SENZA
TEMPO
Il ticchettio dell’orologio.
Attendo la sua risposta anche se non ho mai pronunciato la
domanda.
Non mi piacerà, già lo so.
Intreccio le dita ai suoi capelli di seta; boccoli scuri
sulla pelle immacolata.
Il tempo di sperare è finito.
Ha le labbra rosse, come la prima volta che la vidi.
E porta ancora lo stesso profumo.
***
Il ticchettio dell’orologio.
Per tre mesi quel suono aveva scandito, con angosciante
lentezza, ogni secondo passato al fronte. Era un sussurro leggero, costante e
sommesso, ma quella notte mi parve insopportabile.
Mi costrinse ad abbandonare la mia stanza, a fuggire – per
quanto possibile- dal suo scorrere perenne.
Sembrava volermi crudelmente ricordare che il mio tempo era
breve e che la mia licenza lo era ancor meno.
La Confederazione mi aveva concesso il congedo di un mese,
dopo che la scheggia di un’esplosione mi aveva ferito al fianco.
Era consuetudine curare i feriti nell’infermeria del campo,
per poi rispedirli in battaglia dopo pochi giorni, ma il caso aveva voluto che
il mio corpo facesse da scudo ad un altro uomo. Solo dopo mi dissero che si
trattava di un mio superiore.
E così, una circostanza fortuita si trasformò in un glorioso
atto di coraggio.
La notizia di ciò che avevo fatto giunse a Mystic Falls
prima di me, arricchita di una così vasta schiera di dettagli, che io stesso
inizialmente, ebbi difficoltà a capire di cosa stessero parlando i miei
compaesani.
Quando scesi dalla diligenza mi accorsi che mio padre mi
attendeva sulla soglia. Mi venne incontro e mi abbracciò con un affetto che non
mi aveva mai dimostrato.
“Sono orgoglioso di te, figlio mio” disse.
Ipocrita.
Non gl’importava che suo figlio, poco più che ventenne,
avesse le mani grondanti di sangue; aveva a cuore soltanto la gloria e il buon
nome della famiglia. Quando cominciò a perseguitare Katherine, definì quelli
come lei assassini e mostri. Ma io, che avevo ucciso per la
superbia dei nostri ideali, ero il suo orgoglio.
Lo odiavo allora. E anche adesso, con tutti questi anni e la
morte a separarci, sento di non poter provare per lui niente di diverso dal
rancore.
Stefan mi attendeva in ombra, nell’atrio.
Non condivideva l’esultanza di mio padre all’idea che fossi
un eroe di guerra, ma lo rispettava.
È sempre stato un figlio devoto, lui.
Mi osservò intensamente e potrei scommetterci, intuì la
verità. Scovò il rimorso sotto l’apparente baldanza e non pretese che fingessi
di sorridere.
“Sono contento che tu sia a casa” disse, abbracciandomi con
trasporto.
Esaminò la mia divisa sporca di sangue nel punto in cui ero
stato ferito, e suggerì che mi sdraiassi. Mio padre, invece, mi offrì del
whisky e volle brindare alla mia onorevole vita militare.
Il liquore mi bruciò la gola, nonostante fossi abituato a
bere.
Avrei voluto dirgli che non c’era niente di onorevole
in battaglia, che la mia presunta gloria era stata soltanto una casualità, ma
lui se ne andò, tronfio del suo ritrovato orgoglio filiale, e trascinando mio
fratello con sé, disse che quella sera avremmo festeggiato.
Mi lasciò solo, con il gusto amaro in bocca e un bicchiere
vuoto in mano.
***
L’attesa diventa dolce.
Sfioro con le labbra una ciocca dei suoi capelli.
Il tempo scorre lentamente, a volte.
Ma se penso adesso a quella notte, i centoquarantacinque
anni trascorsi, sembrano durati un solo istante.
Mi chiedo se l’eternità sia tutta così: un’enorme falda
oscura il futuro, e un lampo fulmineo il passato.
***
Mi alzai in piena notte, esasperato dalla mancanza di sonno,
scostando da me le coperte madide di sudore. Dopo tre mesi trascorsi all’aperto
non ero più abituato al calore di una casa, né al riposo prolungato e
tranquillo. Era tutto insopportabilmente silenzioso e troppo buio.
Solo una luce sottile filtrava da dietro gli infissi del
salotto, lasciai che la porta si aprisse lentamente e vidi mio fratello seduto
davanti al caminetto, la testa china.
“Stefan” lo chiamai.
Sussultò sorpreso.
“Damon” sussurrò. Colsi il sollievo nella sua voce, immagino
non desiderasse affatto la compagnia di nostro padre.
“Dovresti riposare” aggiunse poi, accennando alla mia
ferita.
Scrollai le spalle e mi sedetti vicino a lui; avevo corso
pericoli decisamente maggiori di quelli causati da una ferita superficiale,
quand’anche si fosse riaperta.
“Non riesci a dormire?” mi domandò.
“Non sono l’unico a quanto pare”.
Realizzai in quel momento che non avevamo ancora avuto
l’occasione per parlare, mio fratello ed io. La serata organizzata da nostro
padre per il mio ritorno, non era stata atro che uno snervante susseguirsi di
convenevoli e ipocrite considerazioni sull’onore e la lealtà.
Valore e merito.
Ero consapevole, malgrado ciò che credeva mio padre, di
valere ben poco, ma non riuscii a convincermi di aver meritato l’orrore del
massacro.
Fissai il fuoco che moriva in languide braci.
“Cosa ti tormenta?” chiesi a mio fratello, senza guardarlo.
“Una donna” rispose lui.
Una donna?
Ripetei quella parola dentro di me, incredulo.
Per Dio. Dopo l’esperienza della guerra, non riuscivo a
immaginare come mio fratello potesse tormentarsi, in piena notte, solo
per una donna.
Avevo conosciuto la morte nella sua forma più terrificante;
i problemi di una vita ‘normale’ mi sembravano capricci.
Tutto era troppo superficiale.
“Non è una donna qualunque” riprese Stefan, quasi a volersi
scusare.
È sempre stato incredibilmente perspicace nel ‘leggere’ le
persone.
“In cosa si distingue dalle altre?” gli chiesi. Non volevo
ferirlo.
Guardò me e poi il camino.
Le fiamme si erano quasi del tutto spente.
“Stefan?”
“Io…”
Si agitò, palesemente a disagio.
Rimasi in silenzio, lasciando che il tempo scorresse; sapevo
cosa significava voler parlare, ma non riuscire a farlo.
L’orologio nell’angolo ticchettava piano.
“Lei…” riprese incerto. “Lei è davvero meravigliosa.”
“Ma?”
“Ma a volte…” esitò ancora. “ A volte percepisco qualcosa di
malsano in lei”.
E nel suo sguardo lessi la vergogna di provare desiderio
verso qualcuno che riteneva ‘corrotto’ e la paura di cedervi.
Si alzò per versarsi da bere, non l’avevo mai visto farlo.
Malsane, corrotte, pericolose.
Avevo conosciuto molte persone, negli ultimi tre mesi, che
corrispondevano a questa descrizione, ma stentavo a credere che potessero
esistere anche in fattezze femminili.
Mi alzai avvicinandomi a lui, ed ebbi appena il tempo di
chiedergli chi fosse questa donna, che lei comparve sulla soglia.
Era lei, non ebbi mai alcun dubbio in proposito.
“Katherine…”
bisbigliò Stefan.
Sentii la tensione nella sua voce, ma non riuscii a
distogliere lo sguardo da lei.
Era bella.
Portava i capelli sciolti sulla vestaglia adorna di pizzi.
Boccoli nero lucente a carezzare il bianco immacolato.
Non parlai. Il suono della pendola di mio padre scandiva i
secondi, era ipnotica.
… E lo era anche lei.
Aveva i piedi nudi e le labbra rosse.
“Vi presento mio fratello Damon, Katherine” sentii dire
Stefan. “E’ tornato oggi stesso, in licenza dal fronte”.
“Perdonatemi, Signor Salvatore” si scusò, accennando a
lasciare la stanza. “Non intendevo essere invadente”.
“Al contrario” dichiarai per fermarla. “È un piacere fare la
vostra conoscenza”.
Lei sorrise e mi porse la mano, la guardai negli occhi
mentre mi portavo le sue dita alle labbra.
Mi deliziò con un grazioso inchino, quasi fosse vestita di
seta, e non scalza e in veste da camera.
“Un vero eroe di guerra, a quanto si dice” esordì poi con
tono da salotto. “E avete ucciso molti nemici?”
Sentii Stefan trattenere il fiato alle mie spalle.
Aveva colto nel segno e lo sapevamo entrambi.
Katherine si dimostrò da subito una donna d’eccezionale
intuito.
“La verità è molto diversa, Signorina” sussurrai abbassando
lo sguardo.
Mi osservò inclinando la testa, quasi volesse studiarmi.
“Non amate la guerra, non è così?”
“Nessuno dovrebbe amarla” intervenne mio fratello. “Nessuno
dovrebbe gioire dell’uccisione di un’altra persona, qualunque sia il colore
della sua divisa.”
Ho sempre stimato l’irreprensibile rispetto di Stefan verso
la vita, la sua compassione, il suo amore verso il prossimo.
Principi che condividevo, anche se con meno slancio.
Ma quella notte compresi che lui non sapeva.
Non capiva quanto pressante fosse per me l’autorità di
nostro padre, credeva, nonostante tutto, che mi fossi arruolato
volontariamente.
“Allora ditemi, Stefan” riprese lei. “Come giudicate chi
toglie la vita perché non ha altra scelta?”
Sgranai gli occhi. Fu troppo improvvisa per potermi
controllare e troppo diretta.
< Sì, Stefan > avrei voluto dire al mio virtuoso
fratello. < Cos’avresti fatto se nostro padre avesse costretto te ad andare
al fronte al posto mio >.
“Se le uniche due possibilità fossero uccidere o morire”
insistette lei “e non vi fosse speranza di fuga, cosa fareste?”
“Cercherei un’alternativa, Katherine” rispose lui. “C’è
sempre un’alternativa”.
Un’alternativa.
Certo.
Sorrisi sarcasticamente.
Sarei potuto diventare un disertore e perdere onore e
rispettabilità, condurre una vita da fuggiasco.
Ma lei mi sorprese di nuovo.
“L’alternativa implica sempre un compromesso, Stefan” disse,
e avvicinandosi a mio fratello sfilò il bicchiere dalle sue mani. “Si rinuncia
a qualcosa per avere altro in cambio”.
E sorridendo appena si portò il cristallo alle labbra.
Quando tornai a letto, quella notte, non pensai ai miei
incubi o al tempo che scorreva inesorabile. Pensai a lei.
Solo a lei.
E così ho fatto negli ultimi centoquarantacinque anni.
Continuo a pensare a come facilmente mi comprese, già allora
sapeva fino a che punto eravamo simili.
L’amai perdutamente.
E sento che potrei amarla ancora, nonostante tutto.
***
Il ticchettio del mio vecchio orologio da taschino mi tiene
compagnia, mentre attendo una risposta che conosco già.
È sul tavolo, vicino a noi.
Continua ancor oggi a scandire i secondi, ma per me non
significa più niente. Un oggetto come un altro.
Lo scorrere del tempo è un’inezia per quelli della mia
razza.
Lo conservo perché, come me, è figlio di un’altra epoca.
… E perché ancora non si è fermato.
FINE: