Capitolo
II: “ Necklace and new beginning”
Estrasse il cellulare
dalla tasca sinistra dei jeans.
Era ancora spento:
misura di sicurezza adottata da quando la sua suoneria, ad un volume
assurdo, aveva interrotto un discorso del suo boss.
In mondovisione.
Ed Inghilterra lo
aveva rimproverato fino
a limite del sopportabile.
Lo riaccese, dicevamo,
e nel momento stesso in cui lo fece, ricevette una miriade di notifiche
di nuovi messaggi vocali.
Sospirando,
digitò il numero della segreteria e si mise in ascolto,
mentre continuava a camminare attraverso il parco presidenziale.
Premette un tasto che
gli avrebbe fatto ascoltare tutti i messaggi in successione continua.
“Bonjour, mon cher
Amerique ! Joyeux anniversaire! Anche se
quest’anno non hai voluto dare una festa ti ho preso comunque
un regalo. Pare pero’ che sia illegale nella maggior parte
dei tuoi Stati. Quindi sarebbe meglio che lo venissi a ritirare di
persona. Ti aspetto.~”
“F-Francis!!
Non usare q-quel tono con mio fratello, lo spaventerai! Ah, H-happy Birthday, brother!”
“Mais oui, mon cher Mathieu!
Farò come dici. Ma non devi essere geloso~”
“F-Francis,
cosa fai?! Mettimi giù!”
“Ohayo, America-kun! O-tanjō bi
omedetō! E’ un giorno importante per te e spero
lo passerai in modo adeguato. Al prossimo meeting mondiale, ti
porterò un piccolo pensiero che ti ho comprato: è
un videogioco a sfondo horror ancora non in commercio. Spero gradirai
il mio regalo.”
“Ve~, Giappone,
dammi il telefono un attimo! Auguri America! Io e il mio fratellone ti
abbiamo preparato una scultura di pasta! Germania dice che non
è un’idea molto intelligente, ma sono sicuro che a
te piacerà, vero? Poi la puoi anche mangiare. E la pasta
è la cosa più buona del mondo, quindi…
“
“Feliciano,
chiudi la dannata chiamata, la bolletta costa!”
“Lovino,
calmarse!
Lascia che tuo fratello faccia gli auguri ad America..”
“Tu
sta zitto, Antonio!”
“Sì,
sì, fratellone, ora spengo! Ciao America, buon
compleanno!”
“Ayah! Ciao America,
Shēngrì
kuàilè, aru! I fuochi
d’artificio che ti ho spedito sono arrivati? Sono fantastici,
te lo assicuro, aru…”
“Certo,
perché si sono originati da me!”
“Corea,
ridammi i telefono, COREA!”
“Mister
America, su gimtadieniu!
Spero passerà una bella giornata!”
“Sì,
tipo, Urodzinowe
Życzenia! Anche da parte del mio pony.”
“Liet~
Cosa stai facendo?”
“Uh-uh,
salve signor Russia… Fa-facevo gli auguri ad America con
Polonia…”
“Ah!
Дорогой America
oggi compie gli anni, hai ragione! Lascia che gli faccia gli auguri
anche io!”
“Tipo,
Russia, fai in fretta e ridai il telefono a Toris!”
“Da,
da…America, С
Днем Рождения! Ho una proposta per te, sai, come regalo di
compleanno… Diventa uno con Russia!”
America rise
nell’ascoltare i messaggi.
Nonostante tutto
quello che aveva combinato negli ultimi anni, i suoi
“colleghi” non avevano ignorato il suo compleanno.
Certo, Russia faceva
paura, e Francia stava molestando il suo gemello (come si chiamava? Ah,
sì, Canada!) al telefono, ma erano comunque
auguri.
E non si aspettava dei
regali, non quell’anno almeno. Dopotutto, la sua crisi
economica aveva influenzato anche gli altri stati, e non pensava
fossero così inclini a regalargli
qualcosa.
A quanto pare, avrebbe
dovuto ricredersi.
Continuò ad
ascoltare i messaggi. Uno da parte dei Nordici, degli insulti da parte
di Cuba, un invito a bere fuori da Prussia…
Non esattamente quello
che voleva sentire.
