CON TE AL MIO FIANCO
CON TE AL MIO FIANCO
*
Le due donne si voltarono
simultaneamente verso l’ingresso del locale, in un’istintiva speranza di veder
apparire la persona che entrambe stavano attendendo da qualche minuto.
Sfortunatamente, a mostrarsi sulla soglia, fu un anziano signore gracile e
magrolino che si guardò attorno alla ricerca di un posto libero sulla quale
accomodarsi. Accanto a lui quella che sembrava essere sua moglie, che un po’
barcollante seguì il marito al tavolo che lui aveva scorto dal lato opposto del
locale. La vecchietta dall’aspetto smilzo scostò gli occhi stanchi sul
passeggino situato accanto al tavolo dove le due donne erano sedute. Il viso
raggrinzito dalle rughe dell’anziana signora si illuminò quando scorse la
creatura che beata dormiva tra le copertine di colore rosa nella carrozzella.
“Ma che bella bimba” Non
poté fare a meno di esclamare, cercando gli occhi di quella che doveva essere la
madre. E lei, evidentemente orgogliosa della sua piccolina, sorrise raggiante
come non mai. I suoi occhi azzurri si illuminarono dalla felicità, mentre scostò
lo sguardo sulla neonata, sfiorando istintivamente il viso della piccina. “La
ringrazio” Rispose infine, incrociando lo sguardo con la simpatica vecchietta.
“Quanti mesi ha?” Le domandò poi, non riuscendo a trattenere la propria
curiosità ed affacciandosi maggiormente verso la carrozzina allo scopo di
osservare meglio la bimba. “Quasi un mese” Specificò la madre, rimboccandole le
coperte, senza tuttavia il reale bisogno di farlo.
La terza e ovvia domanda
della vecchietta fu però interrotta sul nascere. A qualche metro di distanza,
infatti, l’anziano marito sembrò bofonchiare qualcosa all’indirizzo della sua
compagna, fino a lasciarsi sfuggire un “Insomma, finiscila di perdere tempo”
quasi esasperato. La vecchietta si rivolse alla sua guida, mugugnando a sua
volta. “Non riesci a stare buono nemmeno per pochi minuti, vecchio brontolone”
Si lamentò. Costretta ad allontanarsi, dunque, non ebbe il tempo di conoscere il
nome della piccola, tuttavia non mancò di fare un cenno di saluto alla giovane
madre e alla sua accompagnatrice. Entrambe risposero con un gesto del capo e un
sorriso.
Una volta rimaste
nuovamente da sole, le due donne, si guardarono reciprocamente negli occhi,
intenzionate a riprendere un discorso lasciato a metà pochi istanti addietro. Ma
prima ancora che potessero tornare a chiacchierare, il cameriere si avvicinò a
loro, già pronto a ricevere eventuali richieste.
L’uomo, reclinato in un
mezzo inchino, osservò gli occhi scuri di una, poi quelli azzurri dell’altra.
“Avete deciso cosa volete ordinare?” Domandò cordiale, poggiando la punta della
sua biro sul taccuino che portava con sé. Le due si guardarono per un secondo,
concordando silenziosamente sul da farsi. Fu dunque la più anziana a dare
disposizioni. “Veramente stiamo aspettando una terza persona se…” “Eccomi,
scusate il ritardo” La interruppe una figura che, trafelata, si era avvicinata a
loro cercando di nascondere il fiatone dovuto all’andatura spedita con la quale
aveva camminato fino a lì.
L’inserviente osservò
distrattamente la nuova arrivata, comprendendo l’attuale situazione del tavolo.
Si limitò, quindi, ad un inchino rispettoso ed appena accennato. “Passerò tra
qualche minuto allora” Annunciò prima di allontanarsi.
Contemporaneamente, le due
donne, fissarono l’amica appena sopraggiunta prendere posto sul sedile accanto
alla carrozzina. Passarono appena pochi attimi ancora, prima che giungessero le
domande desiderose di spiegazione. “Cos’è successo?” Domandò comprensiva la
giovane madre, ottenendo in risposta un sonoro sbuffo. “E’ stata una
mattinaccia. Ho rischiato di perdere un intero progetto a causa di un corto
circuito” Brontolò l’ultima arrivata, volgendo al passeggino la sua attenzione.
Per un attimo si perse ad osservare la creaturina immersa nel proprio sonno,
sorridendo istintivamente. “Ciao, piccola Pan” La salutò come se potesse
sentire, e soprattutto come se potesse capire.
