Fandom: Doctor Who/Sherlock Holmes;
Pairing: Holmes/Watson;
Altri Personaggi: Mycroft Holmes, Dottore;
Rating: Pg13;
Genere: Angst,
Introspettivo, Romantico.
Warning: Crossover, Pre-Slash;
Beta: Narcissa63;
Summary: Risponde
alla challenge Doctor
Holmes di holmes_ita,
ideata su questo prompt:
Sherlock Holmes è in realtà il Dottore, ma
l’ha dimenticato. Ha usato l’orologio da taschino dei Signori del Tempo per
trasformarsi in un essere umano, e questo oggetto ha creato per lui dei ricordi
fittizi, regalandogli una nuova vita.
Watson trova l’orologio, lo apre – o lo
fa aprire ad Holmes – e lui recupera i suoi ricordi. Poi riparte con il TARDIS,
e Watson rimane il suo fedele compagno, nell’universo così come lo è stato nei
suoi casi.
Note: Ho fatto il
possibile per mantenere tutti i personaggi IC, tuttavia non è facile fondere in
un unico uomo i protagonisti di due diversi fandom, quindi abbiate pazienza se
in qualche punto vi sembreranno lievemente OOC; d’altronde sono calati in una
situazione straordinaria.
DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes
non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato,
però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo
spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno,
anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.
Doctor Who,
ugualmente non mi appartiene, è di proprietà della BBC che ne detiene tutti i
diritti.
The Man in the Clock.
Le figlie della
memoria sembrano produrre
un doloroso fruscio
nel buio.*
Al tempo a cui risale questa storia, abitavo con Sherlock
Holmes ormai da alcuni anni e ho l’ardire di affermare che, già allora, lo
conoscessi piuttosto bene. Quell’uomo brillante non aveva un carattere facile,
ma ogni sua caratteristica faceva parte del fascino del suo genio.
Avevo ormai imparato che, in tempi normali – a meno che non
fosse prostrato da un’indagine particolarmente impegnativa appena conclusasi –
si alzava abbastanza presto, se non addirittura prestissimo, quando era
impegnato in un caso. Fu per questo che una mattina, pochi giorni prima di
Natale, non vedendolo ancora sveglio, bussai con una certa apprensione alla
porta della sua camera; temevo non si sentisse bene. Solo dopo qualche minuto,
non avendo ricevuto risposta, abbassai la maniglia e socchiusi l’uscio.
La stanza era immersa nell’oscurità, Holmes dormiva ancora
profondamente ed il suo sonno pareva agitato. Mi accostai a lui e gli toccai la
fronte, per controllare che non avesse febbre, ma quando gli accarezzai il viso
si svegliò di soprassalto.
Aveva il respiro secco ed ingolfato di un uomo braccato, ed
il suo sguardo sfocato ed allarmato era quello di un condannato inseguito da
demoni senza nome. Il silenzio scese pesante nella camera, denso e buio come
inchiostro, ed istintivamente gli posai una mano sulla spalla, nel tentativo di
richiamarlo nel nostro mondo, strappandogli un sussulto.
Per un attimo mi guardò come se non mi riconoscesse, poi
biascicò con voce rauca di sonno: «Watson, cosa ci fa lei qui?»
«Perdoni questa invasione della sua intimità, ero
preoccupato per lei, vecchio mio. È quasi mezzogiorno e lei ancora dormiva»
spiegai. «Si sente bene?» domandai poi, perché pareva ancora stravolto.
«Sì… sì, era solo un sogno. Un sogno bizzarro. Ne faccio
spesso» rispose scuotendo il capo, come per allontanare gli ultimi strascichi
onirici. «Mi alzo subito» mi rassicurò, ed io lasciai la stanza per
permettergli di cambiarsi.
Tuttavia, rimase ansioso e pensieroso per tutta la durata
del pranzo, sinché non mi schiarii la voce e provai ad interrogarlo. «Qualcosa
non va? Lei è preoccupato».
«No, va tutto bene, amico mio. Però quel sogno…» si portò un
mano al mento ed i suoi occhi scrutarono un punto imprecisato della parete alla
sua destra, ma era chiaro che stesse osservando qualcosa di molto più distante,
«mi ha lasciato addosso uno strano sentimento… nostalgico. Ho come
l’impressione di aver dimenticato qualcosa».
Da che lo conoscevo, non avevo mai visto il mio amico così
confuso, ed era una sensazione disorientante. Ebbi l’impressione che, mentre
Sherlock Holmes vacillava, l’intero mondo stesse facendo lo stesso con lui – o
forse era solo il mio, di mondo, a
vacillare.
«Perché non mi parla di questi sogni? In fondo, oltre ad
essere suo amico, sono un medico» tentai di persuaderlo.
Holmes mi concesse uno sguardo meditativo e sulle labbra
sottili gli si dipinse un sorriso di scherno indirizzato, reputai, a quelle fantasie oniriche. «In questi sogni,
poiché ne ho fatti diversi, ma tutti dello stesso stampo, non sono come lei mi
conosce. Sono una sorta di… avventuriero, mi chiamo il Dottore e viaggio attraverso il tempo e lo spazio».
