Adorabile bugiarda
Tutto succede per una ragione.
Erica
non ne era poi tanto convinta. Se tutto succedeva per una ragione, perché a lei
stava succedendo proprio quello? Non riusciva a spiegarselo.
Era
forse una questione di karma?
Sì, probabilmente
sì. E lei non poteva farci niente. Doveva subire. Punto.
Non
poteva combattere, non poteva rifiutarsi. Nessuna via d’uscita, nessuna
scorciatoia.
Il
peggio era che la colpa era tutta sua e lei lo sapeva. Non aveva nemmeno la
dolce e tenue illusione che fosse stato deciso da una forza maggiore.
In quel
caso la forza maggiore era lei. Lei e nessun altro.
Doveva
ammettere però che occorreva una discreta abilità a cacciarsi in una situazione
del genere. E fra le ben poche abilità che possedeva, Erica era sicura che
quella di scavarsi la fossa da sola fosse la più sviluppata.
Piangere
sul latte versato non serve a niente, questo si ripeteva mentre con difficoltà
metteva un piede davanti all’altro. Doveva andare avanti.
Doveva
girare l’angolo.
Non aveva
scelta.
Con un
sospiro spinse le mani ancora più a fondo nelle tasche dell’impermeabile:
era nero, lucido ed enorme. Almeno tre taglie buone più di lei. Dal momento
stesso in cui lo aveva preso dall’attaccapanni non aveva fatto altro che
darsi della stupida: c’era stato solo un attimo in cui, guardando i
nuvoloni carichi di pioggia in avvicinamento dalle montagne, si era detta che
era una buona idea prendere in prestito l’impermeabile del padre. Era
stato solo un unico, minuscolo attimo. Veloce come un temporale estivo.
E ora si
ritrovava a camminare sotto quel telo pesante e completamente inutile che non
faceva altro che intralciarle i movimenti.
Non
pioveva nemmeno, santo Dio!
Prese un
bel respiro, smettendo di pensare al giaccone: aveva svoltato l’angolo.
Ce l’aveva fatta. E ora? Sarebbe riuscita a raggiungere lui? Certo che
sì. Che poteva fare altrimenti, girare i tacchi con la coda fra le gambe e
tornare indietro? No. Non c’erano né se né ma.
Con il
cuore in gola Erica si incamminò lungo il marciapiede.
La sua
meta era solamente un puntino alla fine della strada: piccolo e nero, semplice
conferma del fatto che la sua passeggiata non era stata inutile. Passeggiata
poi… piuttosto via crucis. Scuotendo la testa alzò gli occhi al cielo,
osservandolo.
Azzurrissimo,
limpido come non si vedeva da giorni. Sorridendo con amarezza Erica spostò gli
occhi da una nuvola che non c’era all’altra.
Cos’era
quella, ironia della vita?
Uno
squillo del cellulare le ricordò che erano le sei. Non aveva tutta la giornata,
perdio!
Si era
alzata alle quattro. Si era lavata, vestita e preparata, il tutto in un quarto
d’ora. I successivi quarantacinque minuti erano serviti a prepararla
psicologicamente. Intorno alle cinque era finalmente riuscita ad uscire di
casa, avviandosi incerta.
Normalmente
il tragitto casa-scuola non le impegnava più di dieci minuti. Questa volta ci
aveva messo un’ora. E non era ancora arrivata… che dire, non è
facile camminare a passo spedito quando si ha la sensazione di starsi avviando
verso la propria esecuzione.
Erica
sospirò, studiando la strada dinanzi a sé. Deserta. Non una persona.
Sembrava
di essere in un quadro da due soldi.
Non
c’era un alito di vento a smuovere l’aria: gli alberi, radi e quasi
morti, somigliavano a sculture. Le case e i palazzi dai colori pastello
svettavano su di lei imponenti. Nemmeno una bicicletta o un cane. Il vuoto
assoluto.
Quando
Erica raggiunse l’entrata della scuola si fermò davanti al cancello nero
sprangato e trattenne il fiato.
Ma che,
era forse finita in “Ai confini della realtà” ?
Ci mise
qualche istante a realizzare che no, Spielberg non c’entrava niente: con
buone possibilità quelle anomalie erano tutte da attribuirsi al fatto che da
poco era passata l’alba.
E lei
era l’unica idiota a trovarsi in mezzo alla strada a quell’ora, che
diavolo.
No, non
l’unica. Ce n’erano altri due alla fine del marciapiede. Ed era
proprio da uno dei due che era diretta.
Sorrise,
trovando difficile credere che lo stesse facendo.
Mancavano
quasi due ore all’inizio delle lezioni e lei era già là, in un
impermeabile che non era il suo, diretta all’unico bar aperto a
quell’ora del mattino: Asilo politico.
Nome
assurdo per lei, come per tutto il resto della popolazione. Eppure non
c’era un solo liceale che non lo frequentasse. L’idiota che lei
cercava non era un’eccezione.
Leonardo
Viscardi.
Ultimo
anno, metro e ottanta, campione di nuoto. Fisico scultoreo, capelli neri, occhi
scuri. Bello. Il solito ragazzetto da dieci e lode, quello che tutte sognano e
desiderano. Il tipico clichè. Uno così c’è sempre. Ovunque. Libri,
film… un Viscardi non manca mai.
A Erica
piaceva pensare di essere superiore, diversa dal resto della popolazione
femminile.
Si
divertiva a credere che lei non lo desiderasse. Affermava che le era
completamente indifferente: vederlo non le faceva né caldo né freddo. Non le
succedeva come alle altre: sudorazione eccessiva, balbettio incontrollato,
ormoni fuori uso e battito da ricovero.
No, per
lei Viscardi non era niente.
Ora, di
tutto questo qualcosa di vero forse c’è… poco, molto poco.
Perché a
dirla tutta, bisogna ammettere che il ragazzo non è male, per niente. Del tutto
indifferenti quindi non gli si può essere. Erica però aveva avuto la fortuna di
capire che era inutile e malsano anche solo fantasticarci sopra. Si era quindi
rassegnata.
Se
capitava di incontrarlo, passargli accanto, vederlo, lei non faceva una piega:
sollevava gli occhi e lo guardava. Sentiva quel piccolo tuffo al cuore che è
normale provare davanti a un ragazzo così e poi basta. Fine della storia.
Nessuna storia d’amore, nessun lieto fine.
Detto
questo, si chiedeva ancora perché gli stava andando incontro allora.
Misurò
lo spazio che ormai li separava: meno di cinque minuti e lo avrebbe raggiunto.
Aveva
chiesto in giro, con discrezione, cercando di capire se c’era un momento
in cui avrebbe potuto trovarlo solo. A quanto pareva no: non era mai solo.
La
mattina però, poco dopo l’alba, diciamo verso le sei, lo si poteva
trovare fuori l’Asilo politico.
Erica
aveva sgranato gli occhi a quelle parole: alle sei?! Di mattina! Per quanto
potesse sembrare assurdo, dopo giorni di tormento, si era decisa ad affrontarlo
proprio in quel momento: la sua mente contorta le aveva suggerito che a
quell’orario improponibile c’era qualche possibilità che non fosse
come al solito accerchiato da dozzine di persone.
Erica
prese a grattarsi i palmi delle mani, accorgendosi di non poter più tornare
indietro.
Lo vide,
rifulgente nella sua bellezza anche di prima mattina. Seduto al tavolino
d’angolo, le gambe allungate e i piedi accavallati, chiacchierava con un
ragazzo al suo fianco.
Parlavano
a bocca piena, in maniera quasi disgustosa, addentando a turno cornetti al
cioccolato. Cornetti enormi, della grandezza di due mani, grondanti nutella da
ogni poro.
Al centro
del tavolo ve n’era un piatto pieno, già svuotato della metà. A
completare il tutto, due tazze che sembravano orinali, piene fino
all’orlo di caffèlatte. I due non l’avevano nemmeno vista,
impegnati com’erano nella loro conversazione ed Erica accarezzò
l’idea di estrarre fulminea il cellulare per fotografarli così, con
i baffi di latte e ricoperti di zucchero.
Cambiò
idea all’ultimo momento, ricordandosi che non le conveniva contrariarli
visto quello che doveva fare. Migliore era il loro umore, meglio era per lei.
