Elettroshock Aeternum

di LawrenceTwosomeTime
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Mi fulminasti con lo sguardo. Un elettroshock a novecento miliardi di diodi.
Ne parlo al passato remoto perché l'episodio sbiadisce velocemente nella memoria, non è di quei ricordi che stanno fermi e invecchiano come il vino. O forse, perché voglio allontanarlo da me il più possibile.
Amore e Morte: l'uomo deve negarli entrambi per continuare a vivere. Se li si lascia scorrere attraverso le corazze di polistirolo che hanno mille nomi e nessuno, si infiltrano e bruciano come un acido dolce, corrodono e corrompono le poche certezze con cui parlamentiamo, accecano e trattano quel vecchio pellame che la Natura ci smerciò a poco prezzo e che noi battezzammo "buonsenso".

Come una piatta lucina da elettrocardiogramma, una lucciola incastrata tra le maglie di un nastro trasportatore, ti intravidi sfilare davanti ai miei occhi. Lo so, non è molto poetico, ma i lirismi lasciamoli agli ipocriti: quello che ho provato suona ridicolo, è un po' stravagante, si capisce più facilmente esternandolo in due righe intorcinate che in due saggi di trattato razionale…
Tu ti muovevi contro-contro corrente, non andavi né avanti né indietro (ebbene si, siamo giunti all'ultima spiaggia dei narratori, l'imperfetto; imperfetto come la mia prosa). Tagliavi obliquamente le maglie della folla, fantasma impalpabile, calamità magnetica.
E raddrizzasti la traiettoria giusto per scivolarmi accanto, appena in tempo perché io non riconoscessi le tue mani, non mi capacitassi di quei capelli, non vedessi alcunché se non una tra le tante, che forse si era appuntata un sorriso un po' atipico. Ma un secondo e novantatre centesimi dopo, mi arrivò anche il profumo. E quello non è equivocabile.
E mi azzardai a fare una cosa che di solito non faccio: mi voltai indietro. Ho sempre paura che alle mie spalle ciondolino vuote controfigure, parodie di esseri umani; che il mondo si sia fatto un cratere nebbioso e gravido di silenzio, in attesa di riprendere vita solo per ingannare i miei occhi.
Una bella presunzione, lo ammetto. Il terrore, il più delle volte, si basa sulla convinzione che qualcuno o qualcosa ci consideri talmente importanti da voler imbastire uno spettacolo agghiacciante solo per noi.
Ma il mondo c'era ancora, e tu non eri che una macchia scura digradante nel pastone.

E mi ricordai di quella notte in quella città in quell'albergo.
Eri seduta nell'incavo di una finestra, non si capiva dove finisse la cornice e dove cominciassero le tue spalle, tanto eri avvinta al buio. Avevi un piercing proprio sopra l'ombelico, una piccola luce maliarda che scintillava più della luna, nella coppa della tua pancia.
E io ero combattuto se buttarti di sotto o tirarti dentro. Tra negarti e abbracciarti.
Non feci nessuna delle due cose.

Non sono mai stato molto favorevole all'inscatolamento dei concetti, alle prese di posizione: ciò che mi serve è più che altro un orientamento minimo. Sono abbastanza etero (ma qualche volta dimentico la differenza tra uomo e donna), abbastanza ateo (ma credo in molte cose che la gente di solito non vede), abbastanza di centro-sinistra (ma mi capita di voler fucilare la gente in treno).
Tu però eri vera, non eri un concetto. Non ci sarebbe voluto nulla a compiere un semplice gesto, tipo toccarti il polso con la mano. E da cosa nasce cosa.

Invece mi ritrovo a vivere una vita in continuo mutamento, dove tu appari e scompari senza preavviso, punteggiando a tratti il mio sentiero. È questa la mia condanna per non aver voluto scegliere.
È questo l'Inferno degli ignavi.




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