Non riuscii a dissimulare il mio stupore. Sembravano dei
sogni così frivoli, per essere quelli
di Sherlock Holmes, che non potei fare a meno di sorridere. «Sembra divertente»
commentai.
«Oh sì, lo è» confermò con un certo malcelato entusiasmo,
che gli avevo visto esprimere solo davanti ad un caso particolarmente ostico.
«Cos’altro ricorda?» chiesi incuriosito.
«Oh, le cose più assurde. Eventi passati, eventi futuri,
altri pianeti, mondi paralleli, mostri, uomini di metallo… ed io, cioè, il Dottore che ogni volta salva il mondo
dalla catastrofe... o quantomeno ci prova» mi raccontò, sempre con quello
sguardo assorto. «E c’era… un orologio» aggiunse quasi in un sussurro.
Si alzò e con passi lenti, circospetti come quelli di un
sonnambulo, raggiunse la propria scrivania ed aprì il cassetto, con la chiave
che teneva attaccata alla catena del panciotto. Prese qualcosa dal suo interno
e si appoggiò con i fianchi allo scrittoio, contemplandolo in silenzio.
Mi avvicinai a lui per capire di cosa si trattasse e scoprii
che stringeva tra le mani una cipolla. Era antica, d’argento, con il coperchio
finemente inciso da disegni elaborati; distinsi degli elissi, forse dei
pianeti, stelle e cerchi concentrici.
«È un orologio molto bello. Non l’ho mai vista adoperarlo,
prima d’ora» parlai a bassa voce, perché temevo che, se avessi usato un tono
più forte, l’avrei fatto nuovamente sussultare.
«È rotto» mi spiegò «non l’ho mai aperto».
«Allora come fa a saperlo?» domandai perplesso.
Mi aspettavo una delle sue spiegazioni semplici, come ad
esempio “non ticchetta nemmeno dandogli la carica”, invece le sopracciglia di
Holmes si aggrottarono e, senza distogliere lo sguardo dall’orologio, rispose:
«Non ne ho idea. Suppongo di saperlo e basta».
«Apparteneva a suo padre?» chiesi allora.
«Non ne sono certo, mi pare di si».
«Solitamente i gioielli vanno al fratello maggiore»
commentai.
«Mycroft disse che spettava a me».
«Per quale motivo?» insistetti.
«Non lo so. Watson, perché tutte queste domande?» replicò
infastidito.
«Perché non sembra in lei, amico mio» risposti schietto.
«Dovrebbe aprirlo» aggiunsi poi.
«Non credo sia il caso» ribatté, confinandolo nuovamente nel
cassetto.
«Ha paura di un
orologio, Holmes?» ipotizzai incredulo, ma tutto ciò che il mio collega fece fu
serrare la mascella ed osservare quell’oggetto con occhio truce.
«Non me lo ricordo, Watson» mormorò.
«Che cosa?»
«Da dove viene. Lo possiedo da sempre, ma non ricordo perché, e non so cosa mi abbia spinto a
conservarlo. So che è rotto, ma non ho idea di come io faccia a saperlo. Sono certo che sia importante, ma non so
per quale motivo lo sia» bisbigliò
con durezza, in un soffio che si fece via via più
angosciato.
«Va tutto bene, mio caro» lo rassicurai, posandogli una mano
sul braccio. «Forse un qualche evento traumatico è legato a questo monile; a
volte capita che la mente umana rimuova dei ricordi per proteggere la nostra
stessa psiche».
«Tutto ciò non mi è di conforto, sa dottore?» replicò con
sarcasmo, stringendo le mani sul bordo della scrivania. La sua presa si serrò
tanto da far sbiancare le nocche, poi si raddrizzò di colpo e con un gesto
risoluto prese nuovamente l’orologio e lo mise in tasca. «Devo indagare. Viene
con me?» propose.
«Certo. Dove?»
«Da mio fratello, ovviamente. È l’unico che può darmi
delucidazioni in merito».
«Allora forse dovreste parlarne a quattr’occhi» replicai
esitante.
«Sciocchezze. Sono perso, senza il mio Boswell» dichiarò,
stringendomi brevemente la mano. Poi con passo svelto recuperò cappello e
cappotto, invitandomi di nuovo a seguirlo.
Mentre ci incamminavamo in silenzio verso Pall Mall, ognuno
immerso nei propri pensieri, non potei fare a meno di pormi delle domande. Quei
sogni bizzarri erano in qualche modo legati all’orologio? Quelle storie
fantasiose – i mostri, i pianeti, gli eventi storici passati e futuri – erano
allegorie? Erano il modo in cui il subconscio di Holmes tentava di rievocare i
ricordi perduti?
Ero certo che anche il mio collega, da uomo brillante
qual’era, avesse rivolto a se stesso i medesimi quesiti. Quando ci ritrovammo
davanti alla porta di suo fratello, alzò la mano per bussare ed esitò solo un
attimo. In quell’attimo, però, io lessi tutte le sue incertezze.
Se si fosse trattato di un qualunque altro gentiluomo,
infatti, avrei trovato perfettamente plausibile che avesse rimosso un ricordo a
causa di un evento traumatico, ma non Sherlock Holmes.
