Dall'altra
Parte
Si
guarda intorno sospettosamente e poi esce allo scoperto...
Pensavate
di esservi liberate di me, non è così?!
E
invece no, sono ancora qui, ma la concomitanza di una serie
inimmaginabile di novità e catastrofi e anche catastrofiche
novità ha rischiato di spazzarmi via... la ciliegina sulla
torta è stato il trojan (il virus) che mi ha fatto
“bubusettete” un giorno in cui riaccendevo il pc dopo
settimane di astinenza da questo...
Volevo
anche scusarmi con Bellis e con Nonnapapera, ma anche con tutti gli
altri per tutto quanto riguarda il contest su Sherlock Holmes ed i
Beatles, del quale saranno presto annunciati tutti i dati necessari
nell'apposita discussione...
Spero
davvero che possiate perdonarmi, ma tutto quello che è
successo non è davvero dipeso dalla mia volontà, anche
perchè se così fosse sarebbe molto preoccupante...
Pregando
che possiate aver pietà dell'anima mia vi lascio al quinto
capitolo di “Dall'altra parte”...
Ma
prima un enomre grazie ad
-Alchimista:
Ah! Sono di nuovo rimasta indietro con gli aggiornamenti, ma ancora
peggio, mi sono persa i tuoi di aggiornamenti e quelli di Anne
London! Ma adesso è giunto il momento di rimettersi in pari,
quindi volo a leggere il contenuto del messaggio cifrato!
-Anne
London: Ce l'avrà fatta la piccola
Christine a tornare nel suo tempo o avrà scelto di rimanere al
221/b di Beker street per mettere al mondo la prole di Holmes? Sarà
sbocciato l'amore con l'algido investigatore oppure dobbiamo segnare
un altro punto a favore di Watson, che ha già fatto strage di
mille e mille cuori? Non lo so, ed è questo il problema,
schizzo a leggere tutto quello che è successo o morirò
di curiosità!
Grazie
anche a Bellis e a Sihaya10!
E
ora, a tutti voi, buona lettura!
Capitolo
V – Vecchi demoni, vecchie ferite
Dalle memorie del dottor John H.
Watson
Mi bloccai sull'uscio immobile, le mie
iridi si dilatarono per l'incredulità, mentre un senso di gelo
si diffondeva veloce tra tra le mie carni, correndo sottopelle come
un agghiacciante e tacito brivido, scivolando pian piano sino alle
ossa, intorpidendo i muscoli, desensibilizzando i nervi, sfiorando,
come in un'atroce carezza i più esili tra i capillari.
“John, cosa diavolo fai lì
impalato, cosa aspetti, vieni a darci una mano, avanti!” mi
urlò allora Silvio, ma ad onor del vero, devo ammettere che
quasi non lo udì neanche e la sua voce mi arrivò
lontana come una eco sbiadita, trascorso troppo tempo a rotolare da
una roccia all'altra, da un cielo all'altro.
“John, santo cielo, ti ha dato di
volta il cervello? Vieni qui, aiutaci, questo uomo sta per...”
altre parole al vento, altre parole che in seno loro portavano una
grave svista perchè quell'uomo non stava per
quell'uomo, ormai, aveva già compiuto l'ultimo fatale passo
verso il baratro, spinto da una mano sconosciuta quanto ignobile.
Ormai non c'è più
nulla...
Quante volte nella
veglia e nel sonno, che gli occhi miei fossero aperti o chiusi,
quell'incubo mi aveva assalito con le sue immagini raccapriccianti,
con i suoi osceni particolari?
Quante,
quante volte nella mia fantasia avevo visto quell'espressione folle
deformargli il volto dagli occhi
spalancati, rivolti all'indietro,alle nere case di Ade, immemori del
sole e della sua luce e le labbra contratte, ricoperte di schiuma, a
guisa delle fauci di un cane rabbioso?
Quante volte Holmes
era moto a quel modo, portato via dalla sua cocaina, strappato alla
vita da una siringa, tra le braccia delle mie paure più
grandi?
… Da fare.
