Il sogno
Lei
con i suoi capelli color del grano maturo, era la cosa più
bella che avessi mai...visto? No Immaginato!
Era
magnifica mentre avanzava delicata come il vento, tra fronde di edera
che ricadevano dai grandi pergolati, o si
avventurava tra le fronde dei tanti salici piangenti che ricoprivano
il villaggio. Accarezzava con i polpastrelli le piccole foglie, come
se con la sua fragile mano potesse danneggiarle, e le spostava con
parsimonia che neanche il vento avrebbe tenuto.
La
sua figura avanzava leggiadra come le più dignitose ninfe, ma
il lieve rossore delle guance avrebbe rivelato tutta la sua umanità.
La
sua figura era avvolta da un lungo abito azzurro, che sul davanti
teneva leggermente alzato e racchiuso in una mano, la parte
posteriore era invece una cascata risplendente che cadeva sull'erba
morbida del prato, muovendone delicatamente i fili al suo passaggio.
La
luce del sole che filtrava dagli alberi più grandi illuminava
a tratti la sua figura, mentre la seguivo, mantenendo lo stesso passo
lento, dietro di lei.
I
raggi illuminavano i suoi capelli, così che le perline e le
piccole decorazioni che incastrate tra questi mandavano ogni volta
dei piccoli abbagli di luce, rendendo le onde dei suoi capelli ancora
più belli, ancora più invitanti, come una danza
tentatrice.
Camminava,
perfetta e quasi silenziosa, l'unico suono era la carezza dei suoi
piedi davano all'erba.
Quale
altra figura poteva vantare questo intercedere?
Continuava
imperterrita, come se niente la fermasse, e io stavo dietro di lei,
non consapevole se la ragazza sapesse o no della mia presenza,
attratto da questa misteriosa ragazza umana.
L'unico
rumore oltre quello degli alberi sembrava essere quello del fiume,
che ad ogni passo sembrava avvicinarsi, fin quando questo non fu alla
nostra vista, in quel momento il suo cammino ebbe un attimo di
esitazione, rimase per pochi secondi a guardarlo e poi riprese verso
questo.
L'acqua
scorreva veloce, il pendio del fiume poco più avanti, più
ripido e ciottoloso faceva si che l'acqua fluisse qui ancora con il
suo corso veloce e armonioso, riempiendo l'atmosfera del suo
sciacquettìo, per niente fastidioso.
Ella
avanzò fino al prato sul bordo del fiume. Qui si fermò
rimirandolo e fece scendere completamente la veste, per poi
abbandonarsi prima in ginocchio e infine seduta sul prato.
L'azzurro
luminoso della sua veste risplendeva sul verde brillante e ricco di
vita dell'erba.
Raccolse
un fiore da questo, era bianco, a gambo corto, e aveva cinque petali
lunghi e appuntiti che si riavvolgevano su se stessi, lo conoscevo,
erano i fiori che crescevano solo da queste parti, e solo lungo
questo fiume, pochi erano i popoli che avevano avuto la fortuna di
vederli e sentire il loro profumo, aromatico e dolce, o amaro e
pungente, oppure ancora delicato e fresco, nessuno sapeva dire se
quei fiori avessero un loro odore, o solo se facessero si, che noi
sentissimo ciò che volevamo, fatto sta che questi assumevano
per ognuno l'aroma che più ci attraeva.
E
lei era li, con il fiore in mano, ma non parlava, avrei tanto voluto
chiedere, quale fosse l'odore che lei sentiva, ciò che la
attraeva, ma non lo feci.
Già
il fatto che sia qui è per me stupefacente, nessuna creatura
apparte la nostra ha mai varcato i confini del nostro territorio.
Poi
finalmente, il mio miracolo, il mio miraggio si volta e guarda me, sa
della mia presenza e forse ne è sempre stata consapevole, il
suo volto tondo, giovane e delicato mi fissa, e io fisso lei, il suo
naso mi rimanda un luccichio, di un piccolissimo brillantino, le sue
labbra, sono serene e distese in un sorriso serafico che lascia
intravedere appena i denti, le labbra rosse spiccano nel suo volto
pallido, se non fosse per le guance leggermente arrossate.
Gli
occhi, quelli sono una storia a parte, il loro colore è
indescrivibile, si direbbe che son blu, ma si potrebbe anche pensare
che sia grigio, la sua è una sfumatura non definibile, e che
forse non ha eguali in natura, ma che è bella, profonda.
La
sua mano si solleva alta sopra la sua testa, poi si volta, porgendo
verso l'alto il palmo nella mia direzione.
Solo
allora mi accorgo che è un invito, che non voglio,
assolutamente, mancare.
Una
passo, due, la sua mano è a soffio della mia quando tutto
scompare.
Non
sono in piedi, non c'è nessun prato, fiore o ruscello e
soprattutto non c'è lei.
Sospiro
mettendo a fuoco, il soffitto della mia camera. Lentamente passo la
mia mano sopra gli occhi riportando per un attimo il buio. Pregando
di poterla rivedere.
Ma
sono sicuro che la rivedrò, domani notte, come tutte le notti
a seguire, e come quelle passate, ma mai potrò sfiorarla, mai
potrò avere più del suo sorriso e della sua vista.
Mi
alzò a sedere dalla branda di legno, scosto la mia coperta
marrone, faccio scendere i piedi a terra, e passandomi un'altra volta
la mano tra i capelli sconsolato, mi alzo, i gambali delle miei
pantaloni calano nuovamente fino alle caviglie, e mi stiro,
allungandomi e distendo i muscoli, afferro la canotta beige e la
infilo, lo stesso faccio con la giacca, che stringo con la cinghia
intono alla vita. Comincia a starmi corta, dovrebbe arrivarmi fino a
fine coscia, invece arriva poco più giù dei fianchi.
Sono cresciuto e i vecchi abiti di papà non mi entrano più,
tra qualche decennio, quando mio fratello sarà più
grande saranno suoi. Cammino per casa, passando vicino alla cucina
dove mia madre sta preparando il pane fresco, di segale. E arrivo in
bagno. Riempio la ciotola, grazie alla brocca d'acqua e mi sciacquo
ben bene, se non fosse stato tanto bello, vorrei allontanarmi dal
sogno. Quando rialzo il volto lo asciugo, scontrandomi con il mio
riflesso nello specchio.
I
miei capelli neri, ne corti ne lunghi e trasandati, moto di orgoglio
e di ribellione, sono la disperazione di mia madre, dovremmo avere
tutti capelli lunghi e diciamo quasi tutti ne hanno, tranne me?
Non
so il perché ma li ho voluti tagliare dopo la morte di mio
padre, e dopo allora l'ho sempre rifatto, anche se noto
l'indignazione, nessuno si è mai azzardato a dirmi niente,
limitandosi ad osservarli.
I
miei occhi grandi, scuri e leggermente allungati, scrutano la mia
figura, per finire sui miei orecchi, una piccola differenza che
portiamo rispetto a tutti gli altri semi-umani, le nostre orecchie a
punta.
Il
mio popolo sono gli elfi neri della prateria.
Questo
racconto è una storia che ancora non so se avrà un
seguito.
Intanto
è una metafora, come mille altre storie immagino, sui sogni,
sui nostri desideri, e sull'amore, vero o immaginario che sia.
Se
vogliamo ci son anche accenni a conformismo, e razzismo ma non sono
così presuntuosa, non mi sbilancio in certi temi così
delicati.
Il
mio era solo un'idea immaginata in pallido pomeriggio, del mio sogno.
FunnyPink
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