Quella
notte, quando l’immagine di un velo setoso e logoro, impalpabile, mortifero e
delicato le si era impressa per sempre nella coscienza, anche lei aveva urlato
forte il suo nome, ma nessuno lo
aveva sentito perché Harry aveva gridato più forte, molto più forte di lei, e
forse, alla fine, il suo amore non
era poi così grande paragonato al suo, forse, alla fine, non era la sua voce che lui
avrebbe voluto sentire. Forse, alla
fine, se ne era andato senza nemmeno riuscire a scorgerla – e forse davvero era stato molto meglio così.
Tiny vessels oozed into your
neck
And formed the bruises
That you
said you didn't want to fade
But they did, and so did I that
day
(DEATH CAB FOR CUTIE, Tiny
vessels)
1.
Ritornava
spesso distrattamente, mentre scriveva solerte e veloce gli appunti della
lezione, a quel pomeriggio in cui Grimmauld Place odorava di thé. Forte thé nero
che di tanto in tanto lei mitigava con del limone portato dentro casa di
contrabbando, come una pessima inglese: tagliava a metà il frutto giallo e duro
– senza che Molly intervenisse con la bacchetta, ma con mani e coltello, per
sentire la lama e le gocce chiare respirate dalla pelle e vedere quel cuore
aspro all’improvviso pulsare davanti a lei – e bucandolo con una forchetta ne
spremeva una metà sulla tazza. Un’abbondante metà. Il the si schiariva,
diventava ambrato e il pensiero sfuggente di un’oscurità scampata con pochi,
rassicuranti gesti domestici la tranquillizzava; quella rinnovata chiarezza
bollente che stringeva tra le mani era come uno stendardo di ragione contro
quella richiesta che Molly, la cara carissima innocente e inconsapevole Molly le
aveva fatto qualche secondo prima, trasformandosi all’improvviso in una qualche
malefica e lontana strega contessa delle Fiabe, tutta intenta ad impartire
ordini incomprensibili ai più fortunati, chiari e dolorosi a quelli abbandonati
dalla buona sorte. Nel suo personalissimo caso, Hermione, pensò poi, faceva
parte di quelle persone baciate dalla fortuna che vanno allegri e inconsapevoli
ad obbedire al loro destino, senza esitazioni, senza la visita di nessun
infausto presagio, nessun avvertimento; va’a a chiamare quei due, aveva detto
dall’alto della sua rossa figura e Hermione ricorda di aver sorriso
diligentemente e aver messo a freddare la sua tazza di the prima di iniziare a
salire verso il quinto piano dove quell’uomo dal volto rugoso divorava
Harry rimettendo insieme memorie rotte, scheggiate in troppi punti per poter
riformare di nuovo un’immagine distinta. Che uomo crudele, si era ritrovata a
pensare ad un gradino sì e ed uno no: quale poteva mai essere l’utilità di un
passato che appartiene solo a lui? In quale condivisione poteva mai sperare
tra lui ed il suo figlioccio? Scuoteva la testa pensando agli occhi incantati di
Harry mentre seguiva le labbra di Sirius sciorinare nomi di eroi (Lily James Remus James James James tutti
noi) e decantarne le loro imprese: sembrava di essere ogni volta ad una
lezione di storia tenuta da un professore troppo entusiasta. Imbarazzante, pensava, mentre evitava
con la forza dell’abitudine i gradini che scomparendo tentavano di impedirle di
arrivare in cima: si sentiva un po’ come una pellegrina che nell’ascesa al monte
tentava di espiare chissà quali colpe. Chissà quali colpe, rifletteva spiandoli
dall’uscio, quali colpe, quali peccati
originali, quali pensieri impuri…
Le davano
entrambi le spalle: tanta era la tenerezza che quel gesto infantile di sporgersi
l’uno verso l’altro, quasi per chiudere fuori il mondo, le procurava. Erano
così, loro due, si legittimavano con la possanza del tempo perso,
irrecuperabile, con la fame degli anni sprecati, dei bambini a cui è stata
