Quando
mi sono presentato alla
sua porta non avevo ancora compiuto ventidue anni. Lui li avrebbe
compiuti
entro poche settimane, ma era già arrivato : Syd aveva appena diciassette
anni quando era entrato per la prima volta nel tempio della musica e
dei
Beatles di Abbey Road. Syd aveva diciassette anni quando aveva
dichiarato di
aver cominciato a suonare la chitarra da appena tre anni, prima di
spiazzare
produttori e discografici con un arpeggio talmente complesso e assurdo
che alla
fine si era ritrovato i polpastrelli sanguinanti. Aveva diciassette
anni quando
l’Inghilterra prima, ed il mondo poi, si erano accorti di
quel ragazzino
bellissimo che ti attirava a se come un buco nero.
Quando
mi ha aperto la porta non
ha mostrato stupore, anche se non ci vedevamo dai tempi della scuola
– era
stato lui ad invitarmi, anche se era stato in realtà Nick a
mettersi per primo
in contatto con me .
In
realtà non credo mi abbia
neppure davvero visto, perché Syd non c’era
più. Non c’erano più i suoi occhi,
per la precisione: al posto di quei suoi enormi occhi neri sempre
spalancati
sul mondo, curiosi, inquieti, affamati, c’erano solo due
minuscole biglie di
vetro, opache e senza colore. Il vuoto.
Lo
ammetto, mi ha fatto paura.
Syd
Barrett era un ragazzo
bellissimo, nessuna pop star poteva davvero rivaleggiare con lui, a
quei tempi,
non di certo Lennon, non quella scimmia ossuta di Jagger, nemmeno Plant
poteva,
su questo non c’erano dubbi. Forse neppure Bowie avrebbe potuto.
Era
una costellazione a sé, lui,
un intero nugolo di stelle dai colori sgargianti e dai campi
gravitazionali
incerti.
Però
quel giorno mi salutarono
solo due buchi neri.
Ma
non dissi niente, non a lui,
non a nessun altro del gruppo che mi aspettavano all’interno
dell’appartamento.
Probabilmente in quel momento non dissi nulla nemmeno a me stesso,
lasciai che
l’informazione fosse registrata ed immediatamente archiviata,
nascosta,
sepolta, come tutte le cose sgradevoli. Syd era mio amico,
c’ero anch’io quando
gli avevano dato quel soprannome, non dimenticherò mai quel
jazz club in cui
abbiamo passato intere serate, due quattordicenni sfigati innamorati di
un
suono spezzato, distorto, eccessivo come una prospettiva aberrata, e
per quello
stesso motivo così attraente.
Ma
io ero, sono, inglese. E gli
inglesi non parlano di certe cose, o la regina Vittoria non avrebbe
potuto
pretendere la crinolina e le stecche di balena dalle sue suddite quando
nel
resto del mondo le donne scoprivano le caviglie e la gioia di abiti
senza le
maniche a sbuffo. Gli inglesi eccedono solo quando sono ubriachi, forse
per
questo siamo un popolo di forti bevitori: senza l’aiuto
dell’alcol non
riusciremmo ad esprimere nemmeno a noi stessi i sentimenti
più estremi.
Quieta
disperazione, ecco .
Non
depressione, tristezza o,
peggio, rassegnazione. Quieta disperazione, questa è la
maniera inglese: il
nostro apparente cinismo viene tutto da lì, forse per questo
nessun altro al
modo capisce davvero le nostre battute e ne ridiamo da soli.
Volevamo
bene a Syd .
Continuo
a ripetermelo e a
ripeterlo come un mantra. Il gruppo doveva tutto a Syd, era stato lui a
metterlo insieme, lui era il compositore, lui il paroliere: era Syd il
gruppo.
Roger
affinava i testi, Richard arrangiava
ed armonizzava le sue melodie spezzate, ma era Syd la colonna portante.
Io
inizialmente fui chiamato solo come supporto, ma sapevamo tutti che
avrei
dovuto prendere il posto di Syd alla chitarra; lui non
riusciva più a suonare.
Syd
non c’era già più e a nessuno
sembrava importare davvero.
Se
ne parlò con la casa
discografica, se ne parlò con i manager e con chiunque
avesse voce in capitolo,
ma non si riuscì a trovare una posizione comune,
perché per noi Syd era
insostituibile – non si esisteva senza Syd, semplicemente
– mentre i discografici
quasi ci risero in faccia, perché chi di voi è Pink, a proposito?