Lui affrontava sempre i problemi di petto, a testa alta,
ragionandoci sopra sino a renderli mere consecuzioni di causa ed effetto,
proprio come stava facendo ora. Avremmo potuto scoprire un principio di follia,
oppure che in passato avesse assistito o commesso qualcosa d’ignobile, e –
malgrado ciò – mi voleva comunque accanto a sé. Non per sostegno o conforto, ma
perché riteneva che avessi il diritto di sapere. Questo era Sherlock Holmes.
Il batacchio risuonò due volte, ed io posai una mano
nell’incavo del suo gomito e gli accostai la bocca all’orecchio.
«Qualunque cosa accada, io ci sarò» gli assicurai in un
bisbiglio.
«Lo so» replicò lui, con tanta sicurezza che quasi mi
commosse – fino al tal punto si fidava di me.
Mycroft Holmes abitava
in un appartamento sobriamente elegante, al primo piano di un edifico a
metà di Pall Mall. Una cameriera di mezza età ci aprì con cipiglio contrariato,
ma non appena riconobbe il mio compagno ci fece entrare e ci annunciò senza
aggiungere alcun commento. Evidentemente aveva ben chiaro con chi avesse a che
fare.
«Sherlock, cosa ti porta qui a quest’ora, senza nemmeno un
preavviso?» ci accolse il padrone di casa, ancora seduto al tavolo da pranzo.
«Perdonerai l’improvvisata, fratello mio. Ho qualcosa
d’importante da discutere con te, e non può attendere oltre» replicò il mio
amico.
A quelle parole foriere di tempesta, la figura florida di
Mycroft si accigliò, ma ci fece subito strada verso un salottino.
Una volta che ci fummo accomodati attorno al caminetto
acceso, Sherlock prese dalla tasca della propria giacca l’orologio d’argento e
lo porse al fratello. «Cosa sai dirmi di questo oggetto?» lo interrogò.
«È rotto» rispose con semplicità l’interpellato.
«Lo so. Ricordi per caso come l’ho avuto?» continuò allora.
«Lo possiedi da sempre» affermò il maggiore.
Il mio collega si passò con frustrazione una mano tra i
capelli, scompigliandoli e ravviandoli un attimo dopo. «Così non mi aiuti,
Mycroft» asserì seccato.
Questi si accomodò meglio in poltrona, socchiudendo
lievemente gli occhi in uno sguardo acuto che mi ricordò precisamente il
fratello minore. «Sherlock, cosa sai di un uomo che si fa chiamare il Dottore?»
Se il mio amico non sussultò, stavolta, fu solo grazie al
perfetto autocontrollo che aveva di sé. Entrambi ci facemmo più attenti e lui
rispose con circospezione: «È un personaggio di fantasia proveniente da un
altro pianeta; un uomo brillante, con due cuori ed un certo altro numero di
stranezze, che viaggia continuamente».
«Il Dottore non è una fantasia… sei tu» ribatté il più vecchio degli Holmes.
«Come?!» non riuscii a trattenermi dall’esclamare.
Lo sguardo di Sherlock s’indurì. «Non è divertente, Mycroft»
apostrofò il proprio familiare.
«No, non lo è» convenne lui, raggelando entrambi.
«Io sono umano».
«Sì, ora lo sei».
«Che intendi dire?»
«Dentro quell’orologio c’è la tua coscienza, la tua parte
aliena che hai volutamente rimosso».
«E’ ridicolo. Io sono tuo fratello».
«Tu credi di
essere mio fratello. È la storia che il TARDIS – ricordi la cabina blu? – ha
inventato per te».
«Tutto questo non ha senso» sussurrò così piano che, se non
fossi stato concentrato a pieno su di lui, non l’avrei udito. «Spiegati»
soggiunse a voce più alta, con quella vena autoritaria a cui era impossibile
controbattere.
«Ebbene, sembra sia arrivato il tempo di scoprire le carte»
sospirò Mycroft, stropicciandosi la fronte con aria stanca. D’improvviso mi
parve dieci anni più vecchio. «Nostra madre – mia madre – per un certo periodo di tempo, in gioventù, fu la
compagna di viaggio del Dottore – la tua
compagna. Nessuno, ovviamente, si accorse mai della sua assenza, perché, grazie
al TARDIS, ella rientrava sempre nell’esatto momento della propria scomparsa.
Poi conobbe mio padre e s’innamorò di lui, per cui decise di sposarsi e mettere
su famiglia, abbandonando il proprio amico. Nonostante ciò, lei ed il Dottore
rimasero legati da grande affetto e lui veniva a trovarla, ogni tanto. Ricordo
qualche sua visita, quand’ero bambino, seppur lo vidi solo di sfuggita. Fu così
che, nel momento del bisogno, egli si rivolse nuovamente a mia madre.
«Non so perché dovesse diventare umano, né conosco la
meccanica di come riuscì a trasformarsi, so solo che era in pericolo ed aveva
bisogno di nascondersi, quindi mia madre gli offrì rifugio.
