Lo fissavo senza dire una parola, mantenendo la mia sfrontata maschera
d’indifferenza ben salda al volto. Non osavo interrompere
quel momento, che mi pareva ben più sacro di una processione
o funzioni religiose. Era il mio momento.
Non mi persi un particolare. Lui era lì, in tutto il suo
fascino etereo, e le distrazioni non erano permesse. Le sue labbra
sfioravano il microfono, come per giocarci e sedurlo: la voce scorreva
fuori, leggera eppure potente, avvolgendosi intorno a te e stringendoti
nella sua morsa letale. Ogni singola nota ti colpiva nel profondo e
pareva giocasse anche con te, con i tuoi sensi e il tuo cuore, che
batteva a mille: quel turbine di emozioni ti scuoteva, e senza che te
ne potessi accorgere la canzone era già finita;
così come sembrava esser durata pochi secondi, dentro ti ha
lasciato la stessa emozione che può provocartene una di nove
minuti.
Ed ecco la successiva, che implicava l’uso del pianoforte.
Cristo, no. Me ne andai, fingendomi impassibile a quel crescendo
accompagnato dalla sua voce. Lo detestavo.
L’avevo visto solamente una volta, mentre suonava. Ed era
osceno. Le sue dita scorrevano sui tasti, toccandoli leggermente e
rilasciando note che s’intrecciavano con
continuità impeccabile: lui era chino sullo strumento, le
labbra dischiuse e un velo di sudore a imperlargli la fronte, ed era
totalmente preso da ciò che stava facendo che neppure la mia
voce poteva distrarlo.
Mi aveva sempre detto che la mia voce era la cosa migliore per
richiamare la sua attenzione… mi ero sentito tradito. E
quando m’ingelosisco, persino di uno strumento, è
la fine.
Che diavolo stavo facendo nel backstage? Dovevo tornare a casa, e
subito, prima di compiere qualunque pazzia come mio solito. Eppure, il
leggero senso d’ansia che dominava il mio petto mi suggeriva
di restare, e aspettare in tranquillità.
Mi passò di fianco e neppure ci fece caso… era
solo. Lo trascinai per un braccio, portandolo dietro un ammasso di
scatoloni, intimandogli di stare zitto. Neppure tremava, quella testa
di cazzo. La mia mano salì lungo il suo braccio, arrivando
alla spalla, sfiorando il profilo del collo e della mandibola,
giungendo fino alle sue labbra umide e rosse… vi posai un
bacio violento e sofferto, conscio che fossi totalmente fuori di senno,
eppure non accennavo a smettere. Lui non oppose resistenza, e nemmeno
reagì al bacio: rimase ad aspettare, le labbra che parevano
di granito in un colpo solo, gli occhi bene aperti che indagavano nei
miei.
Che cosa speravi di trovarci? Ripensamento? Ira? Passione? Odio? Nulla
di tutto questo: solo la più pura e stupida gelosia, per
quello strumento col quale ormai convivi da qualche tempo, per il quale
mi hai abbandonato.
Le tue mani erano ferme e gelide. Le posasti piano sulle mie spalle,
allontanandomi da te, e anche le labbra si divisero. Ti guardai, e
ammisi di non averti mai trovato più bello. Sbattei le
palpebre, cercando di ricacciare le lacrime al loro posto: ma tu
rendevi vano il mio sforzo.
"Smettila di fare la puttana, Brian."
E sparisti di nuovo, lasciandomi da solo, a leccarmi le ferite. A
fumare l'ennesima sigaretta, per estraniarmi dalla realtà.
Solo ora mi rendo conto di quanto sia stato cretino.
Ti vedo poco più tardi, all’uscita, di fronte alla
maledetta limousine. Sei col tuo compagno di band, quello biondo e
sempre alla moda, con quello stupido sorriso stampato costantemente sul
volto. Lo guardi, nello stesso modo in cui osservi la tua chitarra
prima di un live. Lo baci con veemenza, e al separarsi delle vostre
labbra ti sorride vittorioso. Sa che è lui ad aver vinto il
tuo cuore.
E non sa con chi ha dovuto giocarsela: una puttana e un pianoforte.
Ook, Envie è approdata anche qui XD la mia creaturina. Spero vi piaccia ;)
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