Perché era quasi sicuro di
quello che voleva sentire.
D’altra
parte, non poteva aspettarsi davvero niente, e lo sapeva bene. Avrebbe
dovuto fare lui la prima mossa.
Stava per comporre il
numero di Inghilterra sul suo cellulare, quando quest’ultimo
lo avvisò con un sonoro “bip” che la
batteria era completamente scarica.
“Shit!” imprecò
tra sé.
Doveva andare a casa,
ed usare il telefono fisso.
Allora, si mise a
correre, ed uscì velocemente dalla tenuta.
Attraversò il più velocemente possibile le strade
ormai gremite di gente venuta ad assistere alla parata che sarebbe
iniziata di lì a poco.
Normalmente si sarebbe
unito alla folla, avrebbe gridato “God
bless America” insieme agli altri, avrebbe
chiacchierato con qualcuno dei suoi cittadini usando il suo nome umano;
ma non quel giorno.
In effetti, quello che
stava vivendo non era di sicuro un compleanno comune.
Corse ancora a
perdifiato finché non si trovò di fronte
all’entrata della sua villa.
Fece per estrarre le
chiavi, ma notò che la porta era semi-aperta.
Si
accigliò. Chi poteva essere entrato in casa sua? Un ladro?
Preventivamente,
afferrò la mazza da baseball che teneva appoggiata accanto
al capanno degli attrezzi ed entrò silenziosamente in casa.
Appena fu entrato,
tese le orecchie per captare qualche suono inusuale.
Sentì un
ovattato rumore di passi provenire dal piano superiore, ed allora
salì furtivamente le scale, volendo mantenere nascosta la
sua presenza.
In quel momento, si
sentiva Indiana Jones, pronto a bloccare qualche maledetto ladro di
tombe.
Più si
avvicinava alla sua camera, più il rumore aumentava.
Un ladro di tombe pervertito.
Probabilmente Francia.
Lentamente, molto lentamente,
iniziò ad aprire la porta.
E, davanti a lui,
trovò qualcosa che davvero
non si aspettava.
Non c’era
Francia, a rovistare nel suo cassetto della biancheria o a nascondere
giornaletti erotici sotto il suo letto come aveva immaginato.
No, c’era Inghilterra.
…Che
piegava e riponeva sotto il cuscino il suo pigiama, quello che aveva
lanciato sul suo letto quella mattina.
Beh, non che si
aspettasse che lui
rovistasse nel suo cassetto della biancheria.
Lo stupore
lasciò spazio alla curiosità, ed allora
aprì completamente la porta, e fece qualche passo
all’interno della stanza, proprio mentre Inghilterra aveva
iniziato a rifare il letto.
“Non ti
disturbare, Inghilterra. Rifare il letto quando sta sera ci
dovrò ritornare è abbastanza inutile, non
pensi?” chiese quando fu abbastanza vicino.
Inghilterra
sobbalzò per la paura, e si voltò lentamente
verso la fonte della voce, sperando non fosse chi pensava che fosse.
Le sue paure si
materializzarono in due grandi occhi azzurri che lo fissavano curiosi
di fronte a sé.
“Bl-Bloody hell,
America! Mi hai terrorizzato, maledetto idiota! Co-cosa ci fai
qui?”
“Beh,
sai…Questa è casa mia. Ci abito.”
Rispose America grattandosi la nuca.
“Oh
sì, beh…Non dovresti essere a festeggiare?”
Cambiò argomento l’altro.
“Beh, ecco
io…” Stavo
tornando a casa per chiamare te. “Mi ero
dimenticato…una cosa a casa e sono tornato a
prenderla!” rispose nervosamente America.
“Oh.”
Uno scomodo silenzio
cadde tra i due.
America avrebbe voluto
chiedergli un milione di cose: cosa faceva in casa sua, in camera sua, quello
specifico giorno dell’anno.
In quel momento,
notò un piccolo pacchetto appoggiato sopra il cuscino. Era
una scatolina avvolta in carta da regalo rossa, bianca e blu, ed un
cartellino pendeva dal lato del pacchetto.
“Iggy…Cos’è
quello?” chiese alzando gli occhi sulla Nazione di fronte a
sé.