E mentre la madre della
bimba non poté fare a meno di tornare a scrutarla con ammirazione, l’altra donna
osservò distrattamente la trousse dell’amica, notando le sue precarie
condizioni. “Ehm, Bulma, perché la tua borsa è ridotta così?” Volle sapere,
curiosa di conoscere le vicissitudini di quella povera borsetta. Bulma scostò lo
sguardo sull’altra, prima di osservare per un attimo il soggetto del discorso.
Questa volta, la risposta, giunse da un brontolio tutt’altro che incoraggiante.
“Quello stupido scimmione di Vegeta!” Sbottò innervosita. “Mi ha fatto perdere
più tempo lui che il corto circuito! Ha cercato di trattenermi e questo è il
risultato” Borbottò osservando la sua borsa, ridotta a un colabrodo. “Ero in
ritardo, così non ho avuto tempo per prenderne un’altra” Sospirò pesantemente
“Era la mia preferita” Aggiunse in un secondo momento con rammarico, inveendo
mentalmente contro il marito. “Lui e la sua stupida Gravity Room”.
Videl osservò per un
secondo la suocera, condividendo lo stesso pensiero. Entrambe, infatti,
ripensarono ai due vecchietti di pochi istanti prima, scoppiando simultaneamente
a ridere. “Che c’è?” Chiese ora la scienziata, scoprendosi suo malgrado ad
essere l’oggetto dell’ilarità generale.
*
“Da piccoli sono ancora
facili da gestire, sembrano quasi bambini normali” Promulgò Chichi, enunciando
la sua tesi con la saggezza dovuta a ben due esperienze di figli Saiyan. “Un po’
più forti degli altri” Le diede manforte Bulma, sorseggiando dal suo calice,
ripensando a sua volta alle vicissitudini che il figlioletto le aveva fatto
passare a suo tempo.
La giovane madre fissò
prima una, poi l’altra, cominciando quasi a farsi prendere dal panico. “Mi state
spaventando” Confessò, scostando lo sguardo sulla piccola Pan, ancora
placidamente addormentata. A sciogliere la tensione fu la donna dai capelli
celesti, che si lasciò sfuggire una risata. “Non devi preoccuparti, Videl. I
Saiyan sono solo un po’ più… vivaci” Cercò di tranquillizzarla. E,
istintivamente, la più giovane scostò lo sguardo sulla suocera, che annuì con
decisione all’affermazione dell’amica. “Già” Concordò portando una posata alla
bocca socchiudendo gli occhi, evitando pertanto di specificare le sfumature
della parola vivaci. “Sono cose che scoprirai col tempo, mia cara”
Rimarcò la moglie di Son Goku, osservando di sbieco la nuora che non aveva
smesso di fissarla. “Cosa intendete dire?” Fu l’inevitabile domanda che Videl
non riuscì proprio a trattenere. E mentre i suoi occhi scivolarono da una donna
all’altra, loro si scrutarono reciprocamente per un secondo, alla ricerca di
un’intesa. “Diciamo che un bambino, di solito, si limita a farti preoccupare
quando esce in giardino e si sbuccia un ginocchio. Con un Saiyan, invece, più
che preoccuparti del suo ginocchio devi sperare che non distrugga il giardino…
l’intero giardino” Fu l’enigmatica, ma fin troppo chiara, spiegazione che la
scienziata fornì all’interlocutrice, ottenendo nuovamente il benestare di
Chichi, che assentì col capo. “E probabilmente anche la casa” Aggiunse la mora
dopo qualche secondo.
“O… ok, ma ci sarà anche
qualche lato positivo, giusto?” Farfugliò una titubante Videl, sempre più
disperatamente alla ricerca di consensi. “Certo che c’è. Per esempio diventano
indipendenti prima di un bambino comune” L’affermazione di Chichi, per qualche
motivo, sembrò raggelare l’atmosfera al tavolo. Mentre Videl stava ancora
cercando di elucubrare su ciò che la suocera le stava raccontando, Bulma parve
per un attimo perdersi in altrettante meditazioni dalla natura ignota. Sul suo
viso, infatti, si manifestò una strana preoccupazione, ma le due commensali non
si accorsero di questo suo improvviso stato inquieto.
“Una cosa è certa. Sanno
renderti una madre orgogliosa, dico bene Bulma?” Concluse Chichi, giungendo le
mani e ripensando ai due figli e ai loro piccoli e grandi successi.
Risvegliatasi dal peculiare coma, che l’aveva colpita per un attimo, Bulma si
riprese annuendo fermamente alla dichiarazione dell’altra. La donna mora le
sorrise, prima di tornare a rivolgersi alla nuora.
