Memories
Autore:
Ayako_Chan
Titolo:
Memories
Fandom:
Originale
Numero (nome) Musa:
prima musa, Melpomene.
Genere:
Drammatico, introspettivo.
Rating:
Arancione
Avvertimenti aggiuntivi:
angst, non per stomaci delicati (no dai, non è poi
così descrittivo..)
Riassunto:
“Io scrivo per
ricordare.
Per fare in modo che la
verità non vada dimenticata.
[…]
Da qualche parte - in un
libro forse, non ricordo – avevo letto queste parole:
“La vita non si racconta, la vita si vive”.
Bene; io invece la
racconterò, una vita.”
Commento: Questa fanfiction ha partecipato al primo turno
del contest "Narrami
o musa...le 9 arti" indetto da wolverina91 sul forum di EFP,
ottenendo un risultato parziale di 34/50.
Tutto sommato, sono contenta. Questa è stata una
vera e propria fic-esperimento. Non ho mai usato un simile alternarsi
di punti di vista, né in genere amo scrivere in prima
persona. Anzi, devo dire che solitamente non mi piace proprio
né scrivere né leggere storie in prima persona.
>_> Devo dire che ultimamente sto usando i contest per
sperimentare. Oltretutto, questa è soltanto la mia seconda
originale, quandi spero di essere riuscita a fare un buon lavoro (o,
perlomeno, accettabile!).
I dettagli, come la giudicia ha rilevato, non sono curatissimi
perché – causa mancanza di tempo –
l’ho scritta e finita in fretta e furia (detto tra noi, l'ho
scritta in 2 ore scarse prima della consegna >_>). Senza
neanche riuscire a rileggerla, quando io di solito rileggo le mie
storie almeno 10 volte. Da qui, delle imprecisioni grammaticali (che mi
hanno fatto abbassare il punteggio e per le quali sto rosicando - odio
fare errori di grammatica .____. e che ora come ora non ho
né tempo né voglia per correggere. Lo
farò in seguito.). However, visto e considerato tutto
questo... sono estremamente soddisfatta del risultato.
Probabilmente se avessi avuto più tempo la storia sarebbe
uscita diversamente, ma ormai è andata (colpa mia che scopro
i contest belli solo all'ultimo minuto >.<).
Spero comunque che piaccia.
A tutte le altre partecipanti e soprattutto alle vincitrici parziali di
questo turno vanno tutti i miei complimenti! *__*
(Ah! Le poche info che ho preso sulla polizia di LA vengono da
Wikipedia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Los_Angeles_Police_Department)
Enjoy!
× Memories
×
Non mi piace la pioggia.
È indifferente.
Si appiccica addosso ai ricordi come un liquido viscoso, rendendo
difficoltoso respirare. Anche ora che fuori splende il sole, sento le
stesse gocce di quella notte scivolare chete e imperturbabili nella mia
mente. Impossibili da allontanare.
La mente umana è strana: perfino in un momento del genere,
rileggendo queste parole che ho appena scritto, mi viene in mente una
situazione banale, una frase che mi aveva detto una volta mia moglie,
tanti anni fa, quando ancora eravamo giovani e incoscienti, prima di capirci e amarci.
“Hai un’immaginazione più adatta a uno
scrittore che a un poliziotto.”
“E una mano più da poliziotto che da
scrittore,” avevo ribattuto prontamente io, con un sorriso
divertito, osservandomi quel palmo coperto di calli, dove minuscole ed
invisibili particelle di polvere da sparo si annidavano come prova
della mia visita al poligono di tiro.
Ma non sto scrivendo per parlare di me, di mia moglie o di
qualcos’altro del genere.
Io scrivo per ricordare.
Per fare in modo che la verità
non vada dimenticata.
È l’unica cosa che posso fare, per lui,
affinché non venga ricordato come un banale assassino
sconfitto dalla vita.
Da qualche parte - in un libro forse, non ricordo – avevo
letto queste parole: “La vita non si racconta, la vita si
vive”.
Bene; io invece la racconterò, una vita.
Si chiamava Alan Collins, ed era il mio partner – sul lavoro,
s’intende. Promosso da un paio d’anni al rango di
detective di secondo grado, arrivato al dipartimento di Polizia di Los
Angeles da molti di più, aveva lavorato con me fin da
subito.
Era un ottimo poliziotto, davvero: non si era mai sottratto agli
infiniti appostamenti che le nostre indagini richiedevano,
né ai noiosi giri di pattuglia nei quartieri alti.
Era al culmine della sua carriera, aveva una moglie – Elisabeth
– dal carattere forte, con la quale battibeccava ogni volta
che poteva; diceva che erano quelle piccole liti a tenere viva la
relazione e a impedire che si stancassero l’uno
dell’altra.
E, infine, aveva una bellissima figlia di tre anni, Hanna.
Insomma, aveva tutto. Tutto,
davvero, quello che un uomo può desiderare.
Intendiamoci: non era un’esistenza idilliaca, con la casa
ancora da finire di essere pagata, le liti con i parenti, assassini e
serial killer a piede libero da catturare e così via; ma era
felice, e non lo apprezzava abbastanza, come tutti coloro che lo sono.
Io ho imparato a farlo solo da poco, dopo che lui ha perso tutto.
Immaginatevi: in una sera qualunque di un giorno come tanti altri
tornate a casa dopo una giornata infinita di lavoro, nella quale avete
fatto dieci ore di appostamento inutile perché
l’uomo che stavate pedinando non ha fatto nulla di
compromettente; desiderate soltanto una doccia bollente, un pasto
caldo, l’abbraccio delle persone che amate e un letto.
Immaginatevi di tornare a casa in questo stato d’animo, e di
trovare la porta aperta e l’uscio socchiuso – non è mai un buon
segno, tutti i poliziotti lo sanno – e la luce
spenta.
Sentite i brividi corrervi per la schiena, e iniziate a correre, la
vostra Glock di dotazione in mano, il cuore che vi batte a mille, i
peggiori scenari possibili che vi aleggiano nella testa e un orrendo
senso di dejà
vu – perché la situazione
è fin troppo
simile alle innumerevoli scene del crimine che avete visto.
E, nel fondo del vostro animo, una flebile quanto incrollabile
speranza: che
è tutto una coincidenza, che è tutto un incubo.
Correte, tuttavia, soltanto per scoprire che l’inevitabile
è già accaduto, che quella speranza aveva ali
troppo fragili per essere credibili, che tutto ciò che avevi
è finito in un cumulo di cenere – e
l’unica cosa che riesci a ripetere ancora e ancora,
incredulo, mentre crolli in ginocchio su un tappeto sporco del sangue
di tua moglie e di tua figlia… l’unica cosa che
riesci a dire è che tu non eri lì a proteggerle. E chiedi perdono.
So queste cose, perché quella sera l’avevo
riaccompagnato io a casa; e con lui ero salito per quelle scale con la
Glock in mano, preoccupato quasi quanto lui. E sapete
qual’é la cosa peggiore? La cosa che, ancora oggi,
mi disgusta? Che, mentre ero lì a osservare con orrore i due
corpi – quel
corpo di bambina, Dio Santo! – provavo anche un
senso di sollievo
all’idea che quello non fosse accaduto alla mia, di famiglia.
Sollievo! Mentre
il mio partner… il mio migliore amico… moriva
psicologicamente, io pensavo a me stesso.
La vita non si racconta, la vita si vive, avevo detto.
Ecco, da quel giorno, Alan è come se avesse smesso di
viverla, per diventarne un mero spettatore, apatico e senza passione,
mosso soltanto da una bruciante volontà di giustizia. O,
almeno, io credevo fosse giustizia la febbre che brillava nei suoi
occhi.
Ora lo so, invece, che era pura vendetta.
Non volle chiedere nessun giorno di permesso per il lutto. Il capo lo
obbligò comunque a prenderli.
Volle seguire personalmente il caso, per scoprire l’assassino
della sua famiglia. Non gli fu permesso nemmeno quello,
com’era naturale. La polizia è estremamente severa
in casi come questi: un buon detective deve mantenere una mente
razionale e una perfetta capacità di giudizio, e lui era
troppo emotivamente coinvolto.
Chiunque, tuttavia, lo conoscesse come lo conoscevo io, sapeva che non
si sarebbe arreso. Alan difatti iniziò a indagare per conto
suo, trovando per nulla difficile farsi passare le informazioni sullo
sviluppo del caso dai colleghi più giovani che vi
lavoravano.
Eppure… eppure passavano le settimane, ma nulla veniva a
galla; e io lo vedevo, che era sempre più febbrile,
più irritabile, più disperato.
Fino a quella mattina di due giorni fa.
Bip. Bip. Bip.
Alan aprì gli occhi al suono monotono della sveglia, che
puntualmente ogni mattina squassava il pesante silenzio della casa.
Rimase per qualche istante fermo, immobile in posizione supina,
fissando il nulla davanti a sé – prendendosi quei pochi,
fondamentali minuti che gli servivano per ricordarsi chi era e
perché stava ancora vivendo – prima
di alzarsi e dirigersi verso il bagno.
Automaticamente, compì tutti quei gesti quotidiani che
sapevano di vita in un qualche mondo lontano e distante dal suo.
Osservò senza interesse un rivoletto di sangue che scendeva,
in ipnotiche spirali, nello scarico del lavandino.
Oh, cielo, tesoro. Ti
sei tagliato ancora facendoti la barba?
Sussultò mentre la voce della moglie rimbombava nel bagno vuoto, voltandosi
di scatto per catturare quel frammento di sorriso e di capelli castani
scorto con la coda dell’occhio, soltanto per ritrovarsi a
fissare un muro bianco.
Elisabeth…
Col respiro accelerato e un dolore sordo all’altezza del
petto, si voltò di nuovo verso il lavandino;
fissò le lamette del rasoio per un interminabile istante,
prima di posarlo nello stesso punto in cui Elisabeth dimenticava sempre
il mascara. Quante
volte l’aveva rimproverata, per quello…
Uscì per recuperare la divisa, senza curarsi di mettere un
cerotto sul taglio ancora sanguinante.
Ricordo che, quella mattina, quando si presentò al lavoro
era più emaciato del solito. Gli incubi non lo abbandonavano
mai, così come i sensi di colpa, ma evidentemente quella era
stata una notte più dura delle altre.
Non osai chiedergli niente, per timore di scavare soltanto
più in profondità nella ferita – non
sono uno psicologo, e nonostante io possa essere definito
“bravo” con le parole, ci sono certe circostanze in
cui anche il migliore poeta può ritrovarsi a corto di idee;
e, in genere, sono i momenti in cui ne necessiterebbe di più.
Ad ogni modo, gli posai una mano su una spalla, in un gesto famigliare
e rassicurante.
“Robert,” rispose soltanto, sorridendo debolmente.
Era seduto alla sua scrivania in un angolo della stazione di polizia,
ed io ero appoggiato al ripiano del mobile – in mano una
tazza di caffè intonsa che gli porsi senza esitazione. Mi
ringraziò con un cenno del capo.
Gli altri nostri colleghi erano indaffarati nei loro compiti,
perciò era altamente improbabile che qualcuno venisse a
disturbarci.
Fu in quel momento che mi disse quelle parole, in un tono che non
scorderò mai.
Alan prese un piccolo sorso di caffè, socchiudendo gli occhi
quando il liquido bollente gli scorse giù per la gola,
infiammandogli l’esofago. Il calore che gli salì
fino alle guance ritemprò – seppur di poco
– il suo colorito.
Lanciò uno sguardo disinteressato agli altri poliziotti che
si aggiravano per la stanza, sussultando debolmente quando un ricordo,
un flash improvviso si palesò davanti ai suoi occhi.
Hanna, che correva all’interno del dipartimento.
- Papà papà! Guarda come corro veloce!
- Hanna! Non correre,
che vai addosso alle persone!
- Ahah! Prendimi daddy,
prendimi!
- Ti ho preso, piccola
streghetta.
Hanna che rideva, i capelli biondi che tanto ricordavano la madre tutti
arruffati e sudati, e un sorriso che le illuminava gli occhi. Gioia.
Solo semplice, pura, infantile gioia di bambina.
- Daddy non vale! Tu hai le
gambe più lunghe!
- No. Ti ho preso,
streghetta, e ora non ti lascio andare più.
Oh, Hanna…
-
è una promessa?
- sì tesoro,
è una promessa.
Doveva aver stretto con troppa forza la tazza del caffè,
perché Robert lo scosse gentilmente, risvegliandolo da quel
sogno – incubo – a occhi aperti.
“Alan..? Va tutto bene?”
Prese un lungo respiro, appoggiando la tazza sulla scrivania con una
mano in preda a tremori. Si passò l’altra sulle
palpebre, cercando di trattenere le lacrime.
Stava per dargli una risposta affermativa, ma lo sguardo sinceramente
preoccupato del suo partner di lavoro – migliore amico nella
vita – gli bloccò le parole in gola.
Robert era stato sempre al suo fianco negli ultimi vent’anni:
lo aveva conosciuto quando era un giovane incosciente appena uscito
dall’accademia, scapestrato e pieno di sogni e idee nobili;
lo aveva visto vomitare alla sua prima scena del crimine, erano
cresciuti insieme sia come uomini che come poliziotti, sempre tenendo
al centro della loro vita quei principi di giustizia che li avevano
spinti a intraprendere quella professione. Era stato, ovviamente, il
suo testimone di nozze. Avevano passato infiniti pomeriggi davanti alla
televisione per vedere le partite di baseball, indulgendo in pop-corn,
birra e patatine.
Non aveva mai tradito la sua fiducia; ed era stato al suo fianco in
quella dannatissima notte,
trascinandolo via prima che potesse gettarsi sui corpi martoriati,
inquinando le prove e precludendo così ogni
possibilità di trovare il colpevole.
Meritava la verità.
“No.” Gli disse quindi, dopo qualche secondo, in
quello che era poco più di un sussurro. “No, Rob,
non sto bene. Come potrei?”
Lo vide stringere le labbra, e capì di aver detto la cosa
sbagliata. Conoscendolo, probabilmente si stava già
rimproverando per aver fatto una domanda così sciocca.
“Non è colpa tua. È solo
che…” prese un respiro, spostando lo sguardo a
quell’umanità indaffarata che lo circondava.
“Sento un peso che mi grava addosso, e ogni giorno
è sempre peggio. Ogni giorno vengo al lavoro, e ogni giorno
il mondo va avanti nonostante tutto, e io mi trovo costretto ad
indossare una maschera per nascondere… il dolore…
di quella notte.” Le ultime parole uscirono a fatica.
Robert gli strinse una spalla, comunicandogli la sua vicinanza.
“Alan, venire al lavoro è soltanto un peso in
più. Sei sicuro che non vuoi prenderti qualche giorno
ancora..?” Non osò aggiungere altro,
perché l’amico non avrebbe sopportato la sua
compassione.
“No,” gli rispose infatti, “se sto a casa
è peggio. Io voglio
trovare il bastardo figlio di puttana che ha distrutto la mia famiglia,
Robert. Voglio vedergli due manette ai polsi, talmente strette da
fargli male, voglio guardare negli occhi il rifiuto umano che
ha…” che
ha sparato alla tempia di una bambina e di una donna indifesa senza
esitare “… voglio sentirlo ammettere
ciò che ha fatto e poi…”
trascinò la frase senza finirla, mordendosi un labbro mentre
un lampo d’ira gli infiammava la mente. “Ne ho bisogno.”
Robert rimase a fissarlo per un po’, cercando di capire cosa
si nascondesse dietro quelle parole – perché lo sentiva,
c’era qualcosa dietro, qualcosa di importante e pericoloso
– ma i suoi occhi erano vuoti, e rilucevano soltanto di
dolore e della necessità di essere compreso.
Quindi annuì, semplicemente.
È stato nel tardo pomeriggio - se non ricordo male
– che Mark, uno dei detective più giovani,
è arrivato di corsa, portando con sé alcuni fogli.
Erano i risultati di alcuni esami concernenti quello che
impersonalmente veniva chiamato il “Caso Collins”;
i poliziotti sono sempre freddi quando si tratta di omicidio, ma se
certe cose succedono a qualcuno vicino a te senti ancora di
più la necessità di mantenere le distanze.
Così, le persone
con cui fino al giorno prima cenavi insieme diventano corpi, la tragedia un
qualunque caso
(da risolvere ad ogni costo, te lo ripeti per ricordartelo, ma cercando
di non pensare ai cadaveri come alla moglie e alla figlia del tuo
migliore amico). Devi
farlo, altrimenti impazzisci.
Dicevo: quella mattina, Mark portò i risultati degli esami.
Essenzialmente, sulla scena del crimine erano state trovate delle
tracce di terriccio mischiate a delle sostanze chimiche, la cui analisi
richiedeva dei laboratori più sofisticati di quelli
posseduti dalla scientifica del dipartimento; di conseguenza, erano
state inviate ad un laboratorio specializzato che, però,
aveva altri esami con una priorità maggiore.
Avevamo aspettato, e finalmente i risultati erano arrivati.
Non starò ad annoiarvi con i dettagli. Vi basti sapere che
le sostanze trovate erano un miscuglio decisamente particolare e noi
sul momento non riuscimmo a collegarlo a nessun luogo preciso.
Tuttavia Alan, appena aveva saputo la notizia, si era alzato dalla
scrivania ed era uscito senza preavviso e senza permesso.
Io – stupido!
– pensai che non riuscisse a sopportare il fatto
che, nonostante avessimo ricevuto i risultati, apparentemente non
c’era stato nessuno sviluppo nel caso.
Pensai che la mia presenza sarebbe stata soltanto un peso; Alan odiava
essere compatito, e nei momenti di peggiore dolore aveva sempre
preferito la solitudine, contrariamente a quanto si potrebbe pensare.
Soltanto dopo un’ora, mentre stavo sfogliando dei fascicoli,
mi capitò davanti agli occhi l’immagine di un
magazzino abbandonato, a poco più di mezzora di distanza. Un
magazzino che era stato precedentemente un deposito di sostanze
chimiche di vario genere.
Che era stato chiuso in seguito ad una retata perché
lì venivano sintetizzate illegalmente droghe.
Alan aveva lavorato su
quel caso, e mi aveva detto che durante il loro intervento
diversi contenitori erano stati rovesciati.
Uno strano miscuglio di
sostanze chimiche…
Improvvisamente, tutto mi fu chiaro.
Sentii un brivido freddo percorrermi la schiena, mentre i tasselli del
puzzle si componevano a formare il disegno finale.
“Io voglio
trovare il bastardo figlio di puttana che ha distrutto la mia famiglia,
Robert. Voglio vedergli due manette ai polsi, talmente strette da
fargli male, voglio guardare negli occhi il rifiuto umano che
ha… voglio sentirlo ammettere ciò che ha fatto e
poi…”
E poi cosa, Alan?
Piantargli una pallottola nel cervello, così come lui ha
fatto con Elizabeth e Hanna?
Mi alzai in piedi di scatto, ordinando ad un detective di
grado inferiore – non mi ricordo neanche chi fosse
– di organizzare una squadra e di dirigersi verso quel
magazzino il più in fretta possibile. Io non potevo
attendere.
Dovevo arrivare là prima di loro, capite?
Dovevo cercare di evitare l’irreparabile, dovevo impedire al
mio migliore amico di rovinarsi completamente la vita.
Abusai della sirena. Guidai il più in fretta possibile
stringendo spasmodicamente il volante.
Dio, dio, dio, Alan no,
ti prego non farlo…
Ricorderò sempre quella mezzora di guida come
un incubo.
Era scesa la sera. E pioveva.
Alan osservò l’uomo cadere in ginocchio con un
misto di soddisfazione e d’indifferenza.
Gli urli che quel rifiuto umano emetteva stringendosi il ginocchio
frantumato dalla pallottola si mischiarono al rombo di un tuono
lontano, inascoltati in quel vicolo buio affiancato al magazzino.
Sapeva di non avere moltissimo tempo prima che la polizia facesse il
collegamento, ma aveva passato l’ultima mezzora a fare in
modo che quella spazzatura accasciata davanti a lui ammettesse tutti i
suoi gesti, il modo in cui aveva ucciso la sua famiglia, il perché.
Una morte rapida sarebbe stata troppo compassionevole.
Voleva vederlo pregare di risparmiargli la vita, come Elizabeth aveva
supplicato fra le lacrime, stringendo la figlia al petto per
proteggerla.
Voleva vedere la paura e
il dolore e la consapevolezza della sua morte nei suoi occhi.
Strinse più forte la pistola. La pioggia
cadeva, inzaccherandogli i vestiti.
“Ti prego, ti prego… risparmiami…
andrò alla polizia, farò tutto quello che
vuoi…”
Ah, eccolo. Tutti i
vermi pregano, prima di morire.
Inutilmente.
“Anche Elizabeth te l’aveva chiesto vero? Ma non
l’hai ascoltata.”
“NO! Ti prego!”
Poggiò l’indice sul grilletto.
“ALAN!”
L’urlo di Robert squarciò l’aria nello
stesso momento in cui il proiettile si conficcava nell’altra
gamba dell’uomo, strappandogli un alto lamento.
“Robert.” Disse soltanto, senza guardarlo. Senza
sorpresa. “Sapevo che saresti arrivato.”
“Alan…” fece una pausa, gettando una
breve occhiata al sangue che si spandeva sull’asfalto e
puntando con sforzo la pistola contro l’amico. “Ti
prego, non farlo.” Disse soltanto.
“Non posso.” Rispose, voltando la testa verso di
lui. “Non posso.”
“Questo non risolverà nulla, lo sai. Non le riporterà
indietro.”
“Lo so. Ma è giusto
così.”
“Farsi giustizia da soli non è mai stata la cosa
giusta. Ne sei sempre stato convinto anche tu.”
Alan inclinò il capo, leggermente, in modo distante, come se
quel discorso fosse rivolto a qualcun altro. E, in un certo senso, lo
era.
“Io non sono più quell’uomo, Rob.
Quell’uomo è morto insieme a Lizzy ed
Han.”
“Alan…”
“Tu credi nel destino, Robert?”
La domanda lo spiazzò. Alan schiacciò con un
piede la gamba ferita dell’uomo a terra, che cercava di
allontanarsi strisciando.
“Io non ci credo. Sai chi è questo
rifiuto?” continuò ancora, puntando la Glock verso
l’assassino della sua famiglia. “È un
semplice, comunissimo ladro. Sai perché le ha uccise? Eh?
Perché era arrabbiato quel giorno, la fidanzata lo aveva lasciato per un
altro e Lizzy assomigliava troppo alla fidanzata e lo guardava in modo
che non gli piaceva…
e il pianto di Hanna era fastidioso…”
Le nocche sbiancarono da quanto la presa sulla pistola era stretta.
“Le ha uccise… senza motivo. Uno di quegli omicidi
senza senso…
senza… senso… perché
loro?!” Gli sferrò un altro calcio.
“Alan… metti giù la pistola, ti prego.
Capisco… la tua rabbia, il tuo dolore. Sparerei io a quel
tizio, ma non è questo ciò in cui crediamo.
Sarebbe omicidio volontario e premeditato, e…” e in questo stato
c’è la pena di morte.
Ti prego, Alan. Non
voglio perderti. Non arrenderti alla vita.
“Io non credo al destino, Rob. Mai fatto. Credo nella
libertà di scelta. E io ho scelto, ormai.” Secco,
lapidario.
“Mi dispiace.”
“Alan, NO!”
Lo sparo risuonò assordante, nella notte.
La pallottola attraversò il cranio dell’uomo da
parte a parte, mentre in lontananza si sentivano le sirene della
squadra di polizia.
Alan abbassò la pistola, lo sguardo vuoto e spento.
Robert picchiò un pugno contro il muro, sbucciandosi le
nocche.
E, sopra a tutto quello, la pioggia cadeva ancora, incessante, portando
via con sé il sangue, le lacrime e i cocci di una vita
andata in frantumi.
Indifferente.
Il processo non è ancora finito. Non so se Alan
riceverà la pena capitale, o qualcos’altro.
Io voglio solo che non venga ricordato come un brutale assassino.
Voglio solo far sapere che è stato un buon padre, un bravo
marito, un ottimo poliziotto e il migliore degli amici.
Un uomo sconfitto dal dolore, ma non un perdente –
perché ciò che ha fatto è stata una
sua libera scelta. Consapevole.
Solo… era
umano. Come tutti noi.
Los Angeles, Venerdì
15 ottobre 2010
Robert Murray, Detective
di II grado
del LA Police Department.
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