“Qu-Quello
cosa?” rispose Inghilterra spostandosi di lato,
così da coprire con il suo corpo la visuale
dell’oggetto ad America.
“E’
un regalo, Iggy? Un regalo per me?”
domandò ancora America, la speranza che trapelava dalla sua
voce, come quella di un bambino davanti ai regali di Natale.
“Not at all!
Perché avrei dovuto portarti un regalo oggi?”
America iniziava a
pensare che Inghilterra avesse perso la capacità di
formulare un’espressione che non fosse una domanda.
Poi, registrato il
significato dell’ultima frase pronunciata
dall’altro, assunse un’aria interrogativa.
“Perché…E’
il mio compleanno…?”
Inghilterra
boccheggiò un momento, per poi chiudere la bocca ed
abbassare lo sguardo.
“Beh,
tecnicamente oggi non
è il tuo compleanno…”
borbottò la Nazione.
“Ah
no?” rispose l’altro, alzando un sopracciglio.
“Jamestown,
ti dice niente?” rispose l’altro, irritato.
“E Roanoke Island? Pensavo conoscessi la tua stessa
storia…Abbiamo anche festeggiato, un po’ di anni
fa.”
America
sbuffò.
“Ero solo Alfred, allora. Non
ero ancora gli United
States of Awesome.” Sorrise “E si, mi
ricordo quando abbiamo festeggiato. Per diciotto mesi eri ubriaco una
sera sì e l’altra anche. Non molto diverso dal
solito, ora che ci penso…”
“ Awesome non è
una parola, you git.
Smettila di uccidere la mia bellissima lingua solo per ingigantire il
tuo già bloody huge
ego.” Ribatté l’altro “E non
darmi dell’alcolizzato, maledetto idiota!”
“La nostra lingua,
Iggy. Ho il diritto di migliorarla.”
Commentò America divertito. Sperava che Inghilterra
cogliesse l’ironia e non la prendesse come un’
offesa.
“Solo
perché sono stato così gentile da permetterti di
usarla, non significa che non me la possa riprendere.”
Esclamò Inghilterra, con un piccolo sorriso sottile, stando
al gioco.
“Mh, non
penso tu possa farlo. Sai, non sono più la tua piccola colonia.”
Replicò l’altro senza pensare.
Si pentì
subito di ciò che aveva appena detto.
Il sorriso leggero
sparì dalle labbra dell’altra Nazione, che
spostò lo sguardo verso un punto del muro che in quel
momento riteneva particolarmente interessante.
“Sì.
Sì, lo so.” Sussurrò.
“I-Iggy,
aspetta. Non volevo, io…” iniziò
America, titubante.
“America, non dire
stronzate. Tu volevi eccome.” Lo interruppe l’altro
con voce calma.
“Oh no.”
pensò America. Avere a che fare con un Inghilterra
arrabbiato non era facile, ma lui era preparato. Ma un Inghilterra
così silenzioso era molto, molto peggio.
“Inghilterra, Arthur…”
“Non mi
chiamare così!” esplose l’altro.
“Non mi chiamare con il mio nome.
Quello stupidissimo soprannome, “Iggy”,
lo posso sopportare, ma quello no!”
America rimase a bocca
aperta, non riuscendo a cogliere il senso del discorso
dell’altro.
“Cosa?”
Inghilterra lo
guardò ostile.
“Non capisci
vero? No, ovviamente no… Non puoi capire.”
America iniziava ad
irritarsi.
Perché lo
trattava come un bambino? Non era più
un bambino, non lo voleva essere. A maggior ragione agli occhi
dell’altro.
“Se non mi
spieghi, come diavolo posso capire?”
ribatté America.
Inghilterra ribolliva
di rabbia.
“Se sei
così bloody
oblivious da non capire da solo, non vale la pena
discuterne!”
America
grugnì frustrato.
“Io non ti
capisco! Prima ti trovo in camera mia, nella mia
villa… Come diavolo sei entrato, a proposito?”
chiese all’improvviso, ma non gli lasciò il tempo
di rispondere. “Nevermind,
poi stiamo parlando normalmente, io dico una cosa stupida e ti chiedo
scusa…Poi tu mi urli addosso che sono un idiota senza
nemmeno dirmi il perché!”
