Nient’altro che cenere
Ero seduta sul bordo di un pozzo.
Si
trovava all’interno di uno dei tanti giardini del castello
di Ombra. Non riuscivo nemmeno a ricordare quante volte avevo
trattenuto Jacopo dal lanciarvi dentro tutti i sassolini che trovava
sul sentiero di ghiaia che tagliava a metà il giardino.
Il sole
mi batteva sulla nuca, tanto caldo da bruciare. Non mi sarei
stupita se i miei capelli avessero preso a rifulgere come quel fuoco di
cui avevano il colore.
Mi morsi
il labbro di scatto.
Iniziai a
mormorare una canzone a bocca chiusa. Era una melodia triste.
Mia madre, un tempo, me l’aveva cantata per farmi
addormentare.
Parlava
di una principessa che aspettava il suo principe, e lo
aspettava invano.
Sentii
che le lacrime minacciavano di bagnarmi le ciglia. Strinsi le
labbra per non lasciarmele sfuggire. Già gli occhi mi
bruciavano tantissimo per tutti i pianti che avevo fatto. Non avevo mai
pianto così tanto, prima.
Lottando
contro il desiderio di scoppiare in singhiozzi, lasciai
dondolare i miei piedi e tesi la mano a cogliere uno dei fiori che
sbocciava vicino alla piccola siepe che verdeggiava accanto al pozzo.
Lo portai al viso per sentirne il profumo.
Improvvisamente,
mi assalì un impeto di rabbia. Avrei voluto
scagliare il fiore a terra, e poi calpestarlo, sgualcirlo, sino a farlo
diventare sciupato come mi sentivo io.
Com’era
possibile che, con tutto quel che era successo in
quegli ultimi giorni, continuasse ad emanare il suo tranquillo aroma?
Com’era
possibile che la sua fragranza continuasse ad essere
lieve e dolce, in quei giorni di violenza e amarezza?
Trassi un
respiro tremante e cercai di calmarmi. Mi toccai le guance.
Si sentivano ancora le tracce secche delle lacrime che le avevano
rigate.
Ripresi a
cantare con le labbra serrate, muovendo appena la testa.
Sapevo
che a momenti Violante sarebbe arrivata a cacciarmi fuori. Mi
aveva dato un po’ di tempo per radunare le mie cose, ma era
quasi scaduto.
Sentii
una fitta di dolore nel pensare che la padrona con la quale
avevo condiviso tanti momenti, piccoli scherzi e lievi sorrisi, ora non
mi voleva più minimamente bene. Quando mi aveva convocato,
quella mattina, mi ero presentata a lei tremante, e non avevo trovato
che rancore nei suoi occhi.
Avrei
voluto salutare Jacopo, o vederlo anche solo per un momento, in
modo da poter cercare di sottecchi qualche traccia di Cosimo sul viso
del bambino.
Una nuova
fitta di dolore, uno squarcio al petto. Schiusi le labbra,
inspirando ed espirando affannosamente, come se anche respirare fosse
diventato difficile.
Ma,
dopotutto, cos’era facile, adesso?
Giocherellai
con il gambo del fiore, quindi lo osservai. Somigliava ad
un papavero. Aveva i petali bianchi, venati di rosso; automaticamente
lo collegai alla pace violata, alla purezza strapatta.
Continuai
a mormorare la canzone tra me e me. La melodia era quella che
mia madre mi aveva insegnato, ma mi resi conto che stavo pensando
parole diverse.
Il mio angelo se n’è andato,
se
n’è andato. È tornato nel suo cielo e
non tornerà mai più.
Scossi la
testa e mossi le gambe, come a volerle incrociare. Mi passai
il dorso della mano sulle guance. Forse avevo ancora gli occhi
arrossati; mi ripromisi di controllare alla prima occasione.
Come se
fosse stato importante.
Come se
sarebbe valso a qualcosa.
Mi sporsi
a guardare l’acqua sul fondo del pozzo. E, insieme,
il riflesso, tremolante e insicuro, di me stessa che guardavo verso il
basso, i capelli ramati attorno al volto.
Come al
solito – come sempre – osservare la mia
immagine mi riportò alla mente lui.
Ricordavo
perfettamente l’aria sconvolta di mia madre quando
mi aveva raccontato della scomparsa di mio padre. Io ero rimasta
immobile per tutto il racconto. Non sapevo cosa fare, o cosa provare, o
come reagire. Non sapevo più come avrei potuto uscire da
quella stanza e riprendere a sentire il sole sulla pelle. Non volevo
crederci, ma poi avevo visto le tracce delle lacrime sul volto di mia
madre. Avevo capito che aveva pianto le stesse lacrime che io avevo
versato per Cosimo.
Avevo
capito che era tutto vero.
Mio padre
era morto. Morto. Morto. Morto.
Come
Cosimo. Come Rosanna. Morto.
Non
sarebbe tornato mai più.
Improvvisamente,
mentre intrecciavo le dita sul gambo del fiore, mi
venne da pensare che avrei preferito che fosse scomparso ancora una
volta, come dieci anni fa. Mi sarei arrabbiata tremendamente con lui e
avrei urlato contro chi mi narrava storie assurde cercando di
consolarmi, ma in segreto avrei serbato il sogno che lui, un giorno,
tornasse.
Pensai
che ancora non sapevo dove fosse scomparso in quei dieci anni,
quando era sparito come se fosse stato inghiottito da una qualche
stregoneria. E adesso non lo avrei mai saputo.
Probabilmente
il ragazzo, quel Farid che mio padre si portava dietro
come un cagnolino, ne era a conoscenza. Ma, piuttosto che chiederlo a
lui, mi sarei tagliata le vene.