«Lui aveva un aspetto abbastanza giovane da sembrare uno
studente universitario, e fu così che mi ritrovai, a venticinque anni, con un
fratello minore che credeva di conoscermi da tutta la vita. Ci trasferimmo a
Londra, dove nessuno ci conosceva, in modo che tu potessi frequentare
l’università e, qualche mese dopo, “nostra” madre si ammalò e morì, lasciando a
me l’onere di custodire il tuo segreto. Non sapevo da cosa il Dottore si stesse
nascondendo, né per quanto sarebbe stato in pericolo – ho persino pensato che
egli fosse semplicemente stanco di viaggiare e volesse solo… fermarsi – perciò ho continuato a
tacere, fino a che avere un fratello minore non è diventato naturale. E, com’è
ovvio, in quanto umano tu hai continuato ad invecchiare, divenendo sempre meno
simile all’avventuriero dell’universo che eri stato e sempre più simile ad un
uomo comune». Alla fine del racconto, parve che un grande peso gli fosse stato
tolto dalle spalle, ma per contro sembrò sfibrato, come se si fosse strappato
un pezzo di cuore insieme alla spina che lo trafiggeva.
Un silenzio pesante, irrespirabile, impregnò l’aria.
All’improvviso tutto l’ossigeno si era trasformato in lana ed ostruiva il
fiato, la visuale, i suoni. Non riuscivo a processare quanto appena appreso,
sembrava tutto un’orribile e grottesca farsa.
Sherlock era immobile nella sua poltrona, fissava il fuoco
con volto immoto, come se non esistesse nient’altro. Poi si rannicchiò
portandosi le ginocchia al petto e poggiò il mento su di esse, in una posa che
mi era ben familiare, ma che in quel contesto mi parve solo infantile ed innocente.
Con lentezza Mycroft si alzò in piedi e lo raggiunse, si
chinò su di lui e gli posò il più lieve dei baci sulla fronte, prima di
allontanarsi e lasciare la stanza. Sapeva che il proprio fratello aveva bisogno
di riflettere.
Passando accanto a me, mi posò una mano su una spalla con
una confidenza che non mi aveva mai concesso, ed il mio cuore si accartocciò
come un foglio di carta fra le fiamme, mentre mi affidava suo “fratello”;
rischiavamo di perderlo entrambi e io non riuscivo a respirare.
Il click con cui
si chiuse la porta, per quanto sommesso, mi si rovesciò addosso come un secchio
d’acqua gelida, e rimasi lì – intirizzito ed inebetito – a fissare il mio amico
ancora statico in quella postura serrata. Sembrava non essersi nemmeno accorto
dell’uscita del proprio congiunto, ma ero certo che invece stesse registrando
tutto, perfino la cadenza dei miei respiri.
Avrei voluto chiamarlo, ma non trovavo la voce. Rimase
schiacciata in gola come se la lana nell’aria mi avesse ostruito i polmoni.
Il fuoco baluginò su qualcosa di lucente e, posato su di un
tavolino, notai l’orologio che aveva dato inizio a tutto. Per un momento lo
odiai con ferocia inaudita. Poi mi alzai – o, per meglio dire, scivolai giù dal divano, perché le gambe
non sembravano intenzionate a reggermi – lo raccolsi e mi inginocchiai ai piedi
della poltrona di Holmes.
Solo dopo diversi minuti lui si voltò a guardarmi ed allora
gli porsi la cipolla d’argento.
«Non la voglio» sibilò con la repulsione più genuina.
«Le appartiene, ma la custodirò io, se preferisce» replicai
in tono sommesso.
Le labbra del mio amico tremarono, fu solo un attimo, tuttavia lo notai.
«Appartiene a lui. Io sono Sherlock
Holmes» continuò con sprezzo, come se io stessi insinuando o – che sciocchezza!
–desiderassi il contrario.
Non lo toccai, anche se avrei voluto, poiché sapevo che in
quel momento non l’avrebbe gradito, e rimasi in silenzio, perché davvero non
c’era niente che potessi dire. Restai semplicemente lì, ignorando il dolore
alla gamba sinistra, che gradiva ben poco quella scomoda posizione.
«Avrebbe senso» mormorò, dopo quelli che mi parvero secoli,
ed un sorriso cinico gli si dipinse sul viso spigoloso. «Non mi sono mai
comportato come una persona comune, non ricordo di aver fatto nessuna delle
cose sciocche che fanno bambini da piccoli o i ragazzi, durante l’adolescenza.
La gente ha sempre ritenuto che fossi strano, perfino pazzo. Credevo fossero
solo degli idioti, ma in questo modo avrebbe senso, capisce? Non sono gli altri
ad essere degli sciocchi, sono io ad avere un cervello superiore. Letteralmente
superiore. Pensavo di aver preso da
mia madre – oh, lei era brillante, davvero brillante,
sa? Doveva essere per questo che il Dottore l’aveva scelta. Ma forse…
semplicemente, non sono umano…»
«La smetta» cercai di fermarlo, perché stava straparlando,
addirittura blaterando.
«Sono io il
racconto, non Lui. Sherlock Holmes è solo una finzione, il personaggio di una
storia, come il Cavalier Dupin di
Edgar Allan Poe che lei ama tanto, Watson…»
«La smetta… la smetta!» non potei fare a meno di alzare la
voce e, finalmente, s’interruppe. Vedermi alterato doveva aver avuto un certo
effetto. «Lei. È. Reale» scandii con decisione, «Lei è Sherlock Holmes, il mio
coinquilino, il mio amico più caro, il mio collega, il mio compagno. Non so
quanto speciale sia questo Dottore,
ma so che lei non è da meno e che può scegliere.