“Smettetela...”mormorai
appena, mentre lo stomaco, chiuso all'inverosimile, mi si contorceva
doloroso come una serpe in seno “E' morto.”
Pensavo di aver
visto tutto, ma quando la mia attenzione si posò su
quell'indizio, lasciato lì in bella posta solo ed
esclusivamente per me, fu allora che provai una tra le sensazioni più
sgradevoli e disgustose della mia intera esistenza e dovetti rimanere
esangue in volto, mentre le rapide stille dei sudori freddi mi
attraversavano le tempie tremanti, perchè sia Henry che
Silvio, una volta lasciato perdere, come avevo detto loro di fare, il
vecchio bibliotecario e voltatesi nella mia direzione mi si
avvicinarono piano, tendendomi entrambi una mano, sconcertati per
quella mia tanto tacita, quanto incomprensibile reazione.
“Hey, John...
hey, amico mio, ti senti bene?” mi domandò il rosso,
scambiando un'occhiata preoccupata con il moro che tacque,
fermandomisi silenziosamente accanto.
“Quella...”
balbettai a stento, deglutendo a vuoto ed indicandogliela con un
debole cenno del capo “Quella era la siringa di Holmes... la
siringa della cocaina...”
“Aspetta,
'ome puoi esserne 'osì sihuro?” intervenne l'italiano
insinuando un dubbio che per quanto lecito fosse non aveva la benchè
minima ragione di esistere “Ci sono tanti tipi di siringhe, e
per quanto alcune possano essere simili a 'odeststa ve ne sono anche
alcun'altre di molto diverse, può darsi 'he tu sia in errore,
può dar si 'he...”
E mi sarebbe
piaciuto potergli dare ragione, ma quella volta non potei... quella
volta non potei proprio.
“Quell'astuccio
di marocchino...” cercai di spiegargli, ma le parole di colpo
mi morirono in gola, quando d'un tratto, superato lo sbigottimento di
quell'attimo d'assoluta incredulità il circuito di quel caso
nel caso si chiuse, almeno in parte, e realizzai che la cosa era più
grave di quanto, fino ad allora, non avessi voluto ammettere.
“Henry, per
l'amor di Dio, svelto, prendi quella la siringa, riponila
immediatamente in quell'astuccetto di marocchino e dammelo: dobbiamo
correre a Baker Street, non abbiamo un secondo da perdere!” e
detto questo tirai il lenzuolo che l'avvolgeva sin oltre il volto del
vecchio bibliotecario e mi precipitai, con in mano l'arma del
delitto, nei corridoi, ancor per poco deserti, del Saint George,
seguito dai miei due fedeli soci.
Non so per quanto
tempo corsi prima di riuscire a fermare, quasi buttandomici sotto,
una carrozza di piazza, facendo venire un mezzo infarto al povero
vetturino di turno, già sufficientemente provato dalla
stanchezza per la gelida notte passata insonne, ma ricordo che quando
riuscì, con un balzo di quelli felini che mi sarebbe costato
dolori atroci alla schiena per giorni e giorni, a metterci piede
avevo i polmoni in fiamme ed il cuore che minacciava di schiantarmi
nel petto, mentre a fatica reprimevo i conati che mi stavano
contorcendo le viscere.
“Holmes l'avrebbe prevista una
cosa del genere...” mormorò
d'un tratto una vocetta nella mia testa strappandomi un sussulto che
pur essendo andato a confondersi con la confusione provocata dal
vorticare delle ruote della nostra vettura, non sfuggì agli
occhi vigili degli amici.
“Vedrai,
staranno bene...” cercò di tranquillizzarmi Henry con
una bonaria pacca sulla spalla, così come Silvio, ma dai loro
sguardi adombrati, dai loro sorrisi forzati senza la benchè
minima esitazione si deducevano le loro paure, i loro dubbi a
proposito.
La carrozza d'un
tratto prese a rallentare e prima ancora che potesse fermarsi del
tutto ne ero già fuori, completamente incurante del fatto che
avessi lasciato ai miei due colleghi l'onere di pagare il povero
vetturino.