Fu l’improvviso piangere
della piccola Saiyan, che distolse le tre donne dalla loro conversazione. E la
madre lasciò passare poco meno di un secondo, prima di sporgersi sopra il
passeggino, sollevò la neonata, stringendola delicatamente tra le braccia. “Cosa
c’è Pan?” Le domandò come se potesse rispondere. Nonostante l’ovvio impedimento
di dialogo, un responso giunse ugualmente dalla bimba. L’odore pungente e la
specifica pesantezza nella parte inferiore lasciò intendere una sola cosa alla
giovane mamma. “Deve essere cambiata” Annunciò alle altre due, alzandosi un
istante più tardi ed afferrando una borsa adagiata sul manico della carrozzella.
Bulma, dal canto suo,
osservò il suo piatto per qualche istante, sovrappensiero. E fintanto che la sua
mente tornò a viaggiare tra universi sconosciuti, il suo intero corpo si mosse
da solo, alzandosi a sua volta ed osservando la piccola Pan per appena un attimo
in più. “Lascia Videl, ci penso io” Si propose quasi istintivamente, senza
realmente sapere, lei per prima, la ragione del suo gesto.
Sia Chichi che Videl, a
quel punto, la fissarono di conseguenza, come a voler cercare una spiegazione.
Tuttavia, la sola cosa che riuscirono a comprendere, da quegli occhi azzurri,
era la più assoluta spontaneità delle sue azioni. “Ne sei sicura?” Si assicurò
quindi la più giovane, cullando la figlioletta affinché smettesse di piangere.
La scienziata annuì, evidentemente intenzionata a non tornare sulle sue
decisioni. Come ulteriore conferma, allungò le braccia, facendo in modo che
l’altra potesse porgerle la bambina. Preso atto di quel’improbabile gesto di
generosità, Videl non poté fare altro che affidarle la figlia, sussurrando un
sincero “Grazie” che suonò tuttavia un po’ confuso. “Figurati, pensi che Trunks
se li cambiasse da solo i pannolini?” Scherzò infine la donna dai capelli
azzurri, un po’ allusiva.
Bulma, quindi, si allontanò
dal tavolo, facendosi indicare dal cameriere il bagno, che gentilmente le fece
strada fino alla saletta adibita al cambio pannolini. Una volta lì distese la
neonata sul lettino, cominciando a slacciarle il fastidioso ingombro. “Bene,
Pan, vediamo quant’è spiccato il tuo essere Saiyan” Parlottò più a se
stessa che alla bambina.
Quando il suo sguardo
incrociò quella particolare cicatrice dalla forma sferica, infine, fu assalita
da una strana nostalgia. Erano passati più o meno dieci anni, da quando suo
figlio aveva smesso di indossare quell’ingombrante mutanda assorbente. Non che
le mancasse particolarmente cambiare maleodoranti mutandoni, eppure qualcosa
cominciò a frullarle vorticosamente per la testa. Una specie di pensiero
impazzito che, senza farsi catturare, aveva preso a tormentarla più di qualsiasi
altra cosa.
Fu anche peggio quando, una
volta effettuato il cambio, poggiò la testa della bimba sulla propria spalla. In
quel preciso istante non era il solo cervello ad aver subito una specie di corto
circuito. Al suo cuore, infatti, era toccata quasi la stessa sorte. Scoprì ben
presto, e con stupore, che l’unico modo per calmarlo fu di posare l’orecchio sul
corpicino della piccina, ascoltando il battito del muscolo involontario. Chiuse
gli occhi, per un momento, lasciando che quel ritmo delicato e regolare
prendesse il sopravvento di lei. E infine riuscì a catturare quel pensiero.
*
*
L’unica luce accesa nella
notte illuminava le pagine di un libro che lei non stava neanche leggendo. Lo
sguardo fisso e concentrato sembravano voler, a tutti i costi, fingere
l’interesse per quegli strani simboli che non sarebbe mai stata in grado di
decifrare, almeno non al momento. Gli occhi azzurri di Bulma, infatti, parevano
volersi soffermare a forza sul foglio bianco, deturpato dalla incisioni nere che
qualcuno aveva marchiato disordinatamente. E, a dire il vero, erano svariati
minuti che la sua mano non si sollevava per svoltare la pagina, restando quindi
in una muta e silenziosa contemplazione.
Era evidente anche ad un
cieco, a quel punto, che l’unica cosa sulla quale la donna era realmente
concentrata erano i suoi pensieri. Tutti si sarebbero accorti che qualcosa non
andava, tutti, tranne l’uomo che in dormiveglia giaceva accanto a lei.
Bulma scrutò la nuca del
compagno per diversi, interminabili, secondi; prima di lasciarsi sfuggire un
sospiro rumoroso. La sua attenzione tornò in automatico al testo, prendendo
finalmente coscienza che non lo stava nemmeno più sfogliando da svariato tempo
ormai. La nuova consapevolezza le sembrò una specie di ultimatum a se stessa,
come se quella fosse la risposta ad alcuni suoi dubbi. Le risultò lampante,
quindi, che doveva assolutamente dire ciò che la sua mente le stava urlando a
gran voce da troppo.
Il libro si chiuse con un
gesto deciso e rumoroso, precedendo uno sguardo altrettanto risoluto che si
rivolse all’assopito coniuge quasi sicuramente già nel mondo dei sogni. Ma non
si arrese, a questo insignificante ostacolo. Il testo si posò, senza troppa
delicatezza, sul comò al suo fianco, prima che lei tornasse a fissare le spalle
del Principe dei Saiyan.
Tuttavia, un’ulteriore
attimo di esitazione la colse, costringendola ad abbassare lo sguardo sulle sue
dita che, nervose, s’intrecciarono tra loro con gesta sempre più irrequiete.
“Vegeta…” Prese coraggio
infine, lasciando che il timbro della sua voce esternasse un po’ della sua
inusuale insicurezza, “… ho bisogno di parlarti” Farfugliò appena, sbirciando la
figura immobile ed indolente al suo fianco.
Uno strano mugolio fu la
sola e unica risposta da parte di chi aveva tutta l’intenzione di lasciarsi
trasportare nel mondo dei sogni e che, presumibilmente, aveva quasi raggiunto il
suo scopo. “E’ una cosa seria” Lo ammonì, forse con l’intento di ottenere
maggiore attenzione. Ma la sola cosa che conseguì fu un secondo lamento
indecifrato, mentre lui si mosse appena, dandole completamente le spalle.
Esitò ancora, Bulma Brief,
e chi la conosceva bene sapeva che quello non era un atteggiamento abituale, per
una come lei. Eppure, quel qualcosa che la stava tormentando, era riuscito ad
indurla all’incertezza. “Vegeta, vorrei avere un altro bambino” Ecco, l’aveva
detto, aveva esternato il suo pensiero proprio alla persona a cui più temeva di
doverlo fare. E se da una parte si sentiva più leggera, dall’altra l’angoscia la
colse di sorpresa, causata da quel nodo alla gola che sembrava volerla soffocare
a tutti i costi. Trattenne il fiato quindi, avendo timore della sua risposta,
qualunque essa fosse.
Il Principe guerriero
spalancò gli occhi, fissando il vuoto di fronte a sé, scoprendosi
improvvisamente sveglio. Non si premurò di rivolgere quelle profondi iridi nere
alla compagna, tuttavia. Restò a scrutare il buio come in uno stato di coma
apparente, assicurandosi che l’udito non gli stesse giocando un tiro mancino.
“Trunks è grande ormai, non
ha più bisogno di me e io sento di avere ancora molto da dare come madre”
Continuò ora la scienziata, come se quel semplice gesto del compagno fosse una
risposta, in qualche modo, positiva alla sua peculiare, e molto impegnativa,
richiesta. A questa affermazione però, il Saiyan aggrottò le sopracciglia con
stizza, tornando a serrare le palpebre, intenzionato a riprendere i propri
sogni. Come se si fosse semplicemente trattato di un intoppo tra le sue visioni.
“Che idiozie” Si limitò a farfugliare, acido come sempre, ritenendo il discorso
concluso in quel preciso istante.
Eppure, il fatto che la
moglie non lo avesse aggredito verbalmente nell’arco dei successivi due secondi,
avrebbe dovuto indurlo a pensare che qualcosa non andava. O quantomeno che lei
faceva decisamente sul serio. L’ennesimo sospiro, infatti, servì a Vegeta per
convincerlo a non abbassare la guardia. Bulma si limitò a scostare lo sguardo
dalle sue mani ai folti capelli neri del marito, intenta ad ascoltare nuovamente
le sue sensazioni ed i suoi pensieri, che questa volta le stavano sussurrando il
motivo, forse più reale, per la quale quel desiderio aveva preso a tormentarla.