Così,
fermandosi a qualche metro dal tavolino, aspettò che si accorgessero di lei:
non voleva origliare, non era educato e non ci avrebbe ricavato niente da
discorsi primitivi come quelli. Nonostante la relativa lontananza le arrivarono
all’orecchio sprazzi di conversazione, rigorosamente a base di calcio.
Sospirando cominciò a guardarsi attorno, evitando di chiedersi quando era
diventata invisibile.
Posò lo
sguardo su tutto, tranne che su Viscardi.
L’ultima
cosa che le rimaneva da osservare era l’altro tipo, il suo amico.
Sorrise, soddisfatta dal fatto che come in ogni migliore racconto, anche lui
fosse un clichè. Il migliore amico, quello che conosceva da sempre, la spalla,
sempre presente al punto da far temere una relazione omosessuale.
I tipici
Cip e Ciop, da giuramento per la vita e per la morte.
Iniziò a
temere che per ottenere qualcosa avrebbe dovuto convincere anche lui, il rosso.
In quel caso le cose sarebbero state ancora più difficili. Ma che poteva farci?
Non
c’era modo di acchiappare Viscardi senza il rosso. Sembrava fossero
legati a doppio filo. Dove stava uno, non c’era dubbio che l’altro
non fosse lontano.
E il
rosso non passava inosservato: con quei suoi capelli degni della famiglia
Weasley, o volendo di Pippi Calzelunghe, si notava in mezzo ai mille. Per
quanto incredibile poi, era anche più alto di Viscardi, raggiungendo i temibili
metro e novantadue. Svettava su tutti.
C’era
da aggiungere che non era campione di nuoto come l’amico, ma
semplicemente stella della squadra di rugby, con i suoi buoni chili di muscoli.
Il contrario dell’invisibilità per concludere. Non sarebbe mai capitato,
per esempio, che Giovanni Santillo si fermasse affianco ad un tavolino, come
stava esattamente Erica, e non venisse visto.
Erica
assottigliò lo sguardo, chiedendosi se la stessero prendendo in giro. Poteva
mai essere possibile che davvero non la vedessero?
Forse
era colpa dell’impermeabile.
Con un
sospiro avanzò ancora di qualche passo, trovandosi ormai rasente al tavolo.
I due
continuarono a non guardarla, commentando qualcosa come l’ultimo
grandioso gol di Quagliarella, e lei prese in considerazione l’idea di
farli a fette con il coltello da burro.
Con uno
sforzo riuscì a impedirsi di afferrarlo e si limitò a schiarirsi la voce.
Ci volle
ancora un istante prima che smettessero di parlare, poi si voltarono in
contemporanea, le bocche piene e gli sguardi interrogativi verso di lei.
Erica
perse di colpo ogni certezza e istinto assassino. E ora?
“
Scusate. Potrei parlarti un attimo, Viscardi?”
Il
sopracciglio del diretto interessato schizzò rapido verso l’alto,
facendogli assumere un’espressione se possibile ancora più dubbiosa.
Erica si ricordò solo in quel momento di non avergli mai rivolto prima la
parola. Lui neanche sapeva che esisteva.
“
Con me?” chiese, senza smettere di masticare.
“
E’ un problema?”
“
Credo di no”
Erica
lanciò uno sguardo al rosso, sperando che in un gesto di comprensione si
alzasse, lasciandoli soli, ma l’altro le sorrise divertito e scosse la
testa.
“ Non
ci penso nemmeno, occhi blu”
Erica
fece spallucce, aspettandosi quella risposta da Santillo.
Con
gesti sicuri prese una sedia da un tavolo vicino e l’avvicino ai due,
posizionandosi di fronte a Viscardi e senza dare le spalle all’altro.
L’aveva chiamata occhi blu, pensò Erica. La cosa non le dispiaceva: gli
occhi erano l’unica cosa di cui andava fiera. Del resto l’unico
altro soprannome possibile in quel momento sarebbe stato riferito
all’impermeabile fuori misura e a quello preferiva gli occhi.
“
Allora, da dove comincio?”
Era
stato piuttosto un mormorio indefinito, ma Viscardi la sentì lo stesso.
