Tired to sickness
Damon
non ricorda quand’è stata l’ultima volta
che ha pianto di fronte a qualcuno. Le rare volte in cui le lacrime
hanno minacciato di sfuggire al suo controllo ferreo, si
è
sempre premurato di essere solo, lontano da occhi e orecchie indiscrete.
Ora
ha ceduto, e davanti ad Elena non riesce a trattenere
quell’unica dolorosa scia di acqua e sale, e una parte
infinitesimale di lui quasi ringrazia di doverle cancellare quel
ricordo. Perché, se anche fosse in grado di sopportare
quello che ha confessato ad Elena, di certo non potrebbe reggere
all’idea di aver pianto di fronte a lei.
Damon
Salvatore ha ancora un orgoglio, e anche piuttosto battagliero,
nonostante Katherine ci abbia giocato volentieri, e più e
più volte l’abbia calpestato come uno straccio
consunto.
Accarezza
la guancia di Elena prima di allacciarle la collana ed
andarsene. Non se la sente di tornare a casa, a guardare in faccia
Stefan che è tanto buono e perfetto proprio ora che ha
fatto una delle cose più stupide, dolorose ed egoiste della
sua vita.
“Non
volevo essere solo” gli ha detto. Anche in quel momento,
Damon ha desiderato voltarsi e abbracciare Stefan, dirgli che lo
perdonava e che andava bene così – al
diavolo
che quella non fosse la
verità – che erano di nuovo insieme,
nessuna donna a dividerli, semmai ad unirli. Invece ha preferito
fingere di non essere interessato alle scuse di suo fratello, si
è
concentrato su un solo pensiero: grazie,
fratellino. Per non essere solo tu, hai reso eternamente solo me.
Non
ha Katherine – non l’ha mai avuta – non
può avere Elena. È arrivato al punto di non avere
più nemmeno se stesso, troppo cambiato dalle persone e dagli
eventi per ricordare ancora quale sia il vero Damon e quale la sua
maschera.
No,
non se la sente davvero di tornare a casa.
Vaga
per ore, con una lenta e pigra camminata umana, senza badare alle
strade. Finisce prima nel centro di Mystic Falls, però gli
schiamazzi
provenienti dal bar lo infastidiscono, quindi si allontana fino alla
periferia opposta alla casa di Elena, ma bastano le luci accese nelle
case per innervosirlo.
Case, famiglie.
I passi lo portano al bosco. Alle rovine della vecchia tenuta dei
Lockwood. Alla piccola voragine che sgorga nella cripta.
Non
si chiede quale istinto altamente masochista ed imbecille lo abbia
condotto fin là: Damon non crede nel subconscio e in tutte
quelle affascinanti teorie contorte, sebbene ami servirsene per
provocare chi ha la faccia tosta di stargli intorno. Non pensa di
scendere nella cripta a martoriarsi ulteriormente, e tenta di tirare
dritto ed ignorare la vecchia cappella e chi vi è chiuso
dentro.
Alza
il piede per fare il primo passo, quando sente il rumore di un respiro,
e il piede torna a terra senza che Damon si sia mosso.
È
un respiro che conosce bene, che ha ascoltato per tante notti e che per
ancor più anni ha sperato di risentire.
Resta
fermo per qualche secondo, paralizzato, poi quella parte
masochista ed imbecille di cui lui nega fermamente
l’esistenza ottiene la vittoria, e lo convince a
scendere con un balzo leggero nella cripta, a calpestare le foglie
secche, mentre il respiro che l’ha incatenato si blocca.
Damon
si avvicina alla stele di roccia levigata e vi poggia sopra la mano. I
solchi del pentacolo inciso sulla nuda pietra sono come burroni
profondi sotto il suo palmo.
Dall’altra
parte c’è uno spostamento: oltre il macigno
qualcuno ha fatto un passo indietro.
Senza
rendersene conto Damon si lascia sfuggire un sussurro.
«Hai
paura, Katherine?»