“Quando è nato Trunks tu
non c’eri…” Il groppo stretto attorno alla sua gola scomparve, e la sua voce
divenne più limpida. Nel frattempo, il Principe dei valorosi Saiyan, aprì
nuovamente gli occhi, ma questa volta con meno enfasi. Restò, pertanto, a
fissare un punto imprecisato del pavimento, ascoltando il discorso che la donna
stava facendo alle sue spalle. “Questa volta vorrei averti accanto, durante le
visite mediche. Per vedere la faccia del dottore quando scoprirà che il bambino
ha la coda. In sala parto a tenermi la mano…” Un lungo sospiro la interruppe,
costringendola a socchiudere gli occhi e a scostarli sul proprio grembo. Quando
rivolse nuovamente lo sguardo verso di lui, scoprì due perle nere a fissarla,
poiché Vegeta si era nel frattempo girato a sua volta. “Vorrei vivere tutte
queste cose, e vorrei poterlo fare con te, prima che sia troppo tardi”
Concluse, cercando una qualsiasi sentenza nella profondità di quelle pupille
nere come la notte. E l’indagine stava andando troppo affondo, e lui lo sapeva.
Per questo motivo distolse immediatamente lo sguardo, riprendendo la posizione
perduta qualche secondo prima. Bulma si limitò ad assecondare i suoi movimenti
con gli occhi, prima di chiedergli il più piccolo dei favori, “Almeno,
promettimi che ci penserai”, ottenendo un sonoro “Tsk” in risposta.
In realtà, se Vegeta non
fosse stato così… beh, così Vegeta, probabilmente quel responso non le sarebbe
bastato.
*
*
Era il primo a domandarsi
che diamine ci facesse lì, seduto su quella rupe a fissare un’abitazione che non
era la sua. Inutile scervellarsi sul motivo che lo aveva spinto a fare, quasi
letteralmente, il giro della Terra giusto per sedersi su quella roccia con lo
sguardo perso su quella piccola casa dalla forma sferica. La sola cosa che
sapeva era che, quella mattina, si era alzato presto e senza troppo pensare era
sfrecciato in cielo alla ricerca di un posto dove starsene per conto suo. E
diavolo, trovare una spiegazione per la quale, su tutta la superficie terrestre,
lui si fosse fermato proprio lì sembrava tormentarlo forse più del motivo
stesso che l’aveva indotto a isolarsi dall’universo intero per le proprie
riflessioni personali.
Cosa gli era frullato per
la testa, quando aveva deciso di appostarsi in quel punto esatto, nemmeno lui
era in grado di saperlo. Aveva seguito qualche istinto recondito che sicuramente
non faceva parte della sua natura, almeno così credeva. E comunque, al di là di
queste futili conversazioni insensate, cosa si aspettava di trovare proprio su
quelle montagne era un’altra di quelle domande che probabilmente sarebbero
rimaste insolute nella sua testa per il resto della vita.
Paradossalmente l’unica
cosa rimasta da fare era fissare l’ingresso di quella casa bianca ed attendere,
cosa esattamente non era dato saperlo. O meglio, sapeva cosa stava aspettando,
ma lungi da lui ammetterlo anche solo nella profondità della sua mente.
L’orgoglio, il suo immancabile compagno d’avventura, cercava con tutte le sue
forze di impedirgli la totale comprensione per il quale quella trepidante attesa
aveva un reale fondamento logico.
Quando vide aprire la porta
di legno che dall’alba fissava, qualcosa nel suo inconscio desiderò ardentemente
che non fosse lui la persona a venirne fuori. Perché? Beh, difficile a
dirsi. Trovare un motivo per la quale, la stessa persona che non voleva vedere
era anche quella che più si auspicava apparisse dietro quella porta era un vero
mistero. Con tutto se stesso si augurò che la figura dai folti e spettinati
capelli neri che vide fosse solo frutto della propria inspiegabile fantasia.
Purtroppo, o per fortuna,
fu proprio Kakaroth l’uomo che, con un grosso sbadiglio, si lasciò baciare dai
raggi luminosi del sole mattutino. E allora lui, nel suo angolo all’ombra di un
albero, sperò che non volgesse lo sguardo nella sua direzione, che non lo
notasse. Infondo, si era premurato di celare la propria aura da ore, per quale
ragione si sarebbe dovuto voltare? Non ne aveva proprio motivo, e se Kakaroth
non si fosse accorto della sua presenza, allora gli sarebbe bastato spiccare il
volo alla prima occasione e sparire come se non avesse mai solcato quelle valli.