Può scegliere se diventare Lui o restare se stesso».
Holmes mi osservò con un’attenzione quasi morbosa, pendendo
dalle mie labbra come non aveva mai fatto prima, poi riportò le gambe in una
posa più consona ed allungò una mano chiudendola sulla mia, che ancora
stringeva l’orologio. Ed allora successe qualcosa
– non so spiegarlo in modo razionale, ma vidi delle immagini.
Un pianeta dal cielo arancione e l’erba rossa, che si
stagliava su una catena montuosa di una bellezza commovente. Tanti uomini
diversi, eppure ero certo che tutti fossero il Dottore, e l’ultimo sembrava un
Holmes giovanissimo, appena ventenne. E poi una cabina blu, un cane fatto di
ferro, una splendida ragazza bionda, un essere che sembrava solo un enorme
faccia grinzosa, e tanto altro ancora, così tante immagini che facevo fatica a
distinguerle, rapide come comete su una stellata plumbea. Mi bastò uno sguardo
per sapere che il mio amico aveva visto le medesime scene.
«Quelli sono i Suoi
ricordi» mormorò.
«Ma come…» iniziai, però venni subito interrotto.
«Oh, si tratta di un campo telepatico che…» esclamò con un
entusiasmo che non mi era del tutto sconosciuto, ma che era così fuori luogo in
quel frangente. Tuttavia si bloccò subito. «Lui
parla così» bisbigliò un attimo dopo, come se avesse riconosciuto i modi di
fare di un vecchio amico. «Tutte quelle persone… lo stanno aspettando. In altri
tempi, in altri luoghi, sono ancora lì e sperano di rivederlo. L’universo ha
bisogno del Dottore» realizzò con quieto orrore.
“Ma l’Inghilterra ha bisogno di lei – io ho bisogno di lei”. Avrei voluto dirlo, ma ovviamente non
potevo, perché non sarebbe stato appropriato e perché Holmes doveva scegliere
da solo la strada da intraprendere.
«Allora… come funziona? Apriamo l’orologio e, semplicemente,
un altro uomo prenderà il suo posto, si aggirerà per la City con le sue fattezze e
lei scomparirà, Holmes?» Era un pensiero che non potevo accettare, un boccone
troppo amaro da inghiottire.
«Suppongo sia così» rispose il mio compagno, benché non
fosse necessario, stringendo più forte la mia mano e, di riflesso, l’orologio.
«Vuole davvero farlo?» domandai ansioso, con frustrazione
crescente.
«Non lo so, ragazzo mio. Dovrei?» mi chiese a sua volta. «La
sua onestà è stata spesso l’ago della bilancia su cui ho posato la mia
coscienza, Watson. Mi dica, sarebbe la soluzione migliore?»
Per quanto fossi lusingato da quelle parole, avrei dato
qualunque cosa per trovare una scappatoia, una frase ad effetto che illuminasse
entrambi sulla decisione più giusta da prendere, ma io non possedevo
l’eloquenza e la logica del mio amico.
«La soluzione migliore per chi, Holmes? Credo sia questo il vero quesito che dobbiamo porci.
La scelta più giusta per lei, per me, per suo fratello Mycroft, per Londra? No.
La scelta migliore per il mondo, per l’universo intero? Probabilmente sì»
ammisi a malincuore.
Allora strappò la cipolla d’argento dalla mia presa e si
alzò repentinamente in piedi, cominciando a fare su e giù per la stanza, come
lo avevo visto fare centinaia di volte, quando cercava il risultato più
corretto per uno dei problemi che ci sottoponevano i nostri clienti. Ed io
sperai, disperai, pregai che la
trovasse, che esistesse.
Osservai la sua figura sottile e nervosa, i passi decisi e
cadenzati, lo sguardo acuto che sondava ogni incisione dell’oggetto che teneva
tra le dita, come se potesse interpretarle. Tutto questo mi era così
dolorosamente familiare che il solo pensiero di non poter più assistere ad una
scena simile mi schiacciava.
E poi, all’improvviso, Holmes si fermò al centro della
stanza. Un sorriso lieve curvò le sue labbra, senza raggiungere gli occhi, ed
io seppi cosa stava per fare ancora prima che aprisse bocca.
«Addio, John» soffiò, e poi aprì l’orologio.
Un esplosione di luce bruciò tra i suoi palmi,– mentre io
gridavo il suo nome, riparandomi il volto con un braccio – si riversò sul suo
viso e gli entrò nella bocca, nel naso, negli occhi, nelle orecchie. Un attimo
dopo era tutto finito ed il mio amico – o l’uomo che era stato – era a terra,
ansimante ed in ginocchio.
Non ricordo con coerenza cosa feci in seguito – forse lo
chiamai balbettando – ma so che mi precipitai su di lui, inciampando nei miei
stessi piedi, fino a raggiungerlo sul pavimento. Tutto ciò che riuscivo a
pensare era “Come ha potuto? Come ha potuto? Come ha potuto?” in un mantra
angosciato e spaesato che si ripeteva nella mia testa, e forse lo dissi anche
ad alta voce, perché quando lo afferrai per le spalle, egli si aggrappò ai miei
polsi e biascicò in risposta: «Mi dispiace».