È
più un respiro articolato che una vera frase, e
c’è un attimo di silenzio che gli riempie le
orecchie. Poi dalla sua prigione Katerina – che in quel
momento non è più la sfrontata Pierce, ma la
Petrova stanca e atterrita – si fida ad aprir bocca.
«Damon?»
Il
maggiore dei Salvatore ha un lieve sobbalzo e si irrigidisce. Non si
aspettava una risposta, non era nemmeno sicuro di aver parlato.
Perché diamine
era lì?
Damon
sorride amaramente e ribatte sarcasticamente «Ti prego,
saltiamo il pezzo in cui dici di aver sperato che fossi
Stefan.»
«Non
sono così stupida.» è la risposta
tagliente.
Damon
continua a sussurrare impercettibilmente, solo Katherine può
sentirlo. Lei parla con voce chiara e distinta, eppure Damon vi avverte
l’incertezza nascosta, l’amaro sapore della
disperazione che lui conosce così bene.
«Il
caro fratellino è troppo impegnato con la
doppelgänger in jeans, suppongo.»
Damon
non la vede, ma dai lievi rumori immagina abbia appena fatto quella sua
smorfia supponente, solo non con la luce dispettosa di una volta.
Katherine ha fatto patire loro le pene dell’inferno, ma ha
ancora il coraggio di sentirsi tradita e abbandonata. Però
non lo ammetterà mai.
È
anche per quel suo orgoglio sconfinato che l’ha tanto amata.
«Già,
la storia del doppelgänger… anche quella volta ne
hai fatta una delle tue, vero?»
«Solo
un po’.»
Katherine
non gli domanda cosa sappia della faccenda. Non le interessa. Non le
interessa più nulla. È così forte e
graffiante la sua anima in quel momento, il desiderio di essere libera,
il bisogno
di andarsene immediatamente. Tutto le fa così
male che ha
deciso di illudersi di non provare nulla.
Damon
lo sa, ma Katherine è ancora convinta che lui non la
capisca, che solo Stefan potrebbe. Damon sa anche questo, ma questa
sera è troppo stanco per indagare sui perché e i
per come della cosa. Di rifiuti ne ha avuti abbastanza, e non si
è mai sentito così svuotato in vita sua, nemmeno
quando ha scoperto che lei non era lì, lì dove
è ora. Per mano sua.
«Quindi?
Sei venuto a godere della mia situazione? Vuoi ridere
della sgualdrina che ha avuto quello che
merita?»
Damon
appoggia la fronte alla stele di pietra e per un attimo sogghigna.
«In
effetti potrebbe essere divertente. Ma quello è il genere di
cose che solo tu sai fare al meglio, cara.»
Katherine
stringe i pugni e morde le labbra.
Ad occhi chiusi e concentrandosi
solo sul bisogno di restare sveglio, è ancora più
facile immaginarla: il vestito è sporco di terra, i capelli
scompigliati e le labbra truccate di rosso si sono screpolate per colpa
dell’aria secca e fredda. Non ha ancora cominciato a
deperire, del resto è passato solo un giorno, ci vorranno
almeno due settimane prima che le guance inizino a scavarsi. Sono i
suoi occhi che lo attirano: spenti e sconfitti, eppure
talvolta
brillano ancora in lampi tanto di follia quanto di lucidità.
Al momento sono stanchi, come i suoi.
Non
credeva fosse possibile, ma Katherine sembra essersi già
arresa. Lei che ha sempre avuto mille risorse, pare aver perso le
speranze tutte in una volta, precisamente quando lui ha posto quella
pietra tra lei, le sue grida, ed il resto del mondo. Il colpo di
grazia. Il fratello che
l’amava troppo.
Il
fratello che non sa bene cosa gli stia succedendo dentro, e
perché sia ancora lì.
«Damon,
ti prego.»
Supplica?
No, Katherine, arrivi troppo tardi. Neanche lui è
così sciocco da darti fiducia per l’ennesima volta.
«Ti
prego, fammi uscire. Potremo ricominciare tutto dall’inizio.
Ricordi quello che mi dicesti quella sera?»
«Non
sei davvero capace di essere sincera?» le domanda lui
infastidito.
Stacca la fronte dalla stele e si sente morire dentro
quando si accorge che l’ultimo tentativo di menzogna di
Katherine non gli ha fatto male, non gli ha causato la solita pugnalata
lancinante al petto. Vorrebbe esserne contento, e poter pensare che
ormai lei non conti veramente più nulla per lui, ma la
verità è che il suo cuore è stato
calpestato così tante volte – da lei, da suo
padre, da Elena, da Stefan, da lui stesso – che ci ha fatto
l’abitudine. Non era propriamente questo lo scudo con cui
sperava di proteggersi.
Sta
per uscire dalla cripta con la testa china tra le spalle, quando
Katherine al suono dei suoi passi lo richiama concitata.
«No,
Damon!»
«Cosa
succede? Non credere che ti farò uscire di qui
perché non solo non so come farlo, ma nemmeno lo voglio
sapere!»
Katherine
non risponde.
«Allora?
Cosa vuoi ancora da me? Cosa?»
Damon
ha smesso di sussurrare da un po’ ormai, perché
quel richiamo ha svegliato la rabbia che si era assopita da un giorno
appena.
«Vuoi
che mi renda ancora ridicolo spiegandoti che per più di un
secolo ho pensato solo a te? Che ti ricordi che ti ho amata al punto da
odiare mio fratello perché avevi scelto anche lui? O
preferisci ti illustri le stronzate che ho inanellato pur
di riuscire a dimenticare il male che mi hai fatto? Oh no, aspetta, ho
capito: vuoi che vada a chiamarti Stefan perché tanto è sempre stato Stefan!»
Non
si accorge di aver cominciato ad urlare, ma un nodo gli strozza la gola
quando grida il nome di suo fratello, e la parola esce dalla sua bocca
come un singhiozzo, un sobbalzo del diaframma.
Vorrebbe
smettere di vedere Katherine e dimenticare questi ultimi minuti, eppure
per l’ennesima volta riesce a ricostruire i suoi movimenti e
sa che in quel momento è accucciata a terra con il volto tra
le mani.
È
soddisfatto adesso. Katherine deve soffrire almeno quanto ha sofferto
lui.
No.
«Era
sempre così gentile.»
Ora
è lei a sussurrare. Damon maledice i sensi sovrannaturali
dei vampiri e ghiaccia sul posto, incapace di coprirsi le orecchie come
un bambino e smettere di ascoltare, perché tanto non
servirebbe a nulla.
«Mi
toccava con riguardo e cercava di farmi ridere. Lui mi ha solo offerto
il suo amore, tu il mio l’hai preteso.»
Damon
dischiude le labbra per cercare di ribattere, ma non trova voce ad
accompagnare i suoi pensieri. Ci prova, desidera dire che mentre le
profferte di Stefan si erano in breve spente, le sue erano rimaste vive
per lustri – fino a poche settimane prima – ma
è il tono tremante di Katherine che lo soffoca. Katherine
non è mai triste, mai vinta, mai ferita o angosciata.
«Come
hai potuto pretendere che ti amassi? Stavo appena imparando ad amare
Stefan, come avrei potuto amare te?»
Questa
volta il colpo giunge a segno, e Damon sente una sferzata che gli fa
salire la nausea e taglia il fiato.
«Speravo
che avrei potuto insegnartelo io.»
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Uhm. Non so fin dove
sono soddisfatta di questa shot. Speravo di cavarne fuori qualcosa di
migliore, ma immagino che prendersi la propria vendetta nei confronti
degli sceneggiatori dei Vampire Diaries durante l’ora di
economia aziendale non produca propriamente gli effetti sperati.
Argh.
Ah, da ultimo: spero sia leggibile, l'ho battuto a computer dal
quaderno alle tre di notte e non avevo nonna Salice da schiavizzare per
il betaggio.
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