Tutto passa, e il tempo scorre.
Cose che parevano impossibili si
fanno vicine senza
che neppure ci sia il tempo di accorgersene. L’animo
guarisce. Il corpo si
rigenera. La vita va avanti, veleggiando verso la sua fine.
Il giorno in cui lasciai
l’ospedale, avevo paura.
Paura di lasciare quel posto che sapevo, altrimenti, mi avrebbe
protetta,
impedendomi fisicamente di fare ciò di cui avevo paura. Mi
avrebbe protetta da
me stessa.
Eppure l’animo si arma di
incredibile coraggio di
fronte alla possibilità di un rinnovamento, aprendosi
all’opportunità di
ottenere qualcosa di migliore, quello a cui sempre l’uomo
agogna. Qualcosa
di migliore.
Edward mi strinse la mano, e mio
padre mi posò la sua
sulla spalla. Ricevette il mio sguardo perplesso e imbarazzato, e, no,
non fui
certa che quel gesto mi facesse stare meglio. Ma sembrava proprio che
dovesse
essere così, e si sa, l’uomo ha anche la
capacità di rendere reale ciò in cui
crede.
Tutti mi riservarono una calorosa
accoglienza. Mia
madre si era temporaneamente stabilita a casa di mio padre, e la cosa,
inizialmente, mi destabilizzò non poco. Non osavo
accarezzare e contemplare
l’immagine di loro due insieme.
Cominciai, invece, a rendermi conto
di quanto dovessi
accettare quello che era così com’era. Phil venne
a trovarci, due volte, e
mamma cominciò a tornare più spesso a casa.
Ingoiai il magone, la prima volta,
e pensai pure a quanto fosse interessante osservare mio padre che si
relazionava con loro.
«Phil, vuoi vedere la
partita? Oh, è quasi
cominciata…».
Li osservavo dalle scale,
raggomitolata sui gradini.
«Conosci una tavola calda
qui vicino? Sai Charlie» e
la sua voce si abbassò «Reneè ha una
spiccata fantasia in cucina…».
Il suono delle loro risate mi fece
sussultare, e li
fissai con ancor più sorpresa. Sembravano rilassati mentre
parlavano di mamma. «Oh,
i primi anni era anche peggio».
Eppure, quando decisi di scendere
le scale, si
tirarono su, lanciandomi occhiate cariche di contegno. E mi chiedevo
perché
facessero così. Mi sentivo male pensando che la mia presenza
potesse indurre un
tale cambiamento del loro comportamento. Come facevo a capire quali
fossero i
loro sentimenti? Perché tutto non poteva essere
più semplice?
Lo avrei potuto chiedere a Edward,
l’unica persona con
cui mi aprissi così tanto. Ma lui non c’era, in
quel momento, e il pensiero
della sua assenza mi fece stringere in un nodo lo stomaco e girare la
testa.
«La cena è
quasi pronta tesoro, di là c’è
Reneè…».
Annuii, dirigendomi in cucina.
Nessuno mi chiedeva mai
se avessi o meno intenzione di mangiare. Evidentemente, non rientrava
nel
programma dato loro dalla mia psicologa, con la quale avevo frequenti e
puntuali contatti.
Mangiavo ad orari prefissati,
cinque pasti al giorno. Non
c’era mai molta gente mentre lo facevo, ma non ero mai
neppure sola. Il dolore
post operatorio era quasi scomparso ormai, e riuscivo a consumare
tranquillamente i pasti.
Un modesto piatto di riso al
pomodoro comparve dinanzi
ai miei occhi. Tutto il cibo di cui mi nutrivo era semplice e privo di
particolari condimenti. Mia madre si sedette accanto a me e ne prese
una
porzione anche per lei.
«Va tutto bene
piccola?» mi chiese con una punta
d’ansia nella voce.
Non le dissi una sola parola, ma mi
feci volentieri
stringere fra le sue braccia. Il calore umano, il contatto con un altro
essere,
era il primo necessario passo per annullare quella solitudine che di
tanto in
tanto mi aggrediva da dentro.
Tutto passa, e il tempo scorre.
Cose che parevano impossibili si
fanno vicine senza
che neppure ci sia il tempo di accorgersene. L’animo
guarisce. Il corpo si
rigenera. La vita va avanti, veleggiando verso la sua fine.