negata una parte di vita. Ecco i due
verbi della giornata, memore di un gioco che faceva da piccola insieme alla
madre, avere e afferrare. Habeo, habitum,
abitudinis. Afferrare un oggetto, qualcuno, e non lasciarlo mai più, come si fa
da infanti. Mosse le dita della sua mano destra a pugno, guardando il
profilo di Sirius, i suoi capelli ondulati, indovinando il celeste febbricitante
dei suoi occhi, i solchi sul suo volto, i primi segni di una vecchiaia venuta a
reclamare il proprio carattere di esperienza nella collezione di
quell’uomo che aveva vissuto troppo intensamente; delicatamente le dita si
richiusero su di loro, solo l’indice, lui solo indugiò ad accarezzare il pollice
in un gesto confidenziale, sentito, doloroso, consolatorio. Hermione strinse gli
occhi e sorrise mentre bussava sul legno dello stipite con la mano sinistra e fu
tutto come aveva previsto. Gli sguardi di sorpresa di chi è interrotto nel mezzo
di una conversazione piacevole da una seccatura amabile, sì, ma pur sempre non
richiesta, non desiderata – era sempre così che Harry la guardava quando saliva
per chiamarli ed era sempre così che
avrebbe voluto che Sirius la guardasse mentre lo faceva. La sua voce squillante
e appena amareggiata (quel giusto che bastava per farla sentire in colpa) si
mescolava ai passi che tamburellavano sugli scalini – quando Hermione sentì la
pausa procurata dallo scalino vuoto trovò, come ogni volta, il coraggio di
alzare lo sguardo sull’uomo che gli stava di fronte.
«Ehi »
«Sapevi che
Cristo aveva la tua età quando morì? Trentatré anni » disse sbattendo le ciglia.
Sirius rise spostando lo sguardo da lei all’arazzo, cercando tra i parenti.
«Trentatré
ne avevo quando mi salvasti,
Hermione. Dici che anche lui è qui? Non si troverebbe male tra tutte queste
celebrità » concluse sorridendo indicando con un gesto della testa il nero
albero genealogico in cui lui era uno dei rami a cui era stato dato fuoco.
Glielo avessero almeno lasciato, quel ramo, avrebbe potuto costruirsi la sua
croce da solo, ma evidentemente quello era un privilegio a cui non poteva
aspirare.
C’era
qualcosa, in quelle conversazioni che spingeva Hermione avanti. Sirius avrebbe saputo dare a
quella spinta invisibile un nome – mentre lei richiamava principi di fisica
inapplicabili, lui avrebbe detto una sola, probitissima, parola. Dall’alto della
sua veneranda e divina (e profetica?) età lui avrebbe fatto scorrere quelle nove
lettere fino a lei, le avrebbe pazientemente ricomposte e prendendole il dito,
le avrebbe fatto leggere la parola, a voce alta e chiara, più e più volte,
finché senza voce non le sarebbe rimasta che la forza di sussurrare con voce
roca e graffiata il suo nome.
«Cosa gli
stavi raccontando questa volta, mh? Di quali rocambolesche ed epiche avventure
av-»
« Il mio primo bacio. Che in effetti fu una gran bella avventura.
Epica, come hai giustamente precisato – disse voltandosi verso la finestra alle
sue spalle -, in quanto successe ancor prima che i tuoi decidessero di farti
nascere, pensa »
Hermione
rimase interdetta, conscia all’improvviso di aver camminato per interi minuti
allegramente su un campo minato, fiduciosa di uscirne incolume, fiera e senza un
grammo di polvere sui vestiti. Forse non era l’orgoglio il peccato dei Grifoni come
lei, dopo tutto, forse era qualcosa di molto più ingenuo e semplice. Sirius la
guardò volgere lentamente il collo bianco verso la scala dietro di lei, poi
tutto il corpo, poi, di nuovo il collo, questa volta verso di lui che era
rimasto indietro, nella luce che la finestra proiettava sul pavimento. Era
ferma, la mano destra stretta a pugno, la sinistra sul fianco e quando parlò, fu
più giusto dire che soffiò.