Le
nostre facce ed i nostri nomi
non contavano, solo il signor Pink Floyd aveva
importanza, era lui a macinare note e
soldi. I pezzi – noi –
erano intercambiabili.
Ma
come si sopravvive senza un
cuore?
Ce
lo siamo chiesti per molto
tempo, dopo e durante, ma ci costringemmo a provare.
Syd
Barrett era stato l’anima, il
suono e la voce dei Pink Floyd, ma non poteva più esserne la
mente, perché quella
era volata via, galleggiava ormai senza più controllo alla
deriva verso un buco
nero.
Però
volevamo bene a Syd .
Devo
continuare a ripeterlo o
quello che abbiamo fatto potrebbe anche cominciare a sembrarmi meno
orribile:
perché, semplicemente, l’abbiamo fatto fuori.
Abbiamo ceduto alla nostra
voglia, alla nostra vanità, alla logica del mercato, e gli
chiedemmo di
andarsene. Dal suo gruppo.
Quanto
si può essere meschini,
egoisti, stupidi, a vent’anni?
Mentre
vivi non ti chiedi quel
che sta succedendo, è dopo che ci ritorni, magari dopo mesi,
anni in cui sei
semplicemente andato avanti prendendo quello che potevi o che credevi
di
meritare. Però non funziona proprio così, la vita
non fa mai sconti a nessuno,
nemmeno a quattro inglesi di cui tutti si riempiono la bocca se
vogliono
sembrare degli intenditori musicali. La vita non è in
discesa per nessuno, è un
sentiero roccioso di montagna che fai di tutto per aggredire e mangiare
passo
dopo passo per arrivare in cima: solo che, durante la tua scalata, a
valle non
rotolano solo sassi.
Il
nostro macigno – mio e di
Roger e di Nick e di Richard. Nessuno di noi è innocente
– porta su
inciso il nome di Syd.
Lui
era il nostro pifferaio
magico, sue erano le note su cui i ragazzi di Londra perdevano
completamente il
lume della ragione cominciando a muoversi come bambini posseduti, e sue
sono
state le note che abbiamo cantato anche dopo, tutte nessuna esclusa.
Abbiamo
cercato di mondarci dal peccato di aver ucciso un fratello suonando per
lui e
solo per lui, per quel pazzo diamante che nessuno, nonostante tutto,
riusciva a
dimenticare.
Syd
era stato il folle bardo che
aveva portato il signor Pink all’attenzione
di tutti, ma che pure non
voleva essere guardato né ammirato o blandito.
Syd
odiava la scatola
magica . La chiamava così, con disprezzo,
perché di magico concepiva solo i
mondi fantastici della sua mente. Quelli che se lo sono anche portati
via,
però, senza più permettergli di tornare indietro.
La
diagnosi di schizofrenia venne
dopo, comunque. Noi lo sapevamo già, tutti lo sapevano Syd
fosse davvero matto,
ma fu solo dopo l’allontanamento dal gruppo che un camice
bianco disse che sì,
Syd era proprio squilibrato senza rimedio, e allora che altro si poteva
fare?
Avevamo fatto bene a mandarlo via, no? Un matto non può fare
musica.
Non
era vero. Syd ha continuato a
scrivere e comporre e dipingere fino alla fine. Io lo so,
perché ero con lui.
Anche Roger lo sa, anche lui ha sulla coscienza
quest’ulteriore peccato.
Syd
cantava e a noi si spezzava
il cuore, suonava la chitarra e ci si chiudeva lo stomaco.
Syd
continuava ad essere il
pifferaio magico, il diamante che tutti stavano cercando di far passare
per
zircone pur di lavarsi la coscienza. E c’è
dell’ironia nel pensare che nessuno
– o quasi – allora abbia comprato i suoi album,
nessuno gli abbia dato una
possibilità, perché oggi quelle canzoni sono
considerate capolavori del genere,
pietre miliari della psichedelia.
E a
me
viene da vomitare. E, sono sicuro, anche a Richard e a Nick e a Roger.
Anche se
quest’ultimo non me lo direbbe mai e non per riserbo.
Semplicemente, non ci
parliamo più da troppo tempo. Roger non parla più
con nessuno di noi da troppo
tempo, se non tramite avvocati: e io so che non sarebbe successo se
anche lui
non avesse dovuto affrontare i mostri della sua mente come Syd, se non
si fosse
ritrovato nella scomoda posizione di dover eguagliare e persino
superare il
genio che gli aveva indicato la strada, ma senza riuscirci.