Ero guarita. Il mio corpo stava
guarendo. La mia vita
andava avanti. Eppure, a volte, non troppo spesso quanto non troppo
raramente,
sentivo ricomparire la voragine che mi albergava in seno. Nessuno
poteva
guarirla. Né io, né nessun altro.
Basta un attimo. Un pensiero troppo
lento, un vuoto
troppo lungo. Un gesto, e la malinconia trasforma in amarezza. Un
altro, e
l’amarezza diventa tristezza.
Salii silenziosa per i gradini
delle scale, e non
entrai neppure in camera, ma andai direttamente verso il bagno,
chiudendo fuori
Minush che miagolava per stare con me.
Mi guardai allo specchio. Eppure,
faticai a
riconoscermi nella mia immagine. Avevo un groppo in gola, e una
vibrante
amarezza e tristezza mi avvolgeva da dentro. La mia mente vorticava
confusa, ma
non riuscivo a trovare nulla, proprio niente di niente, che potesse
farmi stare
meglio.
Era come se le lacrime si fossero
affacciate ai miei
occhi senza voglia di scendere sulle mie guance. Il senso di pesantezza
e
amarezza scese dalla gola alla pancia, e mi tolse il respiro, tanto da
costringermi a prenderne uno, profondo e intenso, e a reclinare il capo
all’indietro, come se altrimenti non sarei mai riuscita a
farlo passare.
Annaspai.
Sentii la nausea avvolgermi
intensamente, e automaticamente
mi voltai verso il water.
Mi avvicinai alla ceramica bianca e
vi posai i palmi
delle mani, appoggiandomi di peso. Chiusi gli occhi, sentendomi
soffocare,
sentendo la nausea impadronirsi di me. Provai a prendere altri respiri,
e
sollevai le palpebre.
Mi volevo liberare da quella
sensazione asfissiante,
che era arrivata così, senza senso, senza un motivo,
trascinandosi dietro solo
tanta tristezza. Volevo liberarmene.
Ma quello, mi avrebbe solo fatto
stare peggio. Edward,
i miei familiari, me stessa. Ci avrebbe fatti stare peggio. Male. Non
volevo
stare male.
Poiché dopo tanta pena
l’avevo capito. La vita è fatta
di alti e bassi. E dovevo solo aspettare che “i
bassi” passassero, possibilmente
senza disperarmi e soffrire troppo. Portai le mani sulla testa, che non
aveva
smesso un secondo di girare, e presi un respiro.
Fare quello che mi aveva fatto
stare così male. Ora.
Che ero così poco lucida per capire quello che stavo
facendo.
Non me lo potevo permettere. Non
potevo fare diventare
quel basso ancora più basso.
Con calma calcolata mi tolsi i
vestiti di dosso,
sfilandoli e facendoli ricadere in una pila ordinata. Mi sentivo la
mente
vuota, lo stomaco leggero, e il formicolio alla gola non mi aveva
abbandonata. Compivo
i gesti ordinari con calma e lentezza, esasperandoli quasi.
Entrai nella doccia, e aprii il
getto d’acqua tiepida,
lasciando che mi bagnasse completamente il corpo e i capelli. Feci
vagare
ovunque i miei pensieri, verso il nulla. Quell’agitazione mi
stringeva le
viscere non mi abbandonava.
Aspetta Bella, aspetta, mi dissi. Passerà,
aspetta solo che passi, e
tutto andrà bene.
Gemetti. Mi piegai su me stessa,
rannicchiandomi,
lasciando solo che il getto d’acqua mi colpisse la schiena.
Volevo restare così, a
non pensare a niente. Restare
rannicchiata su me stessa, con il rumore dell’acqua sulla mia
pelle, il tepore
che mi provocava in contrasto con i brividi che percepivo in ogni altra
parte
del corpo. Poggiai gli stinchi e gli avambracci contro le assi in legno
del
pavimento della doccia, e rimasi, così, a tentare di non
pensare a nulla.
Ma i miei pensieri vorticavano, e
ben presto me ne
trovai ancora sopraffatta.
Gemetti, ancora, sentendomi
soffocare.
Volevo piangere, piangere e
liberarmi di quel dolore
immotivato che era sopraggiunto così in fretta. Non senza un
certo sforzo presi
ancora un respiro, e sentii gli occhi pizzicare, e un formicolio
intenso
solleticarmi dalle ciglia al naso.
Un altro gemito mi
sfuggì dalle labbra. Il mio corpo
cercava automaticamente di liberarsi di quel male. Presi un respiro
più agevole
quando una lacrima mi percorse il viso.
La lasciai scivolare, senza
interrompere il suo
passaggio, fino al mento e poi fino al collo.
Tutti i miei successivi movimenti
furono sempre lenti
e calcolati. Mi fermavo spesso, procedevo senza fretta. Mi sentivo in
una strana
dimensione, ed ero sola. Mi potevo concedere di vivere con la mente
esattamente
dove avrei voluto essere.
Con lentezza esasperante abbassai
la maniglia della
porta del bagno, percorsi i passi, a piedi nudi sulla moquette soffice,
fino
alla porta chiara della mia camera. Sollevai la mano, le dita
increspate per la
lunga permanenza nella doccia, e aprii la porta.
Edward era lì, steso sul
mio materasso in una
posizione apparentemente tranquilla.
Sentii automaticamente la tensione
accumulata
dissiparsi in un istante. Come se la mia dimensione strana e mentale
dovesse essere
celata a qualsiasi occhio estraneo.
Quando mi infilai fra le sue
braccia, ancora bagnata e
con indosso solo l’accappatoio, sentii il calore della sua
anima. Perché quando
non si è soli, basta un infimo gesto d’affetto per
scaldare il cuore. Perché la
mente è in quella condizione in cui cerca di svuotarsi e
sfugge al vuoto, e trova
ben accetta ogni novità come salutare distrazione. Basta
sapere che il mondo
che ci attende e ci vuole con sé, anche solo per un
po’, e sapere di essere
nella vita di qualcuno oltre che nella propria dà la gioia
più grande che
esista.
Un abbraccio.
E nella mia mente non ci fu
più posto per i cattivi
pensieri, per i turbamenti, per la tristezza che stringe il cuore. Un
abbraccio, un segno d’affetto. La muta ripristinazione del
giuramento della
dedizione reciproca.
Mi accarezzò i capelli,
baciandoli. «Sei bellissima
così» disse senza pudore.
Non era la prima volta che mi
vedeva in accappatoio.
Anche più nuda, di un accappatoio. Sentire il suo giudizio
sulla mia pelle, sul
mio corpo, mi faceva sentire bene. Sapevo quanto le sue parole fossero
di
parte, eppure essere così importante agli occhi di uno rende
meno importante il
giudizio altrui.
Arrossii.
«Grazie», mormorai, baciandolo.
«Com’è
andata oggi?». Domanda comune e quotidiana. Ma
in questo caso non affatto disinteressata…
Annuii, e pensai che dovesse
bastargli. Non senza
alcune lamentele dalla sua parte, lo convinsi a fargli sfilare la sua
camicia. Non
era la prima volta che restavamo nel letto ad accarezzarci e baciarci.
Mi
faceva sentire bene, mi faceva sentire viva. C’era una parte
di me che adorava
quello che stavo costruendo in quella che chiamavo “la mia
vera vita”.
Un sorriso di autocompiacimento
sorse sulle mie
labbra. Edward se ne accorse. Avevo il viso poggiato sul suo petto
freddo e
scoperto. «A cosa pensi?» chiese, accarezzandomi i
capelli.
É proprio come ho pensato. I brutti
momenti vanno via, senza neppure darci
tempo di accorgercene.
Scrollai le spalle. «A
niente».
Così, venuta fuori da un
periodo catastrofico della
mia vita, avevo maturato un sapore diverso verso il mondo. Non mi
curavo più
dei momenti tristi, e cercavo di vivere appieno quelli felici. Avevo
capito che
era davvero impossibile sbarazzarsi di quella tristezza,
quell’angoscia che
ogni tanto mi attanagliavano. Eppure, stavo riuscendo ad accontentarmi
di
quello che la vita mi aveva dato.
Un giorno Edward mi
caricò in auto, senza darmi una
spiegazione.
«Dove andiamo?»
avevo chiesto infinite volte, senza
ottenere una risposta.