Lo
detestavo con tutta me stessa. Una parte di me avrebbe voluto non
vederlo mai più, avrebbe voluto che venisse fagocitato da
una qualche maledizione arcana e invisibile, ma un’altra
avrebbe voluto incontrarlo per strada, per potergli scaraventare
addosso tutto il rancore che sentivo dentro.
Se non
fosse stato per lui, adesso mio padre sarebbe stato ancora vivo.
Mi
sfregai gli occhi contro un polso.
Ero
stanca. Stanchissima. Avrei voluto rannicchiarmi nel letto che
avevo condiviso con Cosimo e dormire, dormire, e non svegliarmi mai
più.
Ma non
era possibile. Fra un po’ me ne sarei dovuta andare, e
avrei continuato a trascinare avanti la mia vita, o quello che ne era
rimasto. Con le ceneri delle mie giornate.
Chissà,
pensai, alzando il fiore davanti ai miei occhi, se
mio padre e Cosimo si trovavano nello stesso luogo. Solo per quella
domanda avrei voluto mettermi a piangere di nuovo.
Adesso le
venature rosse dei petali mi ricordavano il fuoco che mio
padre sprigionava dalla punta delle dita, che radunava in boccioli di
fiamma per farmi sorridere. E ci era sempre riuscito. Anche quando ero
tremendamente arrabbiata con lui, davanti agli spettacoli che allestiva
per me, e solo per me, non ero mai riuscita a trattenere un sorriso.
Con il
dito della mano che non reggeva il fiore, disegnai sul bordo del
pozzo, in linee invisibili, il nome di Cosimo. Non appena alzai il
polpastrello, era come se non avessi mai fatto il gesto di scrivere
qualcosa.
Anche lui
se n’era andato così. Mi aveva salutata
con un bacio e un sorriso sfrontato e fiducioso –
già pregustava la vittoria sul calore della mia bocca
– e poi non era più tornato indietro.
Lo avevo
aspettato a lungo e, come la principessa della canzone, lo
avevo aspettato invano.
Presi una
ciocca dei miei capelli nel pugno e la tirai avanti, per
osservare i riflessi che il sole creava su quel ciuffo. Pensai a quante
volte Cosimo aveva sfiorato la mia chioma con le sue carezze; pensai a
tutte quelle volte in cui mi ero sentito dire che avevo gli stessi
capelli di mio padre.
Mi morsi
un labbro.
Volevo
vedere Jacopo, lo volevo così tanto che mi sarei
messa a singhiozzare davanti alle guardie, e al diavolo
l’orgoglio, come non lo avevo mai rinnegato prima.
Ma sapevo
che Violante non me lo avrebbe permesso.
Da quando
io e lei eravamo diventate nemiche?, mi chiesi, nonostante
conoscessi già la risposta.
Da quando
mi ero sentita completa tra le braccia di Cosimo. Da quando
avevo ballato e cantato per suo marito, per il padre di suo figlio, e
l’avevo lasciata sola.
Mentre
un’aria leggera mi soffiava piano tra i capelli,
ripresi a mormorare mestamente quella canzone. Ad ogni nota facevo a
pezzi il fiore con espressione assorta, strappando con gesti secchi
quei petali e gettandoli sul fondo del pozzo.
Se il
bianco era la purezza di Cosimo, anche l’innocenza
poteva annegare nella cupidigia altrui.
Se il
rosso era il fuoco di mio padre...
L’acqua
le spegne, le fiamme, sai?
Spazio della scriter... autrice:
Come avrete capito (almeno spero, sennò questa one-shot
è proprio da buttare) questa cosa
è ambientata
tra Veleno d'inchiostro e Alba d'inchiostro. La Funke non dice con
precisione quando Violante abbia cacciato Brianna, o almeno credo.
Forse è più probabile che lo abbia fatto meno
tempo dopo la morte di Cosimo, ma mi stava a cuore l'ambientazione
accanto al pozzo vicino al castello dal quale stava per andarsene, e
volevo anche che pensasse sia a Cosimo che a suo padre, quindi sono
partita dal presupposto che Brianna se ne sia andata dal castello di
Ombra quando già era stata informata della morte di Dita di
Polvere.
Personalmente lei è un personaggio che mi è
sempre piaciuto, specialmente per quanto riguarda il suo rapporto con
il genitore. Cosimo, invece, mi sta abbastanza sulle scatole, ma spero
che la mia antipatia non abbia rovinato il testo (sempre che ci sia
qualcosa da rovinare).
Il fatto che non si stia strappando i capelli per la disperazione
è voluto. Lei soffre, certo, ma nel momento che ho cercato
di ritrarre dovrebbe essere come estraniata al proprio dolore. Non so
se mi spiego: il succo è che in realtà questa
indifferenza è solo il troppo dolore che le intontisce i
sensi, per dirlo in maniera molto poco poetica.
E sì, so che l'ultima frase è al presente a
differenza di tutto il resto, ma spero non stoni. Per me è
un salto più a fondo nei pensieri di Brianna.
Ah, vorrei chiarire che la persona che Brianna ricorda ogni volta che
vede la propria immagine non è Cosimo, bensì il
proprio padre.
Riguardo alla citazione di Rosanna, non mi sono proprio potuta
trattenere. So che Brianna non cita mai la sorella... ma, accidenti,
anche se è passato molto tempo... era la sua sorellina,
insomma. Non penso possa mai dimenticarla.
Grazie a chi leggerà, spero di non aver rotto a nessuno con
questo angolino poco ino.
Ah, e se volete farmi un regalo... fatemi sapere.
.Pepe.
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