«Molly ti vuole giù»
2.
Ora capiva
perché ricordava. Il mio segreto,
sussurrava, è una memoria che a volte
agisce per terribilità¹: era stata la comprensione di quanto impossibili i loro comportamenti erano
stati durante quei giorni d’estate a scuoterla dal torpore in cui le ore
pomeridiane la gettavano. Era stata la pagina di una pozione, un ingrediente,
una pugnalata.
Hogwarts
ristagnava nella luce mentre i suoi ricordi agitavano forte le acque scure in
cui navigava: si appigliò forte agli angoli rigidi dei libri che aveva di fronte
per non annegare. L’unica volta in cui Sirius aveva davvero rischiato di
compromettere entrambi era successo sul suo collo: parlava dell’acqua che colava
dai suoi capelli bagnati, del forte odore di ortica che a zaffate lo
raggiungeva. Hermione ricorda perfettamente che le si era avvicinato, e lei, lei
non si era voltata affatto perché l’asciugamano era troppo corto per coprirla
interamente e non voleva che Sirius osasse vedere non tanto la sua nudità,
quanto il suo essere acerba . In quei mesi era di questo, che aveva paura: di non essere
pronta per i suoi occhi, delle risa che il suo corpo banale avrebbe suscitato,
di quell’uomo impossibile e vago con cui due Hermione costantemente si
misuravano ogni giorno. Allora si era limitata a chiudersi forte il telo sul
petto e ad aspettare che come un
mare lui l’attraversasse e passasse oltre, che come la marea si ritirasse
lontano, lontano, lontano,
invadendola senza toccarla.
All I see are dark Grey clouds
In
the distance moving closer with every hour
So when you ask "Is something
wrong?"
I think "You're damn right there is but we can't talk about it
now.
No, we can't talk about it now.
(DEATH CAB FOR CUTIE, Tiny
vessels)
Se c’era
qualcosa al numero 12 di Grimmauld Place che non mancava mai, era l’acqua fredda
– cosa che, se d’inverno poteva risultare problematica, d’estate lo era il
doppio perché quasi tutti i bagni a quasi tutte le ore del giorno e della notte
risultavano occupati da qualcuno semisvenuto e boccheggiante. Lei, Ron ed Harry
avevano scovato un bagno piccolissimo al quarto piano con appena i servizi e la
vasca e lo difendevano con i denti e la segretezza di una setta, senza rendere
partecipi della scoperta né i gemelli, né tantomeno Ginny che si aggirava per i
piani bassi con uno sguardo di tanto in tanto interrogativo.
Hermione si
era aggiudicata tutto il pomeriggio (cosa che, beninteso, le era costata una
mattinata piena per compilare due diversi modi per preparare una pozione capace
di attraversare più tipi di Fiamme Incantate) e quando chiuse la porta dietro di
sé sentì l’eco del suo sonoro respiro di sollievo.
Spogliandosi, mentre l’acqua già scorreva nella vasca e il
profumo del vino d’ortica ribolliva nell’aria, Hermione ripensò ad un altro tipo di vino che i gemelli avevano
portato a casa e con cui avevano promesso di rallegrare la serata: non si
sarebbe meravigliata se quella sera più di qualcuno sarebbe crollato. C’era
troppa voglia di sfogare contro se stessi e gli altri la frustrazione che lo
stare immobili in questa casa procurava – dal canto suo, taceva quando vedeva
Sirius battere il pugno sul tavolo e andare via scuro in volto, come un animale
furente a cui era stata donata una prigione più grande e meglio conosciuta della
precedente. Quindi, se quella sera si sarebbe fatta baldoria, aveva deciso che
avrebbe partecipato. Aveva quindici anni, un’estranea voglia di divertirsi, e
viveva in un tempo di guerra: l’acqua fredda che sapeva d’ortica la faceva
rabbrividire, l’odore troppo forte quasi le dava la nausea, si sentiva
eccessivamente viva in una casa simile ad una grande carcassa piena di ricordi e
parenti e storie a cui lei non apparteneva e che la ospitavano malvolentieri.