«Il posto del
campeggio?» avevo chiesto
insistentemente. «La pineta? Quello…»
arrossii «del primo bacio?».
«Sai Bella» mi
rispose con un sorriso. «Sei così
umana, quando fai così. La mia famiglia è via,
sono tutti a caccia. E volevo
portarti a casa mia per stare assieme, da soli».
Rimasi sinceramente lievemente
delusa dalla
dichiarazione.
Lui se ne accorse, e
ridacchiò. «Ogni oggetto, ogni
luogo, ogni azione compiuta, è importante solo in una
singola dimensione umana,
per una singola persona. Bella» disse dolcemente,
accarezzandomi una guancia, «posso
portarti dove vuoi. Ma penso che riusciresti anche ad apprezzare ogni
altra
opportunità, seppure ti sembri di minore attrattiva. Devi
solo pensarci».
E lo disse con un tale tono
frammezzato fra
persuasione e quella che mi pareva una punta di imbarazzo, che rimasi
davvero,
molto tempo, a pensarci su.
Quando fummo a casa sua, poi, fui
colta da un
improvviso e raggelante pensiero. Nell’ultimo periodo eravamo
stati molto
insieme, e lui mi era stato davvero vicino. La mia psicologa mi aveva
esplicitamente chiesto quanto approfonditamente conoscessi Edward dal
punto di
vista fisico, quanto conoscessi me stessa, dal punto di vista fisico, e
da quel
momento avevo cominciato intenzionalmente a pensare alla nostra
vicinanza.
Inizialmente spronato da me, su mia
iniziativa, avevo
sollevato la questione con Edward.
«É troppo
pericoloso» aveva detto, spiegandomi a quali
rischi saremmo potuti andare incontro. Mi aveva guardato con uno strano
guizzo,
e scosso veementemente la testa. Eppure… La questione era
rimasta così sollevata,
senza una soluzione.
E in seguito ci eravamo sfiorati,
accarezzati,
toccati, conosciuti. Niente di programmato, solo eccessi di effusione.
Cosa voleva dire tutto questo?
Avevano forse un senso
le parole che mi aveva rivolto mentre eravamo ancora in auto?
Deglutii, andandomi a sedere sul
divano. Era andato a
prendermi qualcosa da bere. Aveva ragione, quindi. Anche qualcosa di
apparentemente ordinario poteva rivelarsi in realtà molto
più interessante.
Il cuore mi batteva furioso nel
petto.
Ricomparve da me, porgendomi il
bicchiere di spremuta d’arancia.
«Tutto bene?» chiese, corrugando le sopracciglia.
Sospirai, prendendogli il bicchiere
dalle mani e
facendone un lungo sorso. Avevo le guance calde, lo sentivo. Avevo
immaginato,
come ogni adolescente, la mia prima volta. Dolce, delicata. Romantica.
Avevo
immaginato l’imbarazzo che avrei provato nel dover esporre il
mio corpo nudo e
doverne osservare un altro, altrettanto nudo.
Si venne a sedere accanto a me,
prendendomi la mano
fra le sue. Lasciai il mio bicchiere sul basso tavolino e posai la
testa sulla
sua spalla.
Eppure, aveva ragione Edward. Ogni
cosa assume tanta
importanza quanta gliene viene data. E come potevo desiderare qualcosa
che
fosse simile a delle candele, delle coperte rosse di seta, a tutta la
più
perfetta romanticheria e dolcezza del mondo. Come potevo, quando avevo
l’uomo
che amavo accanto a me?
Mi voltai a baciarlo, partendo
dall’orecchio arrivando
fino alle labbra, come sapevo l’avrebbe fatto impazzire.
Mordicchiai, per
quanto riuscissi, la mascella, gustandomi il sapore della sua pelle.
Godere dei momenti felici. Io,
Edward, nudi sul
divano, sul tappeto o sul letto di casa sua. Mentre facevamo
l’amore. Non
importava come. Non importava niente, quanto di meglio o peggio avrei
potuto
chiedere o trovare. Non avevo nessuna aspettativa, ed ero pronta a
godere della
sorpresa del suo corpo suo mio.
Sorrisi sulle sue labbra, lasciando
che le sue mani si
avventurassero fra i miei capelli. E così fecero anche le
sue, sulle mie.