Perché Syd componeva
da solo, Roger aveva bisogno di noi tre per ottenere gli stessi
risultati: Syd
era già Beethoven, mentre noi un povero Salieri ancora alle
prese con il
fantasma di Mozart .
Syd
era un ragazzo bellissimo,
l’ho già detto. Ed era divertente, affascinante,
creativo.
Roger
doveva – voleva -
prendere il suo posto, ma non ci è mai
davvero riuscito, perché era Syd il lato oscuro della Luna,
quello che intriga
e fa paura conoscere. Roger era il suo positivo: il volto
sfregiato di un’arte intrisa di senso di colpa .
Per
un po’ ci siamo davvero
illusi di poter fare a meno di Syd e della sua musica: avevamo Roger,
in fondo,
e Richard. C’eravamo anch’io e Nick, ed eravamo
bravi. Io e Rick componevamo,
soprattutto, Nick arrangiava i pezzi, li ampliava, Roger scriveva
maggiormente
testi. Rick, al contrario di noialtri, aveva una solida istruzione
musicale
basata su un talento spropositato per quanto era invece mite lui, ed
era
curioso, felice come un bambino quando poteva giocare
e sperimentare.
Però
diciamocelo, Ummagumma
non è
granché e Atom
Heart Mother fa
schifo, mi vergogno
persino a nominarlo, pensare di suonarlo oggi sarebbe un incubo. Non so
cos’avevano in testa i miei compatrioti quando
l’hanno comprato in massa, io
l’avrei lasciato a prendere polvere sullo scaffale. Non che
lo pensassi allora,
ovviamente: sapevo – sapevamo – che non erano
all’altezza dei lavori di Syd, ma
almeno li avevamo fatti noi. Da soli .
Però,
il numero uno in classifica
di Atom
ci
diede un po’ di coraggio e di fiducia in noi stessi: non
facevamo poi così
schifo senza Syd, si poteva fare.
Cambiammo
senza nemmeno
accorgercene, avevamo così poca dimestichezza con noi stessi
e la nostra stessa
musica che finimmo per abbandonare la psichedelica tanto cara a Syd per
diventare
altro, scivolammo senza quasi accorgercene nel progressive
più puro. O forse, inconsciamente
, stavamo tentando di prendere le distanze dal nostro passato,
abbandonavamo le
nostre radici per non doverci mettere in competizione con il fantasma
che ancora
aleggiava alle nostre spalle.
Non
lo
so .
La
seconda vita di Mr. Pink
è
cominciata nel
millenovecentosettantadue, però. È cominciata e
finita, per la verità, anche
se, quando nel maggio di quell’anno raggiungemmo Abbey Road
per l’ennesima
volta, noi non lo sapevamo.
The
Dark
Side of The Moon è
stato la calma prima della tempesta,
perché ci eravamo illusi di aver raggiunto
l‘equilibrio perfetto: eravamo in
pace e uniti e felici di poter suonare insieme. Se
Atom era
stato un esercizio
solipsista di stile e nient’altro, La Luna divenne
una tela comune, un grande parco
giochi in cui riversammo di volta in volta idee e pensieri, una specie
di
diario collettivo in cui tutti aggiungevamo una riga in ogni pagina.
È
stato
il primo ed ultimo album nato in quel clima .
L’ultimo,
perché La Luna
si portò
via un altro pezzo. Syd si era
perso nel buio e nella nebbia, Roger si fece ingannare dalla luce
lattiginosa
di un astro morto: Roger seguì quella scia senza dirci
niente; non c’impedì di
seguirlo, semplicemente non si preoccupò di controllare
fossimo dietro di lui.
Quell’album
ci diede più successo
di quanto probabilmente eravamo pronti a maneggiare, ma non fu quello
il vero
problema, affermarlo sarebbe una versione semplificata e persino banale
di
quello che successe realmente, perché Roger non era uno
stupido ed avrebbe
potuto maneggiare qualunque cosa, compreso quel successo stratosferico
più che
annunciato.
Eravamo
noi che non andavamo più .
Non
potevamo andare, perché nel
nostro gruppo non c’era assolutamente più fiducia,
non quella autentica almeno;
avevamo fiducia nel talento l’uno dell’altro,
nell’abnegazione al lavoro, nel
professionismo, ma Roger non si fidava di nessuno come amico
, il millenovecentosessantotto gli aveva portato via
quell’ultimo briciolo d’innocenza:
se ripenso ai quei giorni, io vedo un matrimonio in crisi, Roger solo
un gruppo
di lavoro che non funzionava più. Ed è triste.