E ancora, la sfortuna, o
fortuna a dir si voglia, giocò in suo sfavore, poiché Goku, in un gesto
istintivo e un po’ assonnato, si ritrovò ben presto a fissare gli occhi di un
buon amico, comprendendo immediatamente che lui voleva farsi trovare. Gli
sorrise, com’era per lui tanto ovvio, e si avvicinò fluttuando, dopo essersi
appoggiato entrambe le mani alla cintola.
“Ehilà, Vegeta, come mai da
queste parti?” Lo salutò cordiale come sempre, il caro buon vecchio Son Goku, e
senza necessitare di una seconda occhiata comprese subito che qualcosa frullava
vorticosamente per la testa del rivale. Infondo, se non avesse bisogno di una
consulenza, non si sarebbe premurato di volare fino al lato opposto del Pianeta.
“Non sono affari che ti riguardano” Brontolò l’altro, scostando lo sguardo in un
gesto di stizza.
Già, era proprio da Vegeta
una risposta tanto assurda alla domanda “Posso fare qualcosa per te?”
c’era poco da fare con lui e, il Saiyan dai capelli costantemente in disordine,
non riuscì a trattenere una risatina causata dal buffo comportamento di quello
che era stato un vecchio nemico.
“Che diavolo hai da
ridere?!” Sbottò indignato il Principe, forse sentendosi un po’ preso in giro. E
Goku si ritrovò, suo malgrado, a doversi giustificare come un bambino che ha
appena disubbidito ai genitori. “Nulla, sul serio, non è nulla” Si affrettò a
dire, agitando le mani nella speranza di poter calmare il temperamento
dell’altro. Vegeta sembrò tranquillizzarsi sul serio, benché una leggera nota di
nervosismo era chiaramente visibile nei suoi occhi. E se il suo interlocutore
non fosse stato Kakaroth, probabilmente non sarebbe stato in grado di annotare
quell’evidente imbarazzo nel riuscire a sputare il rospo e cominciare una
conversazione in qualche modo delicata. Il fatto che il Saiyan nobile non lo
stesse nemmeno guardando, inoltre, era un altro segnale che non si trovava lì
per una scampagnata.
Goku sorrise, cercando di
immaginare cosa mai potesse tormentare così l’irriducibile amico o, più che
altro, divertendosi a constatare quanto l’altro faticasse a fare quella che
doveva essere una semplice dichiarazione. Ma lui, Kakaroth, era un buon amico e
come tale decise di aiutarlo ancor prima che il Principe riuscisse ad aprire
bocca, utilizzando l’unico metodo che conosceva per metterlo a suo agio. “Ehi,
Vegeta, ti va di combattere un po’ io e te?” Gli propose, lui stesso entusiasta
dell’idea che era appena pervenuta alla sua mente. Se non riusciva ad accomodare
Vegeta, almeno avrebbero combattuto un po’, e questo lo avrebbe certamente
aiutato a sentirmi meglio. E poi lo sapeva, il Principe dei Saiyan non avrebbe
mai rifiutato uno scontro, soprattutto con lui. Quella, infatti, non risultò
un’eccezione. Vegeta fissò il rivale di sbieco, quel tanto che bastava per
rispondere positivamente alla proposta.
*
Le alture avevano tremato
per l’intera mattinata, scosse da due uragani dai capelli dorati e dallo sguardo
deciso. Il risultato erano parecchie rovine in più, molti più lividi e ferite e
i vestiti da buttare, affrontando quindi la furia delle rispettivi consorti. E
forse era quello che, la città dell’Ovest e i monti Paoz, temevano di più. Due
furie che bionde non potevano diventare, ma erano ugualmente più pericolose dei
due uomini che avevano nel frattempo deciso di prendersi una pausa di comune
accordo.
Son Goku si era sdraiato in
mezzo all’erba alta, ispirando profondamente e lasciandosi inebriare dall’odore
che la sua terra aveva da offrire e che tanto amava. Era stanco, doveva
ammetterlo, c’era una sola persona che riusciva a fargli venire il fiato corto,
anche meglio dei suoi figli, e quella persona era attualmente seduta a diversi
metri di distanza con la schiena appoggiata ad un masso. Lo sguardo
immancabilmente imbronciato e fisso sulle nuvole bianche che sorvolavano il
cielo di uno splendido colore azzurro. Le braccia intersecate tra loro, in una
postura che Goku ribattezzò tipicamente Vegeta. Chissà cosa voleva dirgli
poi, durante tutte quelle ore di massacro si era quasi dimenticato il motivo per
la quale avevano effettivamente iniziato a scazzottarsi. Intrecciò le mani
dietro il capo, fissando l’amico per alcuni secondi. Non era da lui, ma doveva
confessare di essere un po’ curioso. Insomma, riuscire ad essere il
confidente del Principe dei Saiyan era come vincere un terno al lotto, e lui
non era neanche troppo bravo con i numeri! Tuttavia, Kakaroth sapeva bene una
cosa: il miglior dialogo con Vegeta era il silenzio. L’aveva imparato con
l’esperienza, trovandosi anno dopo anno ad affrontare anche qualche sporadico
discorso. Beh, per la verità i così detti dialoghi si potevano contare sulle
dita di una mano… mozza.