“Perché sei un
idiota” rispose all’improvviso la
Iggyscienza.
“E LA VUOI SMETTERE DI
PARLARE NELLA MIA TESTA?” urlò poi ad
alta voce.
Inghilterra lo
guardò confuso.
“Nella tua
testa…?” domandò sorpreso.
“Uhm,
sì beh, ecco… Tu, io…”
borbottò America, arrossendo e dandosi dell’idiota.
Lo sguardo di
Inghilterra si addolcì un po’.
Aveva ragione lui,
America era davvero
ancora una piccola colonia. Almeno a volte.
Di nuovo, il silenzio
cadde tra i due.
Inghilterra chiuse gli
occhi un secondo.
Sospirò,
poi fece qualcosa che non avrebbe assolutamente voluto fare.
Si voltò
verso il letto di America e prese tra le mani il pacchetto che America
aveva visto.
“Questo…
Questo è per te.” Disse, e mise senza troppo
cerimonie il pacchetto tra le mani dell’altro, che lo
guardava con gli occhi spalancati.
“America, ti
prego, sbatti le sopracciglia. Sembri un maledetto pesce palla
così.” commentò Inghilterra imbronciato.
L’altra
nazione allora fu trasportata di nuovo nella realtà.
Certo che i loro
litigi erano davvero unici nel loro genere, considerò tra
sé.
Soppesò il
pacchetto tra le mani, accarezzandone la carta ed il fiocco elegante.
Prese l’etichetta tra le mani, dove Inghilterra aveva scritto
“to
America” con la sua inconfondibile grafia. Lo
scosse, per tentare di capire cosa ci fosse all’interno,
guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’altro.
“Aprilo e
basta!” ordinò irritato Inghilterra.
“Lasciami
divertire, old
man. E’ il mio compleanno, un po’ me
lo merito.”
Inghilterra
roteò gli occhi e gli fece cenno di muoversi.
America sorrise tra
sé: adorava stuzzicare Inghilterra in quel modo, anche se
probabilmente non l’avrebbe mai ammesso.
Con i movimenti
più dolorosamente lenti (per Inghilterra almeno) dei quali
poteva fare uso, scartò il pacchetto, trovandosi tra le mani
una piccola scatola di legno, intagliata con una grande aquila reale.
La riconobbe immediatamente. L’aveva fatta lui, quando aveva
solo cinquant’anni o giù di lì.
Aveva voluto imitare
Inghilterra e provare anche lui ad intagliare qualcosa. Si ricordava di
essersi tagliato, quel giorno, e di come il suo
“fratellone” lo avesse consolato mentre piangeva,
di come lo avesse coccolato per tutta la giornata come se fosse la cosa
più preziosa del mondo.
Non pensava davvero
che Inghilterra l’avesse tenuto.
“Sai, la
puoi aprire…” commentò sarcastico
Inghilterra, anche se la sua voce era inquinata da una gentilezza
inconsueta, come se anche lui fosse tornato indietro nel tempo con la
memoria.
America, per una
volta, obbedì.
Quando aprì
la scatola, ne trasse fuori una collana d’argento, alla quale
era agganciato un pendente d’oro. Quel pendente consisteva in
un drago rampante, che sapeva essere il simbolo della città
di Londra, i cui occhi erano due corniole, le pietre del coraggio e
della forza d’animo. Riconobbe subito anche
quell’oggetto, e fu colpito da un ricordo ancora
incredibilmente vivido.
“Fratellone!
Che bella collana hai!”
“Ah,
questa? E’ un regalo della regina…”
Gli
occhi di America si spalancarono.
“Davvero?”
“Davvero.”
Ad
America brillavano gli occhi.
“Wow!
E perché te l’ha regalata?”
“Perché
è un modo per dirmi che è orgogliosa di
me…E’ orgogliosa della sua Nazione.”
America
sembrò pensieroso un momento.
“Arthur?”
“Sì?”
“Tu
sei orgoglioso di me?”
Inghilterra
fu sorpreso dalla domanda, ma sorrise comunque.
“Certo
che lo sono! Sei una brava colonia, Alfred.”
America
scosse la testa.
“No,
no! Volevo dire…Sei orgoglioso di me?”
Inghilterra
rimase senza parole per un po’, senza rispondere.