Come
avevo immaginato trovai l'uscio aperto e non appena varcai la soglia
del salotto la disperazione più nera mi travolse lasciandomi
quasi senza fiato: tutti i mobili erano stati scaraventati da una
parte e dall'altra, i cassetti aperti, frugati, svuotati a terra di
tutto il loro contenuto, le piccole vetrine tanto amorosamente
spolverate dalla padrona di casa ridotte in mille pezzi
e neppure la pendola aveva trovato scampo dall'indicibile violenza
che s'era scatenata tra quelle quattro mura.
“Signora
Hudson!” urlai volgendomi freneticamente da una stanza
all'altra senza una mèta ben precisa, quando d'un tratto, per
poco, non mi ritrovai faccia a terra.
“Sta attento
John, non muoverti!” mi ordinò d'un tratto Silvio ed io
mi bloccai e guardando sotto, o forse sarebbe meglio dire accanto, ai
miei piedi scorsi con orrore l'esile profilo di una caviglia: tutto
il resto di quelle membra giaceva inerte sepolto sotto un'indicibile
orda di fogli e scartoffie un tempo proprietà dell'ormai
defunto detective, con il quale avevo condiviso i migliori anni della
mia vita.
“Mi occupo io
di Eleanor!” scattò immediatamente il Roccaverde,
disotterandola da quello scartafaccio, portandole subito indice e
medio alla giugulare costatando senz'ombra di dubbio, il suo orecchio
al petto di lei, che era ancora viva “Ci penso io a lei, ma tu,
per l'amor del cielo, ritrova la piccola Roxanne, perché giuro
che se dovessero averla catturata... se dovessero essersi rifatti su
quella creatura innocente io li ammazzer...”
“Trovata la
signora Hudson!” esclamò Henry di punto in bianco dalla
cucina interrompendo il ringhiare tutt'altro che minaccioso, quanto
più profetico, dell'italiano “Tranquilli, stava giocando
a fare la bella addormentata, ma non credo che s'io fossi anche tanto
ardito e sfacciato da baciarla potrei in qualche modo smorzare gli
effetti del cloroformio...” e con fatica lo vidi comparire
sull'uscio della stanza con la donna sottobraccio, quindi scattai in
piedi anch'io e mi diressi verso le scale.
Con i polmoni in
fiamme e la gola secca scalai i gradini due a due, un po' aggrappato
al muro un po' alla ringhiera, ritrovandovi innanzi lo stesso
identico caos che mi ero lasciato alle spalle.
Presi ad aprire
porte e a guardare sotto i letti; a frugare tra le cianfrusaglie ed i
ricordi arrabattati di qua e di là; rivoltai a terra quel poco
che i nostri tanto sgraditi quanto sconosciuti ospiti avevano
lasciato all'interno di mobili e cassapanche; mi immersi nell'immane
mescolanza di abiti, libri, fogliacci, cocci e chi più ne ha
più ne metta che aveva inondato il pavimento per uscirne a
mani vuote, sconfitto nell'animo e nel corpo, scosso da una frenesia
nervosa che parve congelarsi solo allorquando mi ritrovai immobile
davanti alla porta della sua camera...
La camera di
Holmes.
La mano tesa, quasi
incartapecorita, sciolto quell'atroce sentimento, si accasciò
tremante sulla maniglia e la stanza in cui da tempo non aveva più
neanche osato mettere piede mi si dischiuse innanzi.
Lei non c'era.
“Holmes
avrebbe previsto tutto questo!” tornò allora la voce
nella mia testa a farsi viva per torturarmi. Come un tarlo nel
cervello la consapevolezza della mia schiacciante inferiorità
rispetto a quello che era stato il mio coinquilino mi consumava
corrodendo tutte le mie forze e le mie convinzioni, mostrandomi la
mia più che lecita sete di verità come la sciocca
ostinazione di un folle e tutti i miei tentativi di miglioramento, in
qualsiasi campo essi vertessero, come il peregrinare frenetico ed
insensato di un ratto cieco.
Lui non avrebbe
permesso a chicchessia di far loro del male, anche solo di torcere
loro un capello... Lui li avrebbe protetti... avrebbe portato qui il
vecchio bibliotecario, l'avrebbe sistemato in una stanza ed avrebbe
lasciato qui qualcuno di abbastanza forte ed abbastanza fidato da
poter proteggere mentre lui scompariva per seguire, come fanno tutti
i buoni segugi, la pista o forse no, forse gli sarebbe bastato
starsene mezz'ora seduto sulla sua poltrona preferita, in perfetto
silenzio, i polpastrelli delle dita giunti e la pipa di gesso fumante
come una ciminiera tra le labbra, per poter giungere ad una
conclusione più che ovvia che, come le più semplici e
basilari delle cose, io non avrei mai concepito, neppure
lontanamente.
Discesi gli scalini
lentamente, uno per uno, la destra stretta al corrimano come se da un
momento all'altro le mie ginocchia avessero dovuto abbandonarmi e
sciogliersi come quelle degli antichi eroi greci, cosa che fu
provvidenziale, allorquando la mia vecchia ferita, che già
s'era fatta sentire strappandomi più di qualche tacita
imprecazione, mi costrinse ad accosciarmi lì, contro la
balaustra, seduto, agonizzante come poche volte in vita mia lo ero
stato e non solo per quel liquido scarlatto che quasi con disgusto,
nonostante io fossi un medico, vidi affiorare dalla stoffa dei miei
pantaloni.
Miliardi di
pensieri mi affollavano il capo, alcuni erano come sussurri, altri
come grida, taluni avevano il tono della derisione, tal altri
suonavano più sinceramente disgustati del mio fallimento e in
tutta quell'enorme confusione, il cui sottofondo era quel bel
dilaniarsi delle carni del mio polpaccio io di una sola, terrificante
cosa avevo l'inconfutabile certezza: chiunque fosse entrato nel 221/b
di Baker Street ora aveva tra le proprie, viscide, e, vogliate
passarmi il francesismo, schifose mani, la piccola Roxanne.
Costui l'avrebbe
utilizzata per i suoi sporchi comodi e la causa di tutto ciò
altro non era stata che la mia stupida ostinazione nel voler
inseguire vecchi demoni ormai morti e sepolti quando già di
nuovi ormai mi davano bella mostra del loro profilo ferrigno nella
tenue dolce luce dell' incoscienza.
Già in essa
avevo preso a scivolare quando dallo studio una voce conosciuta,
incrinata dal pianto e dallo sgomento, una voce di donna, una voce di
madre, si levò gridando il nome della propria prole e fu in
quell'attimo che desiderai più d'ogni altra cosa d'esser
morto, raccolto tremante tra le ombre chiare sulla bagnarola di
Caronte, scelto il mio castigo dalla coda del giudice di tutti i
giudici.
Che cosa le avrei detto?
Come le avrei spiegato?
Con quali parole avrei potuto
mai...?
“Tana pe' i'
dotto' Watton!”
Furono queste le
testuali parole che, pronunciate con tono allegro dalla sua vocetta
argentina ed esuberante, dettero il colpo di grazia ai miei poveri
nervi scossi, tanto che mi ritrovai a sobbalzare spingendomi
addietro, salendo almeno un paio di scalini da seduto e
piantandomene, con sommo dolore, uno nel bel mezzo della schiena.
Innanzi ai miei
occhi, più che mai sgranati, la sua figurina vivace e
sorridente tentennava leggermente, un po' per la più che
acerba età, un po' per la candida camicetta da notte di lana
piuttosto pesante, a causa del freddo che certe volte neppure le
fiamme del camino riuscivano a debellare, ed ingombrante che ne
minava non poco il già precario equilibrio.
“Mi lasci!”
strillò Eleanor e la vidi comparire nel corridoio, mentre
cercava di divincolarsi dalla presa in cui l'aveva bloccata
l'italiano, avendo ritenuto questi, da buon medico, che la donna
fosse ancora troppo debole per potersi alzare e per poter camminare
“Mi lasci!” urlò ancora lei e come la disperazione
spinge a fare molti passò dalle parole ai fatti, lasciando sul
volto del Roccaverde i segni delle proprie unghie, facendogli così
male da costringerlo a liberarla.
La madre, in
lacrime, corse dalla bambina stringendosela forte al seno e, quasi,
raggomitolandosi attorno ad essa proprio là, nel bel mezzo del
corridoio, incurante della nostra presenza, dei nostri sguardi,
perchè nulla per lei, neppure la sua stessa vita, neppure il
suo stesso onore, sarebbe valso più di chi stringeva tra le
sue braccia.
Con passo cauto, il
più cauto di tutti fu indubbiamente quello di Silvio, i miei
due colleghi mi si fecero incontro ed una serie di muti sguardi
sconvolti fu l'unica cosa che riuscimmo a scambiarci per un qualche
non ben definito istante, ma alla fine Henry trovò il
coraggio, o forse la forza, viste le condizioni in cui tutti
versavamo, di spezzare quell'angosciante silenzio.
“La bambina
sta bene?” mi domandò Henry più per scrupolo che
per altro, avendo potuto benissimo vedere da sé che
l'adorabile creaturina, senza neanche l'ombra di mezzo graffio
addosso, si faceva coccolare dalla mamma, allegra perchè
inconsapevole come solo possono esserlo gli stolti ed i bambini,
della gravità di ciò che era accaduto, di quanto,
effettivamente, avesse rischiato.
Provai a
rispondergli, ma d'un tratto, come se fossi uscito dal mio corpo,
come se in un qualche strano modo per quegli interminabili attimi
avessi perso il contatto con esso e mi fossi ritrovato solo in quel
preciso istante a rientrarvi a guisa di uno sconosciuto, ecco che
solo allora mi accorsi di essere rimasto senza fiato, senza voce,
quasi senza più né sangue, né lacrime, asciutto
di ogni mia forza e d'ogni mia volontà.
Mi limitai ad
annuire.
“E tu stai
bene?” ecco un'altra domanda difficile: anche a quella avrei
voluto far segno di sì, ma ponderai che forse sarebbe stato
meglio dire le cose come stavano e come a tutti i lì presenti
erano più che palesi, quindi scossi il capo ed i miei occhi
sgranati vagarono sofferenti dall'uno all'altro dei miei amici,
soffermandosi sulla faccia stravolta del rosso e sulla guancia
destra, insanguinata di Silvio.
“Dobbiamo
darci una calmata.” asserì secco quest'ultimo, il volto
funereo, la sopracciglia destra che tremava incontrollabilmente,
l'orgoglio ribollente d'italiano, che a torto, nella confusione
dell'attimo, dedussi lacerato “Henry, metti su il tè e
apri quella bottiglia di brandy di cui, per l'appunto, ci stava
parlando John qualche ora fa.” ordinò al rosso come
fosse a casa sua, prendendo in mano una situazione che io non avrei
saputo da che parte cominciare a rimettere in sesto “credo che
ne avremo un gran bisogno, io intanto prendo la morfina e do una
ricucita a questo gentile paziente prima che mi muoia dissanguato
sulle scale...”
Il consiglio
dell'italiano fu forse il più saggio della serata ed era ormai
giorno pieno quando ci ritrovammo tutti faccia a faccia, tutti più
o meno tranquillizzati e o rammendati, tutti desiderosi di saperne di
più su cosa fosse accaduto.
“La piccola
Roxanne non voleva proprio saperne di dormire...” cominciò
la signora Hudson torcendosi le mani in grembo e prendendo a
rabbuiarsi ad ogni parola che pronunciava “Avendo riposato
tutto il pomeriggio non voleva saperne di prender sonno e dato che
questa giornata non aveva provato, almeno fino a quel momento,
s'intenda, neanche noi due decidemmo di impegnare in qualche modo il
nostro tempo, così, anche con l'intento di stancare la piccola
per poterla mettere sotto le coperte ci siamo messe a fare dei
biscotti tutte assieme... Roxanne sembrava ormai sul punto di
crollare quando, una volta infornati i biscotti, si è ripresa
miracolosamente e a cominciato a dire che voleva giocare a
nascondino! Per quanto Eleanor abbia cercato di farla ragionare, di
negarle quel piccolo, alla fine ingenuo, svago, vista l'ora tarda che
s'era ormai fatta, ditemi voi come si può dire di no ad una
faccetta come quella... Io non ci riesco proprio a dirle di no,
sapete? Eleanor dice che gliela vizio, ma io le rispondo sempre che
questo è il compito di tutte le nonne che si rispettino e
perciò...”
“Aspetti,
signora Hudson, aspetti un attimo...” fui costretto ad
interromperla allora “Non è che trovi noioso o inutile
quello che ci sta dicendo, ma non è che potremmo, come dire...
non è che potremmo tornare al discorso originario?”
“Oh? Oh,
accidenti a me, vogliate perdonarmi, ma sono ancora così
confusa, così sconvolta! Dov'ero arrivata, dunque? Ah, sì,
a quando io ed Eleanor, una volta sfornati i biscotti, ci siamo messe
a giocare a nascondino con la piccola... da qui in poi poco rimane da
raccontare, dato che mentre cercavo quella peste ho sentito solo una
mano premermi sulla faccia ed un odore nauseabondo e poi... poi più
niente... non ho neanche avuto il tempo di realizzare che cosa stesse
accadendo...”
“Q...
quindi...” balbettai incredulo e più che grato alla
benevolenza della sorte “Roxanne si era nascosta nel sottoscala
ed è stato solo per questo che i farabutti che sono entrati
questa notte non l'hanno presa...”
“Ma avrebbero
potuto benissimo prendere in ostaggio la signorina Eleanor!”
sbottò d'un tratto Silvio, allontanando immediatamente il
proprio sguardo da quello della donna e parlando, con cipiglio
sospetto, come se lei non fosse lì con noi, nella stessa
stanza, in braccio la bambina finalmente addormentatasi.
“E' vero...
Avrebbero potuto prendere lei, ma non l''hanno fatto...” ci
tenne a sottolineare l'ovvio Henry “Che senso ha? Nessuno mette
su una cosa del genere per poi fermarsi a metà dell'opera...”
“Forse
qualcosa li avrà interrotti...” lo precedetti io in
quella rapida , quanto azzardata deduzione “Forse qualcuno o
qualcosa li avrà risolti a darsela a gambe... qualcosa o
qualcuno che non avevano previsto...”
“Una domanda
veramente senza risposta è tuttavia un'altra...” esalò
la signora Hudson immergendo uno dei famosi biscotti nella sua tazza
di tè “Perché anche sforzandomi di capire,
davvero non mi riesce di comprendere che cosa stessero cercando quei
manigoldi... nulla o poco più di nulla vi è in questo
posto di valore e quindi...”
“La ringrazio
signora Hudson, il suo resoconto è stato più che
esaustivo...” asserì sbrigativo troncando di netto il
suo ragionamento e senza volgermi verso pregai le signore di andare,
vista la nottata passata a riposarsi un poco, giacchè alla
loro colazione e alla nostra avremmo pensato noi.
Fu difficile
persuadere la padrona di casa ad abbandonare i suoi doveri,
specialmente con tutto il disordine che i nostri sconosciuti
visitatori avevano sparso per tutto l'appartamento, ma le parole di
Henry riuscirono infine a dissuaderla, cosicché rimanemmo
finalmente soli.
Il rosso mi fissava
con curiosità, mentre l'italiano, pallido in volto come un
morto, con la mascella contratta e la guancia destra ancora rigata di
sangue, si volse a guardarmi invece solo in un secondo momento, solo
dopo che dal suo punto di vista furono scomparse le due signore del
221/b di Baker Street.
“Dove l'avevi
nascosta?” mi chiese infine quest'ultimo ed io mi volsi al mio
vecchio e fido bastone.
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