Il
problema è che siamo inglesi.
Siamo inglesi e siamo probabilmente nati vecchi. Noi non parliamo di
certe
cose, non si parla di sentimenti nella vecchia Londra, non lo si faceva
nemmeno
nell’ottocento checché ne pensino tutti, non ci si
siede a prendere il tè delle
cinque per mettere a nudo l’anima con il nostro vicino, ma
solo per rendere la
patina che c’incolliamo addosso sempre più spessa
e trasparente, l’affettazione
diventa una seconda pelle, la cortesia un esercizio di stile:
è una silenziosa
guerra tra isole.
Per
questo abbiamo finito per attaccarci
ad uno stupido nome invece che ai pezzi che lo componevano, era molto
più
semplice in quel modo: avrebbe fatto meno male .
Con Syd avevamo perso la nostra polpa
più morbida e buona, senza di lui avevamo ripreso a prendere
quel tè amarissimo
che ci svegliava e ci costringeva a guardare il mondo e noi stessi per
quello
che eravamo in realtà: niente .
Quel
niente
ci
trascinò definitivamente nella sua
orbita mentre registravamo l’ode per Syd.
Non
è
ironico?
Certo
che lo è e, da buon
inglese, se non fossi stato un pupazzo di quell’enorme
teatrino che eravamo
diventati, riderei anche adesso a ripensarci. Invece non ci riesco e,
visto che
sono inglese, sono costretto a versarmi un altro bourbon per
giustificare gli
occhi lucidi con una sbronza malinconica.
Syd
entrò in studio mentre
stavamo cominciando a registrare Shine On : l’avevamo composta
pensando a
lui, Roger l’aveva scritta pensando a lui, ed ecco che ce lo
ritrovavamo
davanti. Ed è assurdo pensare che nemmeno lo riconoscemmo,
vedendolo, che ci
fermammo tutti a guardare quel vecchio senza sguardo oltre il vetro
dello
studio chiedendoci chi e perché l’avesse fatto
entrare. Aveva preso almeno
trenta chili e si era rasato a zero, non aveva più
né ciglia né sopracciglia,
se le era strappate via, come il Mandrax gli aveva strappato la sua
bellezza:
se pure fosse esistito un modo per buttare via quel tè
avvelenato, insomma,
morì definitivamente in quel momento, quando il Cappellaio
Matto si sedette al nostro
tavolo con la sua teiera. Nel momento esatto in cui Roger lo riconobbe
e
scoppiò a piangere, davanti a tutti. Come un bambino, come se avesse dimenticato
di essere inglese .
Io
non riuscivo nemmeno a
parlare, quasi non respiravo più, non riuscii nemmeno ad
avvicinarmi,
inizialmente. Io ero l’ usurpatore
,
in fondo, io avevo preso il posto che era stato di Syd, componevo per
il
gruppo, addirittura. Eppure avrei voluto davvero piangere
anch’io insieme a
Roger, insieme a Richard e Nick. Invece non ci riuscii, nessuno di noi
ci
riuscì. E non serve essere inglesi per capire che il verme
che ci stava
mangiando era quello della vergogna, perché, raggiunto il
paese dei balocchi,
noi stupidi bambini irriconoscenti avevamo dimenticato il pifferaio che
ci
aveva condotti lì, abbandonandolo a se stesso, a rincorrere
le sue immagini
sfocate.
Il
lato oscuro della nostra luna
aveva mostrato di nuovo il suo volto incatenandoci alle nostre
responsabilità
una volta per tutte. E Roger ne fu devastato.
Non
credo di calunniarlo se dico
che, anche solo inconsciamente, Roger avesse voluto davvero prendere il
posto
di Syd, essere Syd.
O meglio,
diventare quello che lui era stato per i primi anni della band, quelli
che io
avevo vissuto solo per poco, insomma: tutto .
Vanità?
Forse, tutti noi lo
siamo, nessuno è immune da questo peccato. Ma Roger, gli
piaccia o meno, non ha
mai avuto la sfacciata sicurezza con cui un ragazzino di provincia ha
sedotto persino l’androgino
alieno e
riso in faccia alle major
di Londra: Roger adorava raccontare quegli episodi, li ripeteva in
continuazione per chiunque volesse ascoltare. Syd che entra in studio
con un
pellicciotto assurdo e annuncia che per quel giorno sarebbe stato gay e
non
voleva battute; Syd che fissa innocente l’ingegnere del suono
di Abbey Road che
li insulta spazientito dicendo loro che sono dei ragazzini incapaci di
suonare
uno strumento, per poi prendere un pezzetto di carta stagnola e
riprodurre un
suono che – anni dopo – solo un sintetizzatore
avrebbe saputo riproporre. Syd
che rideva come un bambino per le battute più stupide se
aveva deciso che
voleva farti felice.