“Bulma vuole un altro
marmocchio” L’aveva detto, ce l’aveva fatta! Senza voltarsi indietro, senza
guardare l’amico che aveva preso a fissarlo con notevole stupore. Non tanto per
la sua dichiarazione, ma per il fatto che fosse riuscito a parlare senza
iniziare una battaglia verbale che si sarebbe conclusa verosimilmente con
“Vai al diavolo, Kakaroth”.
Goku si appoggiò sugli
avambracci, cercando di studiare il Saiyan di stirpe reale con più attenzione.
Cercò, senza molto successo, di comprendere le ragioni che l’avevano spinto a un
gesto tanto… mmm… disperato. Insomma, voleva solo togliersi un peso o era venuto
lì per un consiglio? Beh, che domande, Vegeta neanche li ascoltava i consigli!
“Davvero? Buon per voi”
Minimizzò quindi, l’uomo dai capelli arruffati, non sapendo esattamente cosa
rispondergli. Dubitava fortemente che desiderasse le opinioni del padre di due
figli. E il silenzio che seguì suggerì a Goku che forse aveva fatto la scelta
giusta. Tuttavia, mentre pensava al suo probabile successo, la sua mente divagò
per un attimo, soffermandosi sul suo secondogenito e all’aureola che ornava il
proprio capo nei primi anni di vita del piccolo Goten. Storse un attimo la
bocca, come ad immaginarsi qualcosa che, in quel periodo, era venuta a mancare
nella sua vita. Ridacchiò infine, in quello che suonò più come un gesto nervoso
e di celato rammarico. “Se avrete un altro figlio, poi mi potrai raccontare che
effetto fa diventare padre per la seconda volta” Aggiunse un secondo più tardi,
parlando più a se stesso che all’altro.
Per la prima volta, Vegeta
si voltò a guardalo. Lo fissò per pochi istanti, con quei profondi occhi neri,
cogliendo una leggera, e quasi impercettibile, nota di malinconia. Assurdo
pensare che appartenesse proprio a Kakaroth, eppure, il Principe dei valorosi
Saiyan, riuscì perfettamente ad afferrarne la natura. Senza troppa fatica per
giunta. Si ritrovò ben presto a condividere lo stesso pensiero della terza
classe, senza neanche saperlo. Ripensò al figlio, e ai propri capelli, all’epoca
neri come la pece.
Quando distolse lo sguardo,
una specie di sorriso si dipinse sul suo viso. Stranamente era contento di aver
parlato con Kakaroth, ma questo sarebbe rimasto un suo personalissimo segreto,
per sempre!
Si alzò lentamente,
tornando a fissare l’azzurro del cielo come aveva fatto fino a qualche momento
prima. “E tu dimmi, Kakaroth, che effetto fa diventare padre?” La sua voce,
benché suonasse molto seria, era indubbiamente condita con una certa serenità,
che Goku non faticò a riconoscere. Tuttavia non ebbe il tempo di risponderli,
poiché il più anziano dei due era già diventato un puntino lontano
nell’immensità della volta celeste.
Non poté esimersi dal
sorridere quindi, sdraiandosi nuovamente sul manto erboso e sussurrando
un’impercettibile “Prego” che finì per disperdersi nel vento, inascoltato.
Infondo, è a questo che
servono gli amici, no?
*
Bulma mordicchiò
nervosamente la penna con la quale stava scrivendo qualche appunto su un foglio
pieno di calcoli. I suoi occhi azzurri restavano fissi sui numeri, senza troppo
badare a dove stava mettendo i piedi. Sebbene la Capsule Corporation fosse un
vero e proprio labirinto, lei sapeva destreggiarsi con facilità, avendo vissuto
in quell’abitazione per una vita intera. Non aveva bisogno di osservare dinnanzi
a sé, dunque, mentre evitava ogni genere di mobilio con naturalezza, più
concentrata sul proprio lavoro che su tutto il resto.