Allora compresi che era davvero accaduto. Non era più lui.
Ma non ebbi nemmeno un attimo per riflettere o comprendere,
perché mi si accasciò addosso, tanto stravolto che pensai stesse per svenire.
«Si sente bene?» domandai sorreggendolo.
«Sì… no, fa
dannatamente male» ammise, ma il suo viso cereo stava riprendendo gradatamente
colore ed anche il suo respiro stava tornando ad una parvenza di normalità.
Fu allora che Mycroft Holmes, richiamato dall’esplosione di
luce o forse dalle mie urla, entrò nella stanza.
Si fermò sulla cornice della porta e lo vidi sbiancare,
mentre osservava suo “fratello”. Tuttavia non tradì il suo aplomb e, dopo un respiro profondo, disse solo: «Bentornato, Dottore».
«Mycroft» rantolò lui, a mo’ di saluto, rimettendosi
faticosamente in piedi. «Ti trovo in forma, anche se ti ricordavo più giovane».
Io, invece, rimasi lì dov’ero, troppo stordito per reagire.
Tutta la mia verve di soldato non era sufficiente ad affrontare una simile
situazione. Osservavo quello sconosciuto muoversi con il corpo del mio amico,
parlare con la sua voce, guardare il mondo attraverso i suoi occhi, e cercavo
di farmene una ragione, di accettare che non fosse più lui. Ma, nonostante ciò,
quando vidi le ginocchia del Dottore cedere, lo sorressi nuovamente, per un
puro riflesso condizionato.
«Lei ha bisogno di sedersi» gli ingiunsi schiarendomi la
voce, e quell’uomo mi dedicò un sorriso gentile, così inusuale sulla bocca di
Sherlock Holmes.
«Ritrasformarsi da umano a Signore del Tempo è doloroso – sa
cambia tutta la composizione chimica, in ogni cellula – ma tra poco starò bene»
mi rassicurò, rimettendosi dritto. «Mycroft dovrebbe avere qualcosa per me»
soggiunse.
Quest’ultimo annuì e si diresse verso un quadro, appeso alla
parete lì accanto. Lo scostò, rivelando una cassaforte, e prese dal suo interno
un astuccio di velluto blu che porse al Dottore.
Egli lo aprì e fece scivolare sul proprio palmo due oggetti
bizzarri. Il primo era una chiave, seppure di una foggia che non avevo mai
visto prima. Il secondo sembrava una bacchetta metallica, ma non avevo idea
dell’uso che potesse farne. Fece scivolare quest’ultima nella tasca interna
della giacca ed, al contempo, ne estrasse qualcos’altro: la lente d’ingrandimento
di Sherlock Holmes.
La gola mi si strinse in un nodo al solo vederla.
«Un aggeggio interessante. Permette di capire come
funzionino le cose, anche se non può aggiustarle come il cacciavite sonico.
Credo che la conserverò» ponderò ad alta voce, ammiccando nella mia direzione.
«Cosa farai ora?» gli domandò Mycroft.
«Oh, un po’ di questo, un po’ di quello. Ancora non lo so»
rispose lui.
«Starai bene?» chiese allora il maggiore – l’unico – degli Holmes.
Il Dottore lo scrutò con sguardo meditativo, soppesandolo
lentamente, poi le sue labbra si arcuarono ancora. All’apparenza era molto più
propenso al sorriso di quanto lo fosse mai stato il mio amico.
«Ti eri affezionato davvero a Sherlock» disse, e non era una
domanda, bensì un’affermazione.
«Non si vive per anni accanto ad una persona senza amarla.
Specie se è una persona brillante come te, Dottore, in qualunque versione tu
sia» replicò lui, con un certo orgoglio.
«Starò bene» gli assicurò l’altro, con un’occhiata intensa,
posandogli le mani sulle spalle. «E tu, vecchio mio?»
«Oh, io ho i miei binari, Dottore. La mia vita è
confortevole e priva di rischi».
«Non so come fai a sopportarla» ribatté l’uomo dello spazio,
corrucciando la bocca in una piccola smorfia.
«Non lo capiva nemmeno Sherlock» convenne Mycroft con un
brillio malizioso negli occhi, troppo simile a quello del fratello minore
perché potessi sopportarlo.
«Molto bene! È
tempo di andare, ho alcuni affari da sbrigare a Baker Street. Dottor Watson,
viene con me?» esclamò con entusiasmo.
Naturalmente non avevo altro posto in cui andare.
L’appartamento al 221B era pur sempre casa mia e – me ne resi conto solo in
quel momento – presto avrei dovuto trovare un nuovo coinquilino.
Ci congedammo da Mycroft, poi, non appena scendemmo in
strada, il Dottore inspirò a fondo l’aria fredda e la rilasciò in un lento
sospiro.
«È bello respirare di nuovo con i miei polmoni» chiarì,
interpretando la mia espressione perplessa.