Roger
però non era così, non era
esuberante, non era sicuro di sé, era un alto-borghese
cresciuto nella bambagia
e nel mito di un padre-eroe morto combattendo nazisti in Italia.
E
nemmeno io ero come Syd, sono
talmente inglese da risultare antipatico persino a me stesso, a volte.
Ma
Roger amava profondamente Syd,
erano cresciuti insieme loro due, nonostante la differenza di
età, per questo
per lui fu più difficile che per me, Richard e Nick.
Per
questo motivo, forse, Roger
dovette inventarsi qualcosa, una cosa qualunque, per dimenticare la
ferita che
aveva – avevamo - inferto alla metà più
sacra della luna.
S’inventò
un ego che non
possedeva, una solitudine cui si relegava da solo, un talento suo e
solo suo,
che non voleva più dividere con noi.
Decise
che lui
sarebbe
stato Mr.
Pink .
È
per quel motivo che abbiamo
finito per non parlarci per più di vent’anni
– ventuno. Tondi.
Nel
1984, Roger Waters decise
senza interpellare nessuno che l’avventura dei Floyds
era conclusa, che il
gruppo era una forza creativa ormai esausta . Se ne andò via e voleva che
tutti
finissimo a fondo, perché lui era
il signor Pink Floyd, senza di lui il
gruppo non poteva esistere.
Noi non
eravamo d’accordo, ovvio.
Avevamo
superato l’allontanamento
di Syd, nemmeno lui era insostituibile: non la mandò
giù, naturalmente, e
cominciò il calvario infinito dei processi e delle
ingiunzioni e delle
frecciatine a distanza.
Io
non ho mai odiato Roger, non
ho mai trovato un motivo valido per farlo neppure quando prese a
trattarci come
suoi operai
. Avrei voluto prenderlo a schiaffi, quello sì, ma non lo
odiavo. Solo che non
si poteva davvero parlarne, perché avrebbe voluto dire
scoprirsi e rivangare quel
passato che non
volevamo ricordare,
perché Syd continuava ad aleggiare alle nostre spalle, era
il fantasma che
infestava le nostre coscienze e di cui non potevamo – o
volevamo? – liberarci.
Quindi
sono passati ventun’anni
prima che Bob Geldolf riuscisse a fregarci e a costringerci a riunirci
su un
palco tutti e quattro insieme. Solo quattro però,
perché non si può andare
ulteriormente indietro a quando eravamo cinque, con un cuore pulsante
nel
mezzo. Anche se, lo ammetto, per un piccolo folle istante
quell’idea mi è
balenata in mente: ma Syd era tornato nelle nostre vite solo per
ricordarci cosa eravamo,
probabilmente, era dal
millenovecentosettantacinque, erano trent’anni che aveva
rotto ogni rapporto
con noi, vietando addirittura a sua sorella di dirci come stava e
dov’era.
Ma
tutto sommato siamo stati
bene, non c’è stato l’imbarazzo che mi
aspettavo o il fastidio. E quando
abbiamo ripreso a suonare sembrava ci fossimo lasciati appena pochi
mesi prima,
le nostre dita, sulle corde e sui tasti e sui cimbali, ricordavano a
memoria il
tempo degli altri.
E
abbiamo suonato ancora una
volta alla faccia scura della luna tutto il nostro amore per quel
diamante
pazzo che avevamo abbandonato solo per ritrovarcelo inesorabilmente
incastonato
in un petto vuoto.
Ma
non suoneremo mai più insieme.
Roger
ha finalmente raggiunto il
suo scopo proprio quando aveva capito di aver fatto una sciocchezza: Pink
è
esausto, è stanco di andare avanti,
non può più andare avanti.
Il
Signor
Pinkè
morto davvero, Syd è morto
davvero e, da fantasma delle nostre coscienze, si è
tramutato in fantasma vero
impedendoci una volta di più di elaborare un lutto che
durava da trentotto anni.
Ora
quella tomba è piena davvero
e, tutto quello che a noi è rimasto, è un
tè scuro in cui intingere il fiele
dei ricordi.
Perché,
noi, volevamo bene a Syd.
End.
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