Titolo: Un mondo di caramelle
Autore: LeFleurDuMal
Presentazione:
In un pomeriggio assolato, Giasone, responsabile
della servitù della Dodicesima casa, scopre un torbido segreto nell'ultimo
ripiano della credenza di Pisces.
Personaggi/Pairing: Aphrodite, Giasone (ma
compaioni anche DeathMask e Shura)
Genere: Commedia,
Fluff
Rating:
Verde
Note:
Ho scritto questa fanfic in un momento di profonda
disperazione, spero che possiate condividere con me il mio dolore. E ho mal di
pancia per le troppe caramelle. Una sfida. Io vi chiedo perdono. Davvero. Ma
dovevo farlo. Dovevo. (Giuro che posto anche le drabble di Milo e Camus. Lo
giuro!)
Un Mondo di
Caramelle
Aphrodite
E lo Zucchero
Aphrodite dei Pesci era un Gold
Saint da oltre dieci anni.
Ne aveva appena compiuti
diciannove e, per come la pensava il capo della servitù della Dodicesima Casa,
era solo diventato più arrogante, spocchioso e pignolo.
“Giasone. Ricordati di lavare la
verdura, per stasera”.
Pisces voleva sempre verdure per
cena: si lanciava in gelide, supponenti arringhe a proposito dello stile di
vita sano, della cucina leggera, dell’importanza che aveva nell’alimentazione
di un guerriero un giusto equilibrio nutrizionale, senza zuccheri, grassi e
altre porcherie simili. Lo ripeteva allo sfinimento anche quando Giasone
taceva, per amor di pace, chino su una zucchina fresca, appena recuperata al
mercato di Rodorio, dopo una scarpinata interminabile sotto il sole greco.
Aphrodite comandò con tutta la
grazia possibile, un sopracciglio sottile appena inarcato e i capelli gettati
elegantemente dietro le spalle. Poi alzò i dorati tacchi e sparì tra le
colonne, verso il rettangolo di luce bianca che era l’ingresso del Tempio, e
scese le scale, nello svolazzare del mantello candido.
Per incontrarsi con quei suoi
amici, pensò con dispetto Giasone, ficcando nell’acqua fresca le melanzane
per la cena. Quello con i capelli scuri, il Cavaliere della Decima Casa, ancora
ancora. Ma Cancer… Quel marmocchio terrificante! Con quegli occhiacci rossi
e il ghigno diabolico! Per forza Aphrodite viene su così male.
Scosse la testa. Non si rese
conto di stare pensando ad Aphrodite di Pisces, Cavaliere d’Oro di Athena, più
o meno come avrebbe fatto un padre apprensivo con il figlio scapestrato.
Si limitò a sfregare bene le
melanzane.
Aphrodite e Giasone convivevano
al Dodicesimo Tempio da molti anni ormai. Pisces come guardiano dorato,
consacrato alla dea dall’occhio azzurro – e a Saga di Gemini che aveva preso il
potere al Santuario in una notte feroce e che adesso si nascondeva sotto i
paramenti sacerdotali, certo, ma quello era un segreto – mentre Giasone se ne
stava lì come capo della servitù.
Ogni Sacro Guerriero d’Oro aveva
uno stuolo di servitori con l’unico scopo di tenere lindi i pavimenti, chiare
le decorazioni del timpano esterno e ben puliti gli alti colonnati; aveva una
fornita rosa di ancelle pronte a preparare il bagno, tenere in ordine le stanze
private del Gold Saint – proprio dietro al naos – cambiare sempre gli
asciugamani di lino nel bagno.
A dirigere le operazioni c’era il
capo della servitù, che doveva amministrare bene compiti e orari, affinché
tutto nel Tempio, fosse governato e orchestrato con la massima armonia.
Alla Sesta Casa questo compito
era affidato a Jasmina, una donna indiana che, si diceva, aveva seguito Shaka
fin dal fiume Gange, dopo la conquista di lui dell’armatura di Virgo, quando
era solo un bambino magro magro e biondo biondo. Piccola di statura e
sorridente, Jasmina si occupava di tutto facendo marciare servitori che
dovevano muoversi in punta di piedi, mentre il Cavaliere di Virgo meditava sul
suo seggio di pietra a forma di loto.