Oggi non sarebbe andata ad interromperli. Oggi no, pensò appoggiando la nuca sul
bordo della vasca, i capelli sgocciolanti sul pavimento. Avrebbe risparmiato a
tutti la tortura della sua presenza e a se stessa quelle poche frasi smozzicate
che le davano da pensare per giorni e giorni, come un logorio di acqua sulla
pietra. E lei era infinitamente più morbida della roccia.
A volte lui
parlava volutamente di cose che lei non conosceva. Questo lo aveva capito
presto, così come ne aveva compreso la ragione: era un gioco nuovo, che l’aveva
divertita in un primo momento, ma poi infastidita. Sirius non era un suo professore. Sirius
non aveva nulla da insegnarle, quel sussurro di cose nuove era un’esperienza che
lei non aveva chiesto di provare: le bastava la sua vita e lei, al contrario di
lui, ne aveva un’intera davanti. Trentatre anni, si disse, sono anni profetici: avrebbe dovuto morire
come un dio, anni fa. E come un dio perfetto, non macchiarsi di un amore
(singhiozzò all’improvviso quando pensò questa parola) così, puerile, improbabile, fasullo,
falsamente pedagogico, impossibile.
Si mise a
canticchiare, quasi con una punta di disperazione, mentre piano piano, prima
dell’ultima parola si immergeva nell’acqua.
« In between what I find is pleasing
and I'm feeling fine…love is so confusing there's no peace of mind… Once I had a
love and it was a gas, soon turned out had a heart of
glass…²»
Quando uscì
dalla vasca, sgocciolante e felice di quel piacere racimolato in quel bagno
nascosto, sorrise ripensando alla canzone che si era ritrovata a cantare: cosa
certa era che, se avesse davvero
avuto un cuore di vetro, avrebbe dovuto barattarlo presto con uno di latta. Meno
prezioso, ma più resistente. Qualcosa che si potesse riempire di ammaccature
senza rompersi; se mai fosse caduto, Sirius lo avrebbe raccolto e così come
faceva con i suoi ricordi frastagliati, avrebbe tentato di ricomporlo a modo
suo, trasformandolo in qualcosa di estraneo all’originale. Ed Hermione sapeva
bene di non voler fare quella fine. Quando Sirius parlava, quei ricordi come
pezzi di vetro correvano tra le sue labbra e le orecchie dell’ascoltatore: alla
fine ne uscivano feriti entrambi, confusi ed increduli per un dolore di parole che non avevano mai considerato.
In quell’estate, Hermione non aveva ancora letto Shakespeare: era ancora nell’età dell’innocenza.
Le orme che
i piedi nudi e bagnati lasciavano sul pavimento scomparivano dopo poco ed
Hermione avrebbe dato la colpa al caldo non fosse stata a conoscenza
dell’incantesimo Autopulente di Molly: eppure c’era un che di profetico in
quelle impronte che svanivano così presto. Perse qualche secondo a guardare il
pavimento che sembrava quasi assorbirle: svanivano ad una ad una, quasi con
ritmo, quasi con gioia. Cosa mai
avrebbe potuto dir loro per trattenerle per un altro po’? Come convincerle a
restare? Quelle orme legittimavano e riconoscevano la sua presenza lì, in quella
casa, perché mai allora sparivano così in fretta?
Sirius si
mosse all’angolo del corridoio, salendo le scale: la vide di spalle, chinata, le
gambe tese, la nuca scoperta e china verso il pavimento. La vide nell’ombra,
avvolta da un panno bianco, con i capelli gocciolanti sul collo e sulla schiena,
l’acqua che scendeva sotto l’asciugamano, lungo la curva della colonna
vertebrale: pensò a quelle gocce come a delle piccole navi, a lei come ad un
immenso oceano – a se stesso come ad un
livido.
Le si
avvicinò, muovendosi sulle scricchiolanti assi di legno che segnalarono
indiscrete la sua presenza; Hermione si voltò girando appena il collo (un maremoto di proporzioni catastrofiche si
abbatté su di lui a guardarla così, a vederla così piena di acqua e ombra)
la mano scattante in un gesto convulso verso il seno, il palmo aperto contro il
telo e il petto: Sirius mosse nervosamente la sua, si guardò indietro e poi mise
un passo avanti all’altro. Quando fu dietro di lei, sentì i suoi brividi, il suo
tremore e, con distacco registrò la sua paura: fu ad un tratto consapevole della
sua bellezza, di quei capelli chiari e bagnati, del corpo bianchissimo, delle
caviglie esili piegate come pronte per ballare, fu consapevole dei suoi quindici
anni e della sua età di Cristo ritardatario, di quelle due decadi che
separandoli decretavano una sentenza gentile ed inappellabile. Allora Sirius
decise che, davvero, Hermione era bellissima – ma che per lui non significava niente, non
poteva significare niente di più.
Dietro di
lei, tese il braccio poggiandosi al muro: non si toccavano, c’era ancora una
manciata superstite di centimetri tra il petto di lui e la sua schiena; Sirius
chinò il viso verso la sua nuca tesa e rigida, posò inesorabilmente le labbra
sulla pelle bagnata, quel lembo di pelle chiaro subito dopo l’attaccatura dei
capelli, e premette prima leggermente, poi con più pressione, tenendola appena
per la spalla. Alla fine si staccò da lei e considerò il risultato: anche lui,
ora, aveva lasciato il suo livido su di lei. Non ci sarebbe stato incantesimo
per mandarlo via velocemente – o almeno, non per adesso.
Si volse e
la lasciò sola, sul pianerottolo.
Hermione
abbassò gli occhi, pregando sommessamente di vedere almeno qualche chiazza sul
pavimento, l’immagine vaga di un’impronta, un residuo d’identità, un ricordo,
qualcosa, qualsiasi cosa.
3.
Chi per la
prima volta vede la Bellezza, sa per
certo di dover assistere anche al suo declino: non è una legge, né
un’imposizione – è un corso naturale. Quando quella notte al Ministero Sirius
vide Hermione fuggire e nascondersi tra i detriti e le rovine, pensò di tenere
gli occhi ben aperti per non perderla di vista: aveva deciso che se mai quella
sarebbe stata la loro ultima notte sulla Terra, sarebbe stata felice, perché piena del suo viso.
Invece non era andata così. Ma in cuor suo, lui l’aveva sempre saputo che si
trattava solo di un desiderio sbagliato e senza significato. Hermione era
davvero, davvero bellissima ma non
c’era un posto per lei nella sua vita.
Non era solo
un problema di età sbagliata; non
solo quello almeno. Era una questione
ben delineata di ruoli che si escludevano a vicenda e che eliminavano ogni
interpretazione, ogni sfumatura. Sirius passò oltre con l’urlo di Harry nelle
orecchie ed il volto pallido e folle di sua cugina negli occhi: non c’era stato
tempo di cercare Hermione, né tantomeno ci sarebbe stato motivo per farlo.
Hermione,
seminascosta, lo vide inciampare e poi sfumare – si sentì piena di acqua, senza
aria. Annaspò nell’ombra del suo nascondiglio, con un dolore da orfana di cui
non aveva il diritto.
4.
Due anni
dopo Hermione si trova nuovamente in Grimmauld Place n°12. Gli incantesimi sono
deboli, la sporcizia è tanta e lei, Harry e Ron si muovono in una condizione
forzata di ombra continua. Davanti alla porta della vecchia stanza di Sirius c’è
ancora più sporco che in altre parti e lo spessore della polvere è così alto che
Hermione può scrivere una frase prima di scendere di corsa verso il piano terra.
You said you didn’t want to fade,
but you did and so did I that day.
***