Poi
colse il significato dietro le parole del più piccolo.
Sorrise,
e scompigliò i capelli della sua colonia preferita.
“Ti
risponderò quando sarai più grande. Quando
sarò orgoglioso di te, avrai questa collana.”
Ad
Alfred si illuminarono gli occhi, ed abbracciò forte il suo
fratellone.
“Allora
avrò quella collana, così sarai orgoglioso di me,
Arthur.”
Inghilterra
sorrise, e strinse più forte la sua piccola colonia al petto.
America
alzò gli occhi verso Inghilterra.
“Arthur,
tu…”
“Te
l’ho già detto, non mi chiamare
così.” sbottò Inghilterra,
interrompendolo.
“Arthur.”
Continuò America, ignorandolo. “Tu
sei…Orgoglioso di me?”
Inghilterra
arrossì.
“Non pensavo
te ne ricordassi.” Commentò a mezza voce.
L’espressione
di America era ancora incerta, ma un sorriso si stava facendo spazio
sul suo viso.
“E’
per questo che sei venuto a casa mia, sperando fossi ancora fuori a
festeggiare? Per lasciarmi questo regalo?”
Inghilterra
annuì, lo sguardo ancora lontano dagli occhi
dell’altro.
“E
perché non mi hai semplicemente detto che saresti passato,
invece di fare tutto di nascosto?” domandò ancora
America.
Inghilterra
borbottò qualcosa che somigliava ad un “per evitare
questo.” Senza guardarlo in viso.
America prese un
respiro profondo, e chiuse gli occhi.
Era il momento per
dire quello che rimuginava da tutta la mattina.
“Arthur,
vorrei che tu mi ascoltassi, ora.” Iniziò America,
guardando l’altro.
Inghilterra
alzò lo sguardo su di lui, ed annuì, sorpreso
dall’improvvisa quanto inusuale serietà nel tono
di America.
“Sai
perché sono tornato prima a casa oggi?”
L’altro
scosse la testa in segno di diniego.
“Beh,
perché volevo chiamarti…”
“Chiamarmi?”
“Sì.”
Dopo un attimo di
silenzio America prese un grande respiro e continuò.
Era un eroe, ce la
poteva fare.
Anche se in quel
momento si sentiva tutto tranne che un eroe.
“Volevo
dirti che nonostante tu sia vecchio, brontolone, pignolo, vecchio
stile, noioso…”
Inghilterra
sbuffò.
“America,
non farmi pentire di averti lasciato parlare…”
“…Mi
manchi.”
Ad Inghilterra si
mozzò il respiro.
“What?”
“Mi manchi. I miss you.”
“Questo
l’avevo capito ma… Ti manco? Non mi sembra che non
ci vediamo proprio mai…Ci sono i meeting, le
riunioni…”
America scosse la
testa.
“Ma oggi, il quattro di
luglio, tu non ci sei mai. Il giorno del mio compleanno,
Arthur.”
Inghilterra prese un
grande respiro.
“America, tu
sai cos’è per me oggi…” disse
piano.
“Sì,
Inghilterra! I
know damn well! E tu, tu sai cos’è
oggi per me?” replicò America, lasciando
l’altro a bocca spalancata, incapace di
rispondere.
“Duecento trentatré anni! Così tanto
tempo ed ancora tu non hai capito che per me oggi non è solo
il giorno in cui me ne sono andato da te, è il giorno in cui
sono nato!
Il giorno in cui io pensavo mi avresti dato questa dannata collana!
Invece sei sparito per anni,
fino a quando i nostri boss non hanno deciso che era ora di fare
qualcosa e hanno iniziato a riavvicinarsi. Ma durante le riunioni eri
sempre così dannatamente distante. E sparivi
di nuovo ogni quattro di luglio.”
Allora Inghilterra
recuperò la sua capacità di parola, che pensava
di aver perso completamente.
“Cosa volevi
che facessi? Che fingessi
che non fosse cambiato niente? Avevo perso una colonia, avevo perso il
mio onore!” fece una pausa. “ Avevo perso te. Hai idea di
quanto mi facesse male? Di quanto mi fa male?”
America si fece
sfuggire un risolino.
“Che
c’è di così divertente?”
“Nulla,
pensavo al mio compleanno dell’anno scorso, quando sei
scappato via…”
“Quando ho lasciato velocemente il luogo.”
Lo corresse Inghilterra.
America rise in
risposta.
“Siamo
davvero patetici…” commentò Inghilterra.
“Già…”
rispose America ridacchiando ancora.
Di nuovo, il silenzio
cadde tra loro, ma non durò a lungo.
“Come here.”
Soffiò Inghilterra.
“Eh?”
rispose pateticamente America arrossendo.
Perché quel
tono, all’improvviso?
“Vieni qui,
idiota… Ti metto la collana…”
borbottò Inghilterra.
America allora si
avvicinò, ed allungò il gioiello ad Inghilterra.
Si guardarono un
momento, poi Inghilterra sbuffò.
“Siediti.”
Ordinò.
“Perché?”
America lo fissò confuso.
Inghilterra
borbottò qualcosa troppo silenziosamente perché
America lo sentisse.
“Scusa?”
chiese America.
“Seitroppoalto.”
Confessò Inghilterra tutto d’un fiato.
America sorrise,
orgoglioso di sé stesso, e si sedette sul letto, sprizzando
fierezza da tutti i pori.
“Questo
momento è appena andato a finire dritto nel tuo ego,
vero?” sospirò Inghilterra.
“Yep.”
Inghilterra
roteò gli occhi, e si era già posizionato dietro
America per chiudergli la collana attorno al collo, quando lui lo
fermò.
“Ehy,
aspetta, non è che l’hai maledetta o qualcosa di
simile, vero?” chiese America preoccupato.
“No, ma sto
iniziando a pensarci. Ed ora stay still!”
sbottò Inghilterra.
America rise, ma
obbedì.
Inghilterra, allora,
fece passare le braccia attorno al collo di America, facendo cadere la
collana sopra il suo petto.
America trattenne il
respiro inconsciamente, e si lasciò andare alla meravigliosa
sensazione delle braccia del suo ex-tutore attorno alle sue
spalle. Inghilterra, da parte sua, indugiò un secondo in
quella posizione.
“Ha sempre avuto le
spalle così larghe?” si chiese, prima
di stringere leggermente la collana attorno al suo collo, e di
chiuderla.
America allora prese
tra le dita il pendente, e ne saggiò la superficie con la
punta dell’indice.
“Ti
piace?” chiese Inghilterra, notando il movimento di America.
“Beh, sai,
Francia mi ha regalato una statua un po’ di tempo
fa…” rispose con un sorrisetto malizioso.
Inghilterra
sbuffò.
“Oh, quindi
stai paragonando il mio
regalo a quello di quel blasted frog?”
chiese Inghilterra fingendo offesa.
America rise. Poi
un’idea si fece largo nella sua mente.
“Forse. Ma,
se vuoi, c’è un modo per dimostrare che il tuo
regalo è il migliore.”
“Cioè?”
America, allora, si
girò lentamente verso l’altro.
“Potresti
aiutarmi a scrivere un nuovo capitolo della storia Americana. Anzi,
della storia di Alfred
F. Jones.” Disse piano, avvicinandosi.
“Un eroe che
mi chiede aiuto? Sono lusingato da tale proposta.”
Commentò sarcastico l’altro.
“Arthur,
così rovini l’atmosfera…”
replicò America, ormai a pochi centimetri dal suo viso.
In quel momento, il
pirata che c’era in Inghilterra decise di uscire, e di dire
la sua.
“Non me ne
frega un cazzo della stupida atmosfera. Just kiss me
already, you wanker!”
E chiuse la distanza
tra loro.
Certo, non era
esattamente come America l’aveva immaginato, ma non se la
sentiva di lamentarsi.
Si lasciò
trascinare da quelle labbra con secoli in più di esperienza,
facendosi stendere sul suo letto ancora sfatto, e rispondendo al bacio
con tutta la forza che aveva.
Non che aspettasse
questo momento da secoli, naturalmente.
Si era solo lasciato
trasportare dal momento, ecco tutto.
“Avanti, ammettilo,
che ti costa?” commentò la
Iggyscienza.
Ma America era troppo
occupato ad essere incredibilmente felice per rispondere alla stupida
vocina.
Perché
avrebbe dovuto, quando l’originale era molto, molto
meglio?
America aveva portato
le braccia attorno al collo dell’altro, ancora schiacciato
contro le coperte. E lo stringeva come se ne andasse della sua stessa
vita.
Ad un tratto, senza
preavviso, Inghilterra si staccò dalle sue labbra, le guance
deliziosamente arrossate e l’espressione da pirata che ancora
aleggiava sui suoi tratti.
“Alfred…”
America
sentì un brivido corrergli giù per la spina
dorsale nel sentire il suo nome pronunciato dopo tutti quegli anni.
Ed in quel modo
dannatamente sexy.
“Mh?”
“Happy Birthday, you
git…” sussurrò
Inghilterra, ripiombando sulle sue labbra.
America sorrise nel
bacio.
Era il quattro luglio,
il giorno del suo compleanno, il giorno in cui era nato come Nazione.
Era il giorno nel
quale aveva abbandonato la protezione (o tirannia?)
dell’Impero Britannico, per camminare da solo e per
rivolgersi verso un futuro incerto, ma pur sempre un futuro.
Ancora oggi non era
certo di come quel futuro avrebbe deciso di manifestarsi, aveva ancora
tante, troppe,
faccende in sospeso.
Eppure, in quel
momento, stretto ad Inghilterra e con il suo orgoglio appeso al collo,
si sentiva pronto ad affrontare qualunque cosa.
Anche la perversione
di Francia e il rubinetto di Russia, se necessario.
Era un eroe, e non si
sarebbe tirato indietro.
Quello, ne era certo,
sarebbe stato un nuovo inizio.
Fine
secondo capitolo
NOTE
DELL’AUTRICE:
Ebbene sì, ho
postato anche il secondo capitolo! Ma non è finita, state
pronti per l'epilogo/omake che ho in sebro per voi!^^ Grazie alla
giudicia che ha postato il giudizio tra le recensioni, chi ha messo la
fic tra i preferiti, chi tra le seguite e chi tra le ricordate (ma
questo sistema confonde solo me? @_@)
Allora, tanto per mettere in chiaro una cosa, nella mia testa
Inghilterra non è un povero uke indifeso (non ce lo vedo
proprio) ed America non è sempre un seme (secondo me
è anche molto insicuro) come spesso vengono dipinti del
fandom. Secondo me, i loro caratteri sono troppo sfaccettati per avere
una definizione ed un “ruolo” precisi nella loro
relazione, infatti mi piacciono proprio per questo.
Così come America non è sempre un idiota ed
Inghilterra non è sempre
imbronciato. Lo sono solo per la maggior parte del tempo.
E poi ho
davvero una fissa per Pirate!England, quindi…
Detto ciò,
ecco le referenze storiche/culturali/varie ed eventuali di questo
capitolo:
·
Tutte le parole straniere che vengono usate nei messaggi
telefonici degli altri stati significano “buon
compleanno” o “auguri”, tranne la prima
parola di Russia, che significa “caro”.
·
Tutte le traduzioni in questa storia, ad eccezione
dell’ inglese, francese e giapponese, sono state prese da
google translator, quindi sentievi liberi di correggermi.
·
Quando America si riferisce a Francia come “ladro
di tombe”, lo fa riferendosi alla campagna archeologica
francese in Egitto del periodo napoleonico.
·
Quando Inghilterra parla del fatto che tecnicamente la
nascita di America non sia il quattro luglio, si riferisce alla prima
colonia inglese (Jamestown)
e alla “colonia perduta” (Roanoke
Island), fondate nel 1607 la prima e qualche anno prima la
seconda.
·
Quando America parla del riavvicinamento dei loro boss, si
riferisce alle due decadi precedenti la WW1, durante i quali si
attuò il cosiddetto “Great
Rapprochement”, cioè il grande
riavvicinamento di obbiettivi politici, sociali e culturali tra Regno
Unito e America.
·
Quando America parla del regalo di Francia, intende
naturalmente la statua della Libertà.
Bene, mi sembra ci sia tutto!
Per favore, fatemi
sapere cosa pensate della mia fic!
Kissu,
A_DaRk_FeNnEr
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