“
Presentandoti, forse?” domandò, allungandosi sul tavolo per afferrare un
altro cornetto.
“
Non credo. Il mio nome in questo momento non ti serve a niente, fidati.
Ascolta… per me è già difficile essere qui, non peggiorare la situazione.
Fa silenzio e ascolta”
Erica
era stata categorica. Viscardi accennò un sorriso e fece spallucce,
segnalandole che non avrebbe aperto bocca. Lei prese un bel respiro, lanciando
un’occhiata in tralice al rosso che la fissava divertito e poi si decise
a continuare:
“
Avrei un problemino. Veramente nemmeno tanto piccolo, che non ho idea di come
risolvere. In realtà mi sono messa nei guai da sola. Una stronzata dietro
l’altra, come al solito. E mi sono ritrovata in un casino che non ti
dico. Cioè… è per Sandra, non per me! Ma non volevo, ti giuro. E poi mi
sono ricordata del racconto di Daniela, e mi sono detta perché no? Capace che
qualcosa di buono ce ne esce. Naturalmente a questo punto non dipende più da
me, quanto da te. Capisci, Viscardi?”
Il
ragazzo aveva smesso di mordere il cornetto.
Aveva
ascoltato il delirio insensato di Erica senza fiatare, guardandola come fosse
una bomba ad orologeria. Quando sentì l’ultima domanda, il sopracciglio
schizzò di nuovo verso l’alto e il cornetto cadde sul fazzoletto di
fronte a lui.
“
Come?” chiese, in un sussurro incredulo.
A
rispondergli, con fare complice, fu Santillo:
“
Sherlock Holmes ti ha chiesto se per assurdo hai afferrato qualcosa del suo
alquanto torbido discorso, Nardo”
Erica
sobbalzò, non aspettandosi l’intervento dell’altro. Si girò,
guardando il rosso, e gli rivolse un’occhiata di fuoco, dimenticandosi
momentaneamente del resto:
“
Come mi hai chiamata, Cita?” chiese, con aria di sfida.
“
Holmes. Hai presente l’investigatore, no? Credevo ti fossi inspirata a
lui con quella sotto specie di impermeabile”
“
Io… tu, sotto specie di gorilla! Non osare più aprire bocca. E che razza
di…”
“
Vedi, Nardo? Io dico che ha qualche problema ad esprimersi, occhi blu. Forse
dovresti intervenire, sai com’è, capace che ne tiri fuori qualcosa di
sensato”
Erica lo
fissò incredula, senza riuscire nemmeno ad aprire bocca. Era mai possibile che
l’anello mancante fra l’uomo e la scimmia la trattasse in quel modo?
Indecisa
sul dirsi stava per assestargli un calcio su uno stinco da sotto il tavolo,
quando la voce di Viscardi la distrasse, costringendola a guardarlo.
“
Non credo di aver ben capito cosa hai cercato di dirmi. Ho afferrato che
è colpa tua, che c’entra una certa Sandra e una tale Daniela… ma
non ho capito cosa ho a che fare io con tutto questo”
Erica
sorrise appena, imbarazzata. Avrebbe voluto rispondere che nemmeno lei lo aveva
ben capito, che era ancora un’idea molto confusa in cui non c’era
né capo né coda.
Non
poteva però, lei doveva far vedere che era sicura, che era già tutto pronto,
preparato e che avrebbe solo dovuto dire di sì.
“
Viscardi. Ho bisogno del tuo aiuto e non hai la minima idea di quanto mi costi
dirtelo. Ho tantissimi difetti e uno di questi è l’orgoglio. Non posso
farci niente. Ci ho messo tre giorni per decidermi a venire da te. Ora sono
qui. Ed ecco che entra in scena un altro dei troppi difetti di cui ti parlavo:
sono una bugiarda patologica. Dico balle senza nemmeno rendermene conto, in
continuazione… non ne vado fiera, ti assicuro. Ormai però mi ci ero
abituata, era diventata una routine, capisci? E poi che faccio? Rovino tutto.
Come mio solito oserei dire… Vedi, non sono il tipo che si fa tanti amici.
Una vera amica però ce l’ho. Unica e insostituibile, sai? Come credo sia
Cita qui per te. Sandra. A lei non avevo mai mentito, almeno fino a qualche
tempo fa. Poi ho mentito anche a lei… non avrei mai voluto farlo. Non
avrei mai dovuto farlo. Eppure l’ho fatto Viscardi”
Erica
aveva parlato quasi senza prendere fiato.
Viscardi
la guardava con tanto d’occhi, non sapendo come affrontare la situazione.
Era la
prima volta che aveva a che fare con una ragazza del genere.
Si perse
nei suoi enormi e languidi occhi blu, sorpreso dal fatto che non desiderasse
con tutto se stesso cacciarla via. Eppure era strano. Si era presentata al loro
tavolo, alle sei del mattino, interrompendolo mentre parlava con Giovanni. Lei,
con quell’impermeabile insensato che le lasciava scoperta solo una parte
del viso bianco e gli occhi.
E aveva
cominciato a parlare, senza smettere un secondo, mitragliandolo con un discorso
incoerente e folle. L’unica cosa che aveva capito era che voleva aiuto.
Ma perché da lui? E che razza di modi erano quelli? Scosse piano la testa,
pulendosi la bocca con un fazzoletto.
“
Ehy, ehy. Prendi aria. Rilascia ossigeno al cervello, ragazzina. La smetti di
farneticare e mi dici una volta per tutte come dovrei aiutarti?”
Ne
osservò la reazione senza smuoversi di una virgola.
La vide
indietreggiare quasi involontariamente, colpita dal tono duro che aveva usato.
Aveva
assottigliato gli occhi, osservandolo truce, aprendo la bocca come per
ribattere a tono e farlo pentire di averla trattata in quel modo.
All’ultimo
momento si era fermata però, reprimendo a stento un sospiro.
“
Ho bisogno di un ragazzo”
Non
sorrideva. Nessuno sorrideva.
“
Ho bisogno di un ragazzo, perché ho mentito a Sandra, la mia migliore amica,
dicendole che stavo con un certo Leonardo. Ho mentito”
Lui la
osservava sempre più basito, incredulo a ogni parola di più.
“
Avrei voluto rimediare da sola ma era troppo tardi. Allora mi sono ricordata di
te. Più precisamente di quando Daniela mi ha raccontato di te… di quella volta
in cui ad una cena con i suoi cugini hai finto di essere il suo ragazzo. E mi
sono detta, perché no?”
Viscardi
avrebbe voluto dire qualcosa, interromperla e parlare, ma non ci riuscì.
“
Non so perché sono qui. So solo che mi sento umiliata. Ferita, anche. E tutto
per una stupidaggine. Non ne faccio una buona. Ma avrei proprio bisogno di
aiuto. Sai, come in tutti quei film di serie b? Ho bisogno di un attoruncolo
disposto ad assecondarmi”
Viscardi
socchiuse gli occhi, non riuscendo a distogliere lo sguardo dal suo.
“
Ora basta. Prendo l’ultimo brandello di dignità che mi rimane e me ne
vado. Ti lascio il mio numero, nel caso che… non lo so. Te lo lascio.
Scusate ancora”
Erica si
alzò, facendo strusciare la sedia e lasciando scivolare sul tavolo un pezzettino
di carta. Cosa cavolo aveva appena fatto?
Scuotendo
la testa diede le spalle ai due ragazzi e si incamminò lungo la strada.
A testa
bassa, confusa come non mai. Le mani nelle tasche, il respiro affannoso e
spezzato.
Non si
accorse nemmeno dell’acquazzone che era scoppiato.
*
Dite un po', qualcuno è riuscito a leggere
tutto il capitolo? ^^
Per prima cosa, buon agosto a tutti! Si avvicina ferragosto, così vi faccio gli
auguri anche per quello, seppure in anticipo **
La storia è nuova, ed oserei dire alquanto banale.
Non era mia intenzione creare un capolavoro, e di fatti non è quello che è
uscito fuori.
E' solamente un passatempo, di quelli estivi per l'appunto.
Da leggere senza impegno quando non si ha niente da fare.
Spero faccia piacere a qualcuno,
un bacio,
Sara