Ci incamminammo in silenzio e per tutto il tempo non feci
altro che osservarlo, mentre quell’uomo si guardava attorno con la gioia di un
cieco che ha miracolosamente recuperato la vista. Ogni tanto si fermava ad
assaporare il sole o il vento sulla pelle, girava su se stesso per osservare a
pieno la città che lo attorniava, a tratti rallentava e talvolta correva,
abbandonandosi di quando in quando a scrosci di risa. Nel momento in cui ci
aprì la porta, abbracciò la signora Hudson lasciandola di stucco e si precipitò
su per le scale, sino a raggiungere la porta dell’appartamento che era stato
anche suo.
«Ma guarda qua!» chiocciò divertito, «Da umano non sono
diventato più ordinato». Si aggirò per il salotto con familiarità, soppesando
gli oggetti di Holmes. «La noia ha tirato fuori i miei lati peggiori» borbottò,
raccogliendo l’astuccio di marocchino che conteneva le disdicevoli sostanze di
cui faceva uso il mio amico e gettandolo nel cestino della carta straccia.
«Di questo vizio, invece, sarà più difficile liberarmi»
considerò, prendendo dalla rastrelliera delle pipe quella di radica, che era
stata la sua preferita, ed infilandola in tasca.
Più di una volta fui tentato di fermarlo, trovavo
irrispettoso che stesse manipolando tutte quelle cose come se fossero sue; il
mio collega non avrebbe apprezzato che qualcuno spostasse i suoi effetti. Mi
trattenni a stento quando le sue dita raggiunsero il violino.
«Uno Stradivari. Era un grand’uomo, quello! Un po’ folle, ma
chi non lo è?» l’abitudine di parlare ad alta voce, senza curarsi che gli
astanti lo stessero ascoltando o seguissero i suoi ragionamenti, evidentemente
non era esclusiva del mio coinquilino.
«Lei è davvero un’altra persona?» quando formulai quella
domanda, si arrestò di colpo, con ancora lo strumento musicale in mano.
«Prenda lo stetoscopio, dottor Watson» comandò con seria
placidità.
«Per quale motivo?» chiesi circospetto.
«Perché ha bisogno di una prova» chiarì, ed allora presi la
valigetta con la mia attrezzatura ed inforcai sulle orecchie lo strumento
indicatomi.
Il Dottore si avvicinò a me, permettendomi di posare il
microfono sul suo petto. Ascoltai il battito regolare del suo cuore senza
comprendere cosa volesse dimostrare, poi lui spostò la mia mano sul lato destro
del suo petto, ed allora sussultai. Un secondo battito, potente quanto il
primo, scandì il suo ritmo nei miei timpani, ed io avvertii il sangue defluirmi
dal volto.
«È un personaggio di
fantasia proveniente da un altro pianeta; un uomo brillante, con due cuori ed
un certo altro numero di stranezze, che viaggia continuamente» solo allora
ricordai le parole che Holmes aveva pronunciato, quando il fratello maggiore
gli aveva chiesto cosa sapesse del Dottore.
«Due cuori» mormorai «Com’è possibile?»
«Vengo dal pianeta Gallifrey e sono l’ultimo rappresentante
di una razza chiamata Signori del Tempo»
spiegò.
«Lei sembra umano» obiettai «Perlomeno esteriormente».
«No, siete voi umani che somigliate ai Signori del Tempo»
ribatté quasi offeso. «Noi siamo venuti prima. Molto prima».
«E lei è l’ultimo?»
«Già. Sono rimasto solo io» confermò senza alcuna
inflessione di sorta, poi ripose il violino, che ancora stringeva, nella sua
custodia e se lo pose sotto il braccio. «Bene. Andiamo?» domandò, con rinnovato
entusiasmo.
«Dove?» replicai, sempre più confuso, travolto dagli eventi,
dalla frustrazione, dal dolore, dall’assenza di Holmes e dall’esuberanza di
quello sconosciuto.
Lui si fece di nuovo serio e mi si accostò ancora di più,
molto lentamente, come se fossi un animale ferito che avrebbe potuto azzannarlo
da un momento all’altro – e, con un certo shock, mi accorsi che forse era davvero
così.
«Mi permetta di ringraziarla per essersi preso cura di me in
tutti questi anni, Dottor Watson» sussurrò scrutandomi con uno sguardo intenso
che ben conoscevo.
Qualche minuto dopo ci ritrovammo ancora per le strade di
Londra; non potei fare a meno di notare che il Dottore le conosceva a menadito
e le imboccava senza alcuna incertezza. Presto raggiungemmo l’East End e lui mi
guidò nei fatiscenti sotterranei di un casa abbandonata.
«Oh, eccolo qui!» esclamò, avvicinandosi ad una grossa
cabina blu che portava la scritta “Polizia”. «Dottor Watson le presento il
TARDIS, Time And Relative Dimension In Space» aggiunse, poi schioccò le dita e, come per magia, le porte
della cabina si aprirono. «Su, avanti, entri. Non abbia timore» m’incitò
precedendomi.
Lo seguii dubbioso, domandandomi perché mai dovessi entrare
in un posto dove saremmo stati così stretti, ma ogni mia riflessione venne
tacitata dalla vista che mi trovai davanti. All’interno quello strano aggeggio
era infinitamente più grande che all’esterno! Non potei esimermi dal fare
qualche passo indietro e girare attorno alla cabina, per controllare che non ci
fosse qualche trucco, prima di rientrarvi dentro.
