Rossana
Archimede. Il principio di Archimede.
“ Ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta
verticale dal basso verso l'alto, uguale per intensità al peso del volume del
fluido spostato.”
Daniele lesse la legge, poi la
rilesse. Una volta, due volte, tre volte. Alla quinta volta sospirò. La fisica:
principi, leggi, ipotesi e dimostrazioni. Archimede, Galilei, Bernulli…
Niente. Proprio non gli andava.
A cosa serviva, in fin dei conti?
Non gli importava dell’interrogazione, così come gli era indifferente il
voto che avrebbe preso. Mordendosi il labbro inferiore lesse ancora il
paragrafo, le palpebre che si facevano pesanti e il respiro che accelerava.
Succedeva sempre così. Al tempo stesso montavano in lui il sonno ed il rimorso.
Se da un lato sentiva il capo farsi ciondoloni e gli occhi che si chiudevano,
dall’altro sentiva l’ansia salire, pervaderlo e prendere quasi il
controllo di lui. Annaspava. Come sempre.
- Daniele? –
Non aveva sentito il leggero colpo
alla porta. Sollevò di scatto la testa, lo sguardo improvvisamente attento e
fermo sulle due figure che si stagliavano nella luce pallida del corridoio.
Daniele le fissò, lo sguardo
appannato. Cleopatra ed una mummia. Lo guardavano entrambi, sorridenti.
- Ma come, non ti sei vestito?!
– chiese la regina egizia, inarcando le sottili sopracciglia nere.
Il ragazzo non si degnò nemmeno di
rispondere, sbuffando e dando invece loro le spalle. Strinse le dita sul dorso
del libro e lo poggiò in grembo, sfogliandolo distrattamente.
- Devo finire fisica –
mormorò, il tono incolore, sperando che la porta si chiudesse lasciandolo solo.
Invece del cigolio che si
aspettava però, sentì dei passi e una risata nervosa.
- Fisica? Ci prendi in giro,
figliolo? -
Daniele si voltò, gli occhi
stretti e lo sguardo corrucciato. Perché erano lì? Perché non lo lasciavano in
pace?
Fulminò il padre con lo sguardo,
osservando con disprezzo le bende che flaccide gli nascondevano in parte il
volto. La mummia tuttavia sorrideva, indifferente all’odio che le era
stato riservato.
- Sì, fisica. Quella materia in
cui prenderò nientemeno che un voto negativo se non mi lasciate studiare -
- Non puoi studiare domani?
– chiese, innocente, la regina.
Daniele scosse la testa, agitando la
mano con fare incoerente. