Ed ecco infine la pappardella che rimugino da anni e scritta in
occasione del Big Bang Italia, challenge molto sfiziosa che
dà un paio di mesi per cacciar fuori più di 10000
parole su un singolo progetto a piacere, fanfic o original.
C'è tutto il gusto dello strapparsi i capelli per consegnare
per tempo, il lamentarsi coi compagnucci di quanto è venuta
scacia la fic e di quanto sei un cane a plottare perché credevi
di raggiungere a stento il limite minimo e invece veleggi sulle 63000
(solite piacevolezze di challenge, insomma XD), e poi c'è
un'incredibile e amorevolissima schiera di persone volenterose pronte a fare un regalino agli
scribacchini. A me il regalino l'ha fatto El Defe ed è un
bellissimo fanmix scaricabile qui,
che vi consiglio di cuore... magari senza leggere il booklet che per
ora, ovviamente, spoilera^^
Ora, OC protagonisti. Spero che entro la fine della fanfic parlino da
sé, anche se non sono sicura di averli espressi al meglio.
Quello che so è che questi eventi di cui voglio parlare non
potevano essere una storia su Yuna o avrei usato ben volentieri Yuna.
Non potevano essere una storia su Braska, su Yocun, Ohalland e men che
meno Gandof, non potevano essere su Isaaru, su Zuke, su Ginnem
né potevano essere su Seymour. Sarebbero potuti essere un
What if su Dona o su Belgemine (che comunque non ha perso occasione per
un po' di sano presenzialismo), tirandoli un po' per le orecchie. Ma
avevo più voglia di restare in canone usando due miei
personaggi storici in vesti spirane.
Solita solfa sui termini specifici, che essendo la fanfic luuuunga
ricorrono tipo tutti, qui.
PORTÒ LA MORTE A
ZANARKAND
1. Un passo oltre il precipizio
(Non fare il passo più lungo della
gamba, pellegrino. Vedo che né Yevon né gli Eoni
sono tuoi padroni,
ma ricorda che tu non sei il loro.)
(Farò ogni passo che mi porterà a
Zanarkand, madama evocatrice.)
(E tu? Sei il suo guardiano?
Tienilo d'occhio, ché non si perda in sciocchezze.)
(È quello che faccio.)
La fine di tutto, fuorché Sin
Il cielo sopra la montagna sacra era
sereno. A quelle altitudini capitava che per trovare le nuvole si
dovesse guardare in basso, dove i cumuli riempivano canaloni e
strapiombi nascondendo il mondo al di sotto.
Sert guardava in basso. Seguiva
distratto i voli rotondi degli uccelli che s'inseguivano sopra le
coltri nere. L'evocatore si reggeva appena alla sporgenza di roccia:
non sentiva più il freddo nelle mani guantate che
stringevano a
vuoto la neve e le ginocchia non gli rispondevano. Guardava l'abisso.
Guardava in fondo, guardava gli uccelli, rifuggendo le macchie di
sangue che segnavano una traiettoria lungo la scarpata. Accettare che
esistessero le avrebbe fissate e rese reali, mentre tutto quello che
poteva fare per restare vivo e aggrappato alla terra ghiacciata era
convincersi di essere immobile nel tempo, che quando si fosse
rialzato questo si sarebbe riavvolto a suo comando e sarebbe tornato
a pochi istanti prima, quando il suo guardiano respirava e viveva
sotto i suoi occhi. O prima ancora, prima degli ultimi scontri, alle
pendici di quella montagna maledetta. O a casa, nella lontana Kilika
assolata, pianificando un futuro che sembrava breve e semplice.
Sert possedeva un talento naturale per
convincersi, affinato negli anni e culminato nella peregrina idea di
poter raggiungere Zanarkand e dare così un senso ai suoi
giorni.
Costruire una fede cieca nel proprio successo era, in fondo,
privilegio da evocatore. Ma se tutto era sotto controllo, e Sert ne
era certo – il tempo è fermo, aspetta me
– perché
sentiva un dolore lancinante al cuore?
“Il peggio deve ancora venire”,
commentò una parte di lui che si era tenuta in disparte
dalla cappa
di nulla che gli era crollata addosso e lo osservava quieta.
“La
realtà busserà alla tua porta e piangerai e
strillerai tutte le tue
ingiustizie fino a che avrai voce, ma per l'amor di quel che
è sacro
non a voce troppo alta, per favore, o ti arriveranno addosso tutte le
fiere del Gagazet e non hai più nessuno che ti difenda, o
che ti
curi. E fa' veloce che siamo in ritardo, la gente là sotto
aspetta
una Calma da tutta la vita.”
Sert strinse i pugni. Era abituato
anche ad avere voci che riecheggiavano nella sua testa, sogni non
suoi, frammenti di immagini cui non dava un senso da quando aveva
stretto il patto con Lord Ifrit, anni addietro, ma mai così
chiare
né così spiacevoli. Fece una smorfia e trattenne
il fiato. Piangere
e strillare, che sciocchezza.
Il peggio venne. L'istinto di
sopravvivenza ebbe la meglio quando Sert sentì che presto,
da un
momento all'altro, il suo castello di assurdità avrebbe
ceduto e si
sarebbe dovuto arrendere all'evidenza, e si gettò
all'indietro
rannicchiandosi in mezzo alla neve per non scivolare nel vuoto quando
venne scosso dai primi singhiozzi. “Grion”,
piangeva. “Non
doveva andare così.” Non strillò,
perché la voce della sua
coscienza (o dell'autopreservazione o dell'autoinsulto, o c'era una
possibilità remota che fosse Ixion ma no, non era Ixion:
troppo
diretto per chiunque di loro, perfino per la sua irruenza) era stata
ingrata e sentiva di doverle dare torto, ma aveva ragione. Non poteva
fermare il tempo, così rivisse in silenzio la lotta che
avevano
perso, un combattimento così comune dopo tanti ostacoli
superati
insieme: l'assalto del Bashura,
forse un piede in fallo – mantenere reale l'evocazione
impegnava
tutta la sua concentrazione, non stava guardando, dannazione non
stava guardando e ora non avrebbe mai saputo, nemmeno un ultimo
ricordo – e i due corpi avvinghiati che rotolavano sgraziati
verso
il fondovalle.
Nel presente restava solo lui, che
avrebbe voluto scomparire nella pace ovattata della montagna e non
era lontano dal riuscirci, con le vesti bianche che si confondevano
col ghiaccio e solo una fusciacca e la pelle scura a spiccare sul
suolo.
Il peggio venne. La coscienza di
evocatore ebbe la meglio quando Sert si arrese all'idea che tutti i
pianti di Spira non avrebbero riportato indietro il suo guardiano e
che in virtù del suo ruolo avrebbe dovuto imparare
più di chiunque
altro ad accettare la fine di una vita. I pianti non l'avrebbero
riportato indietro – ma potevano impedirgli di proseguire
verso
un'esistenza più serena, lontana da Sin e dalla spirale di
morte.
Una vita fa, a casa, quando aveva un
letto cui tornare e persone concrete cui badare, il suo compito era
stato quello di accompagnare i morti oltre il dolore e il rimpianto
che li legavano a Spira, insegnare loro il distacco e offrire la sua
compassione nell'arco di una danza, prima di tornare alla
realtà
infreddolito e stanco ma con la consapevolezza di aver scongiurato la
nascita di nuove fiere. L'aveva evitato alla sua città,
evitato ai
viaggiatori, evitato agli spiriti stessi dei morti che non meritavano
di marcire nell'invidia per il mondo disgraziato dei vivi fino a
venirne sopraffatti. Grion, fra tutti, non lo meritava. Doveva un
ultimo onore al suo guardiano, il più difficile: ricordava
di aver
sentito evocatori falliti parlarne con orrore, durante una sosta: la
perversione del senso stesso del pellegrinaggio, dicevano. Si era
sentito così fiero del suo protettore, allora.
Così stupido in quel
sentimento di invincibilità.
Si fece forza, imponendosi di smettere
di tremare. Si alzò in piedi, grato di avere con
sé un'asta robusta
cui potersi appoggiare, e tornò ad affacciarsi al
precipizio. Sentì
la vista appannarsi: tutto il male che credeva di aver buttato fuori
gli era strisciato nuovamente addosso, togliendogli ogni forza. Si
trovò ancora in ginocchio. Si intimò di alzarsi.
Ancora una volta,
la testa girava e le gambe non volevano sostenerlo. Per te,
si
fece coraggio. “Se puoi sentirmi”, disse ad alta
voce,
“aspettami, di là. Manca poco, in un modo o
nell'altro.”
Iniziò la concentrazione rituale,
inspirando a fondo e terminando bruscamente il tentativo in un accesso
di tosse e singhiozzi. Alzò l'asta in un primo movimento ma
si trovò
a terra, ancora, a prendere a pugni il terreno e la sua
incapacità
di mettere in fila due pensieri senza che quel grumo di emozioni si
mettesse in mezzo spaccandogli il cuore, quelle stesse emozioni che
gli urlavano di portare a termine il rito o di considerarsi
più
indegno di Sin, che almeno sapeva concedere una morte veloce alle sue
vittime. Ma non ci riusciva. Il pensiero di allontanarlo del tutto da
Spira, di accettare di nuovo la sua morte e saperla eterna pesava
come pietre su ogni suo muscolo. Sapeva che stava compiendo un errore
atroce ed era pronto a rinunciare a ogni dignità, ma
restò nella
neve a piangere, ancora, mentre i suoi pensieri schizzavano impazziti
a cercare una ragione di quello che era accaduto.
Un po' calcata sull'emo per necessità
di wordcount e anche per sfogo di avvenimenti recenti, non
direttamente sulla mia pelle ma troppo vicini per uscirne illesa.
Sopportatemi, c'è anche una trama e
Possibili Punti d'Interesse Generico sparsi qua e là. A mio
gusto, il primo sarà già qui appena voltata la
pagina.
I capitoli saranno 9, un po' più lunghi di questo, e penso di aggiornare un paio di volte a
settimana. :)
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