Si abbassò tanto da
farmi posare la schiena sul
cuscino, continuando a baciarmi. «Ti amo».
«Ti amo
anch’io». Non lo dicevamo spesso. Eppure,
facendolo, eravamo convinti del nostro sentimento, in quel momento, in
quell’istante.
Questo, il vero significato del carpe
diem per
me.
«Non hai
paura?» chiesi ansando, osservandolo mentre,
tenendo il mio volto fermo fra le mani, succhiava con
avidità fra la piega del
mio collo.
Si sollevò con il viso.
I suoi occhi erano lucidi ed
eccitati. Una fitta di pura estasi e gioia mi fece scuotere.
«Da morire»
confessò.
Sorrisi, e sollevai il viso per
riprendere a baciarlo.
Fui contenta. Dopo un’ora
e mezza, eravamo stesi,
nudi, davanti al camino acceso. Niente di quello che avevamo
programmato era
andato in porto. Al primo tentativo Edward aveva avuto paura, e
vedendolo immobilizzato
dal terrore di farmi del male, gli avevo detto di fermarsi.
Così ci eravamo
accarezzati e amati lo stesso, godendo ognuno del piacere
dell’altro.
Ero contenta. Aveva messo a dura
prova il suo
autocontrollo solo per me, solo per dimostrarmi il suo amore. Solo,
speravo,
per il desiderio che aveva di amarmi.
Perché non gioire di
quella felicità? Perché pensare a
quello che avrei potuto avere, e non, invece, a quello che di
meraviglioso
avevo avuto?
Accarezzai ogni riflesso ramato dei
suoi capelli, osservandoli
attentamente e scrutandone le ciocche. Ero stesa su di lui, prona, e
giocherellavo con le incantevoli punte della sua chioma. Le orecchie
fischiavano e il cuore batteva.
Posò una mano sul mio
petto. Rabbrividii. Era così
freddo.
«Va tutto
bene?» disse, premendola più forte.
L’incanto di un momento
fu rotto, e la mia mente tornò
a non essere vuota. Si riferiva agli episodi di tachicardia,
certamente. Annuii.
«Mi succede meno spesso».
Mi accarezzò una
guancia, e allora decisi di lasciarmi
rotolare sul fianco, perché quella posizione mi stava
mozzando il respiro. Mi
feci abbracciare.
«Carlisle dice che se
farò tutto quello che mi ha
detto potrò tenere la situazione sottocontrollo».
Mi sorrise.
«Bene» disse, avvicinando le labbra per
farle prigioniere delle mie.
Ancora gustavo quella dolcezza che
viene dal ricordo
di una felicità appena provata, quando Edward, sul calare
della sera, mi
riportò a casa.
Godevamo di uno di quegli attimi
eterni in cui tutto
sembra perfetto.
Edward era stato il mio redentore.
Non attribuivo
completamente a lui tutto il merito della nuova prospettiva di vita che
avevo
acquisito, ma certamente dovevo dargli quello di essere riuscito a
metterci
ordine. Era stato lui che rettificando il mio comportamento, aiutandomi
nei momenti
più bui, e facendomi confrontare con qualcun altro
all’infuori del mio animo
tormentato, aveva ordinato la mia vita.
Era tutto così perfetto.
Che cosa meravigliosa
conoscere così a fondo la vita e compiacersi di fare le sue
beffe.
«Dovresti prendere la
giacca, fa un po’ freddo»,
disse, posandomela sulle spalle e aiutandomi ad uscire
dall’auto.
Afferrai la sua mano e mi ritrovai
sbilanciata, tanto
da scontrarmi contro il suo petto.
I nostri occhi si incontrarono.
Prese una mano fra le
sue e se la portò alle labbra, baciandone la punta delle
dita. Parlò con
serietà e pacatezza. «Mi dispiace per come sono
andate le cose oggi…
Sicuramente ti…».
«Non dirlo» lo
fermai, posando un dito sulle sue
labbra. I suoi occhi scintillavano. «É stato
meraviglioso. Vorrà dire che
forse, presto o tardi, avremmo l’opportunità di
godere di qualcosa di ancor più
meraviglioso…» dissi, con un cenno
d’imbarazzo appena calato dietro un abbozzo
di sorriso.
Sorrise anche lui, avvicinando
dalla nuca il mio capo
al suo, sfiorandomi prima col respiro, e poi con le labbra.
Lo presi per mano, le farfalle
nella testa e nello
stomaco, conducendolo verso il vialetto di casa. Una ragazzina
innamorata.
Sentivo tanti brividi a definirmi così, e le guance calde di
rossore.
Quando sollevai il capo, vidi tre
ombre distanti circa
sessanta metri lungo la strada. Avevo il sole negli occhi, e di quelle
persone
vedevo solo le sagome. Eppure, mi pareva fossero proprio Charlie,
Reneè e Phil.
Li osservai perplessa. Parevano parlare concitatamente.
Automaticamente i miei passi si
mossero verso di loro,
e non feci che veni metri prima di vedere in viso mio padre. Subito mi
sentii
strattonare e bloccare da due braccia fredde. Troppo tardi. I miei
occhi erano
corsi verso il basso. Il mio cuore nel petto.
«Sta dormendo»
sibilai senza fiato, sentendo l’aria
uscire dai polmoni.
Mia madre venne velocemente verso
di noi, facendo un
cenno a Edward.
«Sta dormendo»
ripetei, e in quel secondo non provavo
dolore. Solo distacco e incredulità. No, non sta
succedendo davvero,
pensai.
Ma mia madre aveva il viso inondato
di lacrime.
Ansimai. E tutto crebbe
esponenzialmente. «No!»
gridai, scoppiando immediatamente in lacrime. Non avevo neppure avuto
il tempo
di controllarle. Impossibile. Impossibile farlo.
Urlai. E Edward mi strinse
più forte, sollevandomi di
peso e trascinandomi verso casa. Altre persone si stavano radunando
lì intorno.
Richiamate forse dalle mie urla. Tutte, per vedere il corpicino della
mia
Minush.
«Bella, Bella,
calmati», mi ripeté Edward, provando a
bloccare i miei gesti inconsulti.
Dovette lasciarmi andare appena
fummo in casa, e senza
neppure degnarlo di uno sguardo corsi via, su per le scale, urlando,
sentendo
un dolore immenso nel petto.
Impossibile, impossibile davvero.
Mi lasciai andare contro la parete
della mia camera,
singhiozzando e gemendo. La sensazione di incredulità era
ancora così vivida in
me, da cozzare contro la cruda verità in maniera
estremamente dolorosa.
Continuai a piangere, gemere,
urlare, quando Edward
venne da me, sedendomi accanto e prendendomi fra le braccia. Non
è
possibile, non è possibile. Non è giusto.
Continuavo a gemere.
E quando la prima ondata di dolore
scomparve, mi
ritrovai con la testa leggera per le lacrime a vagare su ogni cosa, su
qualsiasi cosa strana e assurda. I pensieri più sciocchi e
disparati.
E mi pentii amaramente di essermi
fatta beffe delle
vita.
Edward mi accarezzò i
capelli, baciandomi la fronte.
Mi sentivo intontita per via delle lacrime, ed ero scomoda per essere
stata in
quella posizione. Eppure non volevo muovermi. La consideravo come un
ineluttabile espiazione delle mie colpe.
«Non
c’è più» mormorai, arrochita
e stanca. I miei
occhi si perdevano nel vuoto. «E non la sentirò
più miagolare. E non sarà più
con me» dissi, con le lacrime agli occhi «e lei non
ci sarà più… era così
piccola…» piansi ancora.
«Mi dispiace»
disse, abbracciandomi a sé. Mi prese fra
le braccia e mi portò a letto. E mentre avevo il capo posato
sulla sua spalla,
sentii che una parte di me cominciava ad accettare quello che era
successo. E
inondata dalla vicinanza del corpo di Edward, dai suoi gesti
affettuosi, mi
sentii egoisticamente meglio.
Tutti, il giorno seguente e per una
settimana ancora,
esercitarono un controllo serrato su di me. Non mi lasciavano mai sola,
mai.
Non che il pensiero di tornare alle
mie vecchia
abitudini, in alcuni degli attimi di depressione più
profonda, non mi avesse
toccato, ma vederli così indaffarati
nell’impedirmi di farmi alcun male e così
preoccupati per me, mi fece irritare e definitivamente desistere.
«Dovremmo farle
un… funerale. Qualcosa di simile?» propose
Reneè a mio padre.