Ecco, a Giasone stava simpatica
Jasmina tanto quanto gli stava sulle palle Shaka il Buddha: sempre lì, serio
serio, col mento bene alto. Probabilmente immaginava che Virgo la
tiranneggiasse quanto Pisces facesse con lui, senza sapere che quella donna,
ormai matura e cotta dal sole dell’India, era considerata invece con grande
rispetto.
Al Quinto Tempio c’era Galan,
l’uomo tutto d’un pezzo, ma senza un occhio e con un braccio di metallo, da
quando aveva perduto un duello decisivo e aveva abbandonato il sogno di essere
Saint. Si occupava di Aioria di Leo – ombroso fratello del Sagittario – e proprio
alla Nona Casa di Sagitter si recava talvolta, a svolgere le mansioni di nuovo,
per tenere in ordine il Tempio deserto del defunto Cavaliere che l’aveva
storpiato.
Giasone non l’aveva mai capito.
All’Ottava Casa invece c’era
Tifi. Giasone la conosceva da tempo, quella bella giovane dai capelli ricciuti.
La conosceva da abbastanza per provare per lei un affetto sincero e una
compassione considerevole dal momento che doveva tenere testa al marmocchio di
Scorpio: diciassette anni e abbastanza ormoni in circolo da farlo correre come
un ghepardo su per la scalinata, fino all’Undicesima Casa, quando il giovane
Camus faceva ritorno dalla Siberia.
L’Undicesima Casa, ecco: se Camus
di Aquarius ne era custode latitante, impegnato nell’addestramento di due ragazzini,
nelle lande ghiacciate del nord, Argo ne era il custode più pratico,
amministratore domestico della pulizia e dell’ordine del Tempio.
Giasone e Argo erano amici fin
dall’infanzia.
Erano stati guerrieri, una volta.
Forse lo erano ancora, ma gli anni di servitù avevano quasi tolto loro il
ricordo di quei tempi, come se le memorie che conservavano appartenessero alla
vita di qualcun altro, ad una storia che fosse stata solo raccontata.
Spesso si incontravano, sullo
spiazzo dell’Undicesima Casa, e berciavano e borbottavano contro quello stuolo
di Mocciosi d’Oro che si credevano chissà chi, dandosi di gomito e fomentandosi
l’un l’altro, come facevano gli anziani nella piazza, giù a Rodorio, seduti
all’osteria.
Giasone era stato un guerriero
potente e abile, uno dei generali nelle fila di Hera, la Madre.
E adesso lavava le melanzane in
casa di Aphrodite.
Era il destino di chi aveva
tentato di nuocere ad un Cavaliere di Athena e aveva fallito: ogni tanto Pisces
lo sottolineava, leggiadro, in ricordo di quando Giasone l’energumeno aveva
cercato di rapirlo, appena ragazzino. Non gliel’aveva perdonata.
Giasone era stato un guerriero
pronto a tutto.
Ma in quel momento, mentre apriva
l’ultimo sportello della credenza della cucina alla ricerca di tagliere (quello
che non apriva mai perché, semplicemente, era così insignificante da passare
inosservato), nemmeno la prontezza di tanti anni prima gli sarebbe servita ad
evitare la tragedia.
Spalancò gli occhi azzurri, nel
terrore.
Non gridò nemmeno.
Poté solo rendersi conto del
pericolo imminente, ma già era tardi.
Poi le sue gambe vacillarono e
lui cadde a terra, in mezzo a un delirio di caramelle che cadevano dall’alto e
continuavano a cadere, stipate in chissà che modo.
C’erano orsetti gommosi, palline
di zucchero, chewing gum a forma di cocomero e confetti colorarti ripieni di
nocciole e cioccolato.
Continuavano a cadere gelatine
alla frutta e alla cocacola, leccalecca ancora incartati, qualcuno assaggiato,
ma subito incartocciato di nuovo per essere conservato, zuccherini colorati e
persino le rotelle di liquerizia, che adesso saltellavano sul pavimento,
rotolando fino al colonnato.
Giasone riprese fiato, sconvolto
e felice per essere sopravvissuto.
