripulire il proprio abito dai granelli di zucchero.
“Allora andiamo, forza!”, esclamò
l’altro con un sorriso incoraggiante, per poi prenderlo per
mano e condurlo a passo spedito per il corridoio.
Prima di entrare in una porta laterale il ragazzo si girò a
salutare Camille, che facendogli cenni con le mani, gli disse:
“Buona fortuna!”
Dieci minuti più tardi, Maxime si ritrovava seduto nello
studio del direttore, padre Rohault de Fleury. Era proprio come se lo
aspettava, come era necessario che fosse lo studio di un uomo
così grave: scuro, con tappezzeria verde scura, una stampa
raffigurante il Re e vari quadri di Storia Sacra. Tra il direttore e
Maxime, come per tenere le distanze, stava un’immensa
scrivania di legno di ciliegio. Padre Rohault lo aveva accolto con un
sorriso curioso e lo aveva fatto accomodare su una sedia molto
più grande di lui, in cui gli sembrava di spofondare.
Lo aveva squadrato attentamente, a lungo, mentre Maxime, imbarazzato da
quello sguardo penetrante, si guardava colpevole le dita appiccicose e
pensava alle risposte che sarebbe stato più conveniente
dargli.
“Derobespierre, che dire? Sei una delle nostre più
fulgide glorie, complimenti!”, proruppe il direttore,
d’un tratto. Era un uomo di mezza età, ancora di
bell’aspetto, dallo sguardo penetrante e il portamento
affascinante: una via di mezzo tra un uomo di Chiesa e un uomo di mondo.
“Grazie Direttore, ne sono molto onorato”, disse il
ragazzino, come di prammatica.
Il direttore aspettò a stento che finisse di parlare.
“Derobespierre, questa volta non è come per il
Concours Général”, disse, con voce
sibilante. Maxime si sentì inspiegabilmente raggelare.
“Non si tratta solo di te, stavolta, ma del buon nome di
questo Istituto e, diciamoci la verità, anche della mia
carriera. Se scelgo te per rivolgere il nostro omaggio al Re per la sua
incoronazione, mi assumo una responsabilità. Lo sai questo,
vero figliolo?”
“Lo so, Padre”, disse Maxime. Si era aspettato un
interrogatorio, ma non una sorta di processo inquisitoriale. La cosa
stava prendendo una brutta piega.
“Siamo soli ora, come vedi”, riprese Rohault,
risfoderando il suo sorriso inquietante. “Quello che mi dici,
rimarrà tra noi, non influirà minimamente sulla
tua carriera scolastica qui al Louis-le-Grand, non ti preoccupare. Puoi
dire tutta la verità.”
“Io non mento mai”, dichiarò il piccolo
Robespierre, con aria grave. Il suo sguardo fermo mostrava che stava
dicendo la verità. “O almeno, mento il meno
possibile.”
“Non ne dubito, figliolo”, sibilò
l’uomo. “Dicono tutti che sei un ragazzo serio,
calmo, intelligente, onesto. Mi hanno detto che ti chiamano
“il Romano”, tanta è la tua
virtù. Ma non si sa mai… a volte le persone
nascondono sgradevoli sorprese.”
“Posso rispondere a qualsiasi domanda, Padre,”
affermò Maxime, quasi con aria di sfida.
“Allora partiamo dalle più semplici: come ti
chiami?”
“Maximilen-Marie-Isidore de Robespierre.”
“Anni?”
“Sedici.”
“Santo cielo, figliolo, avrei detto dodici da tanto sei
mingherlino… non sei malato, vero?” disse con una
smorfia tra il divertito e il preoccupato padre Rohault.
“No, Padre. Sono pallido e magro di costituzione. Gli occhi
rossi sono dovuti allo studio, soffro di congiutiviti. Niente di
grave.”
“Da dove vieni?”
“Da Arras, nell’Artois. Sono un borsista del
Collège d’Arras.”
“Va bene, Derobespierre. Ora parlami dei tuoi
genitori.”
Ecco, pensò Maxime: siamo passati alle domande difficili.
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