Mi portai alla bocca il cucchiaio
di cereali. «Nessuna
scemenza. Era un gatto, ed è morto. Nessun gatto
sarà come lui. Ma era un
gatto… ed è morto» ripetei, alzandomi
dalla mia sedia per rifugiarmi in un
angolino più appartato.
Così la parte
più razionale di me venne a galla. Non
pretendevo che il mondo cominciasse a pensarla come me, cha tutti, come
me,
assumessero questo controllo della proprio vita. Ma pochi giorni dopo
la morte
di Minush avevo capito come catalogare l’appena accaduto. Un
altro degli
imprevedibili e tristi momenti bui, niente di più, niente di
meno.
La mano di Edward risalì
dall’incavo dietro al
ginocchio sulla natica scoperta, e da lì lungo la spina
dorsale. Il mio petto
nudo contro il suo, stesa su di lui.
Mi portai una mano al petto,
stringendo forte gli
occhi per contrastare il dolore. Mi strinse con una mano i capelli,
facendo per
ribaltare le posizioni per aiutarmi a respirare.
«No» ansimai, provando a
riprendere il controllo. Allacciai le gambe alle sue, e mi voltai per
strofinare la guancia sul suo petto.
Passò.
Paradossalmente quando il cibo era
al pieno centro
della mie attenzioni, non ci avevo fatto caso. Ma ora si, ora conoscevo
il sapore.
Il sapore dell’amore.
Amore per i miei genitori, per
Edward, per me stessa.
Per Minush che non c’era più.
Amore per la vita.
«Come stai?» mi
chiese, i suoi occhi dorati e lucidi
nei miei.
Tracciai alla cieca un ghirigoro
sul suo petto. «Il
mio cuore batte».
La sua fronte
s’increspò.
Automaticamente, le mie labbra si
tesero in un
sorriso. Farsi beffe, forse, non era la cosa migliore. La
consapevolezza
invece, sapeva d’ironia.
«Vivo».
Fine.
Vi prego,
fatemi parlare. É l’ultima volta in cui ho
l’opportunità di farlo, e vi terrò
impegnati per diverse righe.
Forse non
è la fine che vi sareste aspettati. Cosa
c’è in questa fine?
Ho
provato a mettere tanta umanità, oltre a tutte le mie
pretese “filosofiche”
sulla vita e sul mondo.
Forse,
avrei dovuto dedicare più spazio e tempo alla guarigione. Il
problema è che per
me non si può mai guarire davvero del tutto. Non si
può cancellare passato e
dolore, e non si può ignorare quello che verrà.
Per questo, preferisco
concludere così, un po’ a metà.
“Edward
non si sarebbe mai lasciato andare così”
protesterà qualcuno. Ma, a costo
di scrivere un Edward poco vampiro, voglio scrivere di un Edward molto
umano.
Ho
scritto di cuore, e ho scritto di testa.
Ho messo
tutte le mie idee, ho messo tutti i miei sentimenti sul mondo.
Il
rapporto con i genitori? Sarà come dev’essere. Non
perfetto. Ma c’è amore, c’è
sempre amore, ed è questo ciò che conta.
Edward?
Perdonatemi se non l’ho definito come l’assoluto
redentore. Anche Bella ha
fatto la sua parte, il suo dolore l’ha fatta maturare. Edward
non è l’amore
assoluto che è in Twilight, ma lo ama, per quello che per me
significa amare.
Ed ora,
veniamo
a me.
Ho detto
di non essere bulimica e non esserlo mai stata. Ho detto anche che
presumo che
la maggior parte delle ragazze possa pensare a un gesto tanto
avventato. L’ho
pensato, ma non l’ho fatto. Dopo aver scritto questa storia,
spero davvero e
posso con buona certezza credere che non lo farò mai.
Ho detto
che è stata difficile da scrivere. É stata una
catarsi.
C’è
molto
di me stessa in questa storia. La schiena all’acqua, le
lacrime immotivate, il
tempo a dondolarsi sedute sul letto canticchiando perché
c’è troppo silenzio…
Ho
scritto di testa, ho scritto di cuore.
Posso
dire di aver scritto veramente per me stessa.
Non posso
fare a meno di ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me.
Grazie.
Infinitamente
grazie.