La biro si adagiò sul pezzo
di carta, segnando un paio di promemoria dall’apparenza importanti. Certo, la
calligrafia non era delle migliori, essendo improponibile mettersi a scrivere
mentre si passa da una stanza all’altra della propria casa, ma figuriamoci se
Bulma Brief si preoccupava di questo genere di cose. Con ogni probabilità se ne
sarebbe accorta a posteriori, quando aveva ormai dimenticato tutti i suoi
pensieri e necessitava di rileggere ciò che aveva frettolosamente e
maldestramente scritto, senza riuscire a comprenderli. Poi si sarebbe ritrovata
ad incolpare tutto, dalla penna al foglio, ai mobili della casa, al sole che era
sorto dal lato sbagliato quella mattina.
Era troppo concentrata nei
suoi ragionamenti, per accorgersi della mano che apparve da dietro un angolo,
afferrandola per il gomito ed inghiottendola nello svincolo del corridoio, senza
avere nemmeno il tempo di urlare. E probabilmente un grido le sarebbe sfuggito,
se non si fosse trovata al cospetto di due iridi nere che la fissavano con
l’intensità di sempre.
“Vegeta! Che diavolo?!” Gli
sbottò contro, riconoscendo il compagno. Fu solo ad una seconda occhiata che si
accorse delle sue attuali condizioni. Dalla ferita ancora sanguinante sopra il
sopracciglio sinistro, allo stato dei suoi vestiti. Al labbro spaccato. Certo,
non ebbe molte difficoltà a comprendere cosa, o meglio chi, l’aveva
ridotto in quelle condizioni. Era sicura che, se si fosse recata sui monti Paoz,
avrebbe trovato il compagno di mille avventure nelle medesime condizioni: un
livido parlante.
Di tutte le strane manie di
Vegeta, quella di andare a malmenarsi col migliore amico era davvero quella che
capiva meno. E dire che Vegeta ne aveva a centinaia di strani vizi o modi di
fare apparentemente insensati. Aveva rinunciato a capire perché lo facesse, si
era semplicemente convinta che i Saiyan erano un popolo di autolesionisti. Però,
cavolo, almeno il marito poteva evitare di andare ad azzuffarsi con gli abiti
buoni. Con tutte le battle suite che aveva, perché usare gli indumenti civili?
Era quello che stava per
dirgli, cercando un modo calmo e tranquillo per fargli sapere il suo disappunto.
Premettendo che Bulma non aveva un modo calmo e tranquillo di dire le cose,
soprattutto a Vegeta. Quindi si limitò ad aprire la bocca col chiaro intento di
iniziare una ramanzina memorabile, ma ancora prima che potesse farlo fu lui ad
attaccare bottone. “Ok” non disse altro, mandando in completa confusione la
scienziata di casa Brief, che si ritrovò ad inarcare un sopracciglio con
un’espressione decisamente confusa. Che avesse già anticipato e memorizzato
quello che lei stava per dirgli? Che si fosse pentito di aver disintegrato i
suoi vestiti? Che… no, non Vegeta!
“Ok, cosa?” Fu costretta a
domandare in seguito, per la prima volta un po’ disorientata di fronte ai
pensieri del coniuge, che solitamente riusciva a leggere come un libro aperto e
possibilmente di meccanica.
Lui restò a fissarla ancora
per qualche secondo, prima di pronunciare un’altra parola, che tuttavia
racchiudeva un discorso mille volte più tortuoso e complicato. Come Bulma riuscì
a comprendere, da un semplicissimo “Facciamolo”, tutto quello che il Principe
dei Saiyan volesse dire sarebbe rimasto un mistero per sempre. Fatto sta, che
lei capì ogni cosa. Era bastato solo quello, infatti, perché i suoi occhi si
illuminarono all’improvviso. Carta e penna le scivolarono dalle mani, cadendo al
suolo come una cosa della minima importanza. “Grazie, Vegeta!” Esclamò esaltata,
lanciandosi verso di lui ed abbracciandolo con quanta forza avesse in corpo.
“Grazie, grazie, grazie” Aggiunse prima di baciarlo, sentendo il sapore ferroso
del sangue sul labbro di lui, ma la cosa non sembrò importarle poi molto. Gli
sussurrò poche parole all’orecchio, in seguito, prima di poggiare il capo sulla
spalla dei Saiyan che, apparentemente impassibile, la lasciò fare senza muovere
un dito.
“Ah, tesoro, la prossima
volta usa una battle suite, per favore” Ok, quel commento non era proprio
riuscita a trattenerlo.
*
FINE
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