«Lei è un mago!» esclamai allibito.
«Oh, ma si guardi… lei è bellissimo»
replicò con un sorriso, gettandomi nel più totale imbarazzo.
«Come scusi?» borbottai.
«Lei è davvero
bellissimo. Ha l’espressione di un bambino che, svegliandosi la mattina di
Natale, scopra che fuori ha nevicato. Così genuina, quasi ingenua. Non mi
stupisce che, anche da umano, io amassi tanto stupirla» chiarì contemplandomi
quasi fossi un’opera d’arte. «In tanti sono entrati qui, sa? E le confesso che
adoro le loro faccine stupefatte quando si accorgono delle vere dimensioni del
TARDIS – tant’è vero che, solitamente, chi non reagisce come mi aspetto mi sta
antipatico – ma lei… lei è straordinario,
dottor Watson» sospirò.
«Allora, le piace?!» aggiunse poi, aprendo le braccia e
facendo una piroetta su se stesso. Corse verso il centro della stanza, dove era
situata una piattaforma tonda, costellata di pulsanti, sormontata da una
colonna trasparente e sussurrò «Mia bellissima nave, ti sono mancato?»* con
affetto evidente, accarezzando quest’ultima.
«Sta parlando con un oggetto?» domandai.
«Il TARDIS non è un oggetto inanimato, dottore. Ha una
propria coscienza, un proprio cuore» chiarì, tornando verso di me.
Quelle iridi, benché grigio acciaio come quelle del mio
amico, brillavano di una sommessa malizia che di rado avevo scorto nel suo
sguardo apatico, e celavano qualcosa di più oscuro – senza tempo.
Ebbi l’impressione di essere stato catapultato in un altro
mondo, come se fossi appena finito tra le pagine di “Viaggio al centro della Terra”. Barcollai sotto il peso di tutte
quelle rivelazioni e di quella situazione assurda, e stavolta fu il Dottore a
sorreggermi.
«E Holmes? Che ne sarà di lui?» mormorai.
«E’ ancora qui» mi rassicurò, poggiandosi una mano sul petto
«solo un po’ più in fondo».
«Londra ha bisogno di Sherlock Holmes,» affermai «ma lei se
ne andrà».
«Tornerò. Con il TARDIS posso andare e venire a mio
piacimento. Potrei star via per anni e per lei sarebbe passato meno di un
giorno» mi spiegò «Sherlock Holmes non deve per forza scomparire».
«Sherlock Holmes non può essere il Dottore, ma il Dottore
può essere Sherlock Holmes» compresi allora, e la scelta che aveva fatto il mio
coinquilino, mi parve finalmente un po’ più sensata.
Egli annuì. «Perché non viene con me?» propose poi.
«Cosa?»
«Lasci che la ripaghi della sua fedeltà, dottor Watson. La
porterò ovunque, le mostrerò l’universo, le regalerò la storia. Dove desidera
andare? Nel futuro? Nel passato? Ai confini del Sistema Solare? Le farò
conoscere le stelle che ora non hanno ancora scoperto, le mostrerò che non
siete i soli abitanti dello spazio, le farò conoscere gli uomini che hanno
scritto la storia» mi illustrò entusiasta.
«Io… io non so cosa dire» smozzicai sotto quella valanga di
parole.
«Dica semplicemente sì»
sorrise lui «Potrei viaggiare da solo, ma non sarebbe altrettanto divertente.
Per me vuol dire molto avere un compagno su cui fare affidamento» continuò,
rivolgendomi quasi le stesse parole che una volta mi aveva detto il mio
collega.
Fu allora che ricordai che eravamo entrambi soli e che non
avevo nessuno ad attendermi a casa, nemmeno Holmes.
«D’accordo. Verrò con lei. Ma torneremo?»
«Quando vuole, tutte le volte che lo desidera» mi assicurò,
«Adoro Londra, anche se la regina Vittoria non mi ha molto in simpatia. Mi ha
nominato cavaliere, una volta, sa? Prima di esiliarmi».
«Non capisco assolutamente per quale motivo avrebbe dovuto
farlo» gli concessi un piccolo sorriso, il primo da quando era uscito
dall’orologio. «Sa, ho sempre desiderato conoscere Mozart».
«Oh, era un tipo bislacco» replicò il Dottore e tutto il suo
viso s’illuminò di gioia, «Che stiamo aspettando? Allons-y!» esclamò subito dopo, raggiungendo i pulsanti ed
abbassando diverse leve.
La passione per il francese doveva essere un’altra cosa che
Holmes aveva ereditato da lui.
FINE.
*La frase d’introduzione è tratta da “The Fire of Drift-wood” di Henry Longfellow.
In originale il Dottore si rivolge al TARDIS – che, nonostante la traduzione italiana, è
una lei – chiamandola “beautiful
ship”, cioè “bellissima nave”, oppure “sexy thing”, ovvero “cosa sexy”. Ho
utilizzato il nomignolo più adatto al contesto, anche perché “cosa sexy” è
veramente orribile in italiano.