Osservò con distacco l’ultimo
cioccolatino ripieno ai frutti di bosco che dalla credenza cadde proprio tra i
suoi calzari, con delicata impertinenza. Solo quando anche quel debole rumore
lasciò spazio al silenzio accusatorio del Tempio, avvertì l’orrore montargli
dentro, soffocarlo.
Si sentì come la giovane
protagonista della fiaba che aveva scoperto la macabra stanza di Barbablù,
involontario esploratore di un segreto che tale sarebbe dovuto rimanere.
Aphrodite dei Pesci era un Gold
Saint da oltre dieci anni.
Ne aveva appena compiuti
diciannove e, per come la pensava il capo della servitù della Dodicesima Casa,
era solo diventato più arrogante, spocchioso e pignolo.
Aveva continuato a frequentare
cattive compagnie - quello con i capelli scuri, il Cavaliere della Decima Casa,
e Cancer, con quegli occhiacci rossi e il ghigno diabolico – e a volere ostinatamente
solo verdure per cena. Un Gold Saint, del resto, deve mantenere un certo stile
di vita sano e una corretta igiene alimentare.
Quello che con gli anni non era
mutato era l’incredibile, irrefrenabile, allettante bisogno di zuccheri. Da
bambino, sotto lo sguardo di DeathMask di Cancer (a metà tra il completo
terrore e la completa ammirazione), Aphrodite aveva riempito di gommose alla
frutta un panino dolce e l’aveva sbranato con gusto nella pausa pranzo dopo
l’allenamento, al bordo dell’arena.
Da quel momento, le cose non
erano migliorate.
Adesso sedeva al tavolo della
Decima Casa, nella luce dorata del pomeriggio che inondava la stanza, e sorbiva
elegantemente cucchiaiate di gelato alla fragola dalla coppetta che Shura gli
aveva messo davanti.
“Smettila di guardarlo così”.
Shura scosse la spalla di Cancer: aveva sulla faccia la stessa espressione che
aveva avuto all’arena davanti al panino ripieno di caramelle, dieci anni prima.
“E ‘staminchia, Ciuriddu”.
Sussurrò DeathMask, gli occhi rossi tondissimi e la faccia allungata dalla
sorpresa dietro la tazza di caffè nero. “Secondo te come accidenti fa? Non
muore per il troppo zucchero? E con quella roba rosa con cui si ingozza sembra
che si sia pittato le labbra!”
Shura scosse la testa, impotente
davanti alla resistenza del Gold Saint di Pisces, e Aphrodite sorrise, sornione
e ineffabile, affogato nella dolcezza del gelato e nella propria,
insindacabile, superiorità.
Del resto, in quella stanza, uno
diceva di essere il capo, l’altro pensava di esserlo e il terzo esercitava la
carica in sordina. Andava avanti così da sempre.
Aphrodite socchiuse gli occhioni
azzurri, soddisfatto. Quel pomeriggio era di ottimo umore e qualunque cosa
fosse successa, non sarebbe stato nulla che un dolcetto della sua riserva
segreta non avrebbe potuto appianare.
Si concesse un momento per
passare mentalmente in rassegna i suoi tesori nascosti: c’erano orsetti
gommosi, palline di zucchero, chewing gum a forma di cocomero e confetti
colorarti ripieni di nocciole e cioccolato. Aveva moltissime gelatine alla
frutta e alla cocacola, leccalecca ancora incartati, qualcuno assaggiato, ma
subito incartocciato di nuovo per essere conservato, zuccherini colorati e
persino le rotelle di liquerizia, che piacevano anche a Shura. E poi i suoi
preferiti, i cioccolatini ripieni di frutti di bosco.
La cosa che gli fece allargare il
sorriso, perfino davanti al caffè nero di DeathMask, fu la dolcissima,
appagante consapevolezza di quel rozzo bracciante di Giasone che lavava melanzane,
ignaro del bottino diabetico nascosto proprio sopra la sua testa.
Si concesse un sorrisetto:
Giasone non avrebbe scoperto mai il suo segreto e avrebbe continuato a pelare
zucchine fino a quando la grande Meridiana dello Zodiaco sarebbe rimasta al suo
posto.
Si infilò in bocca l’ultima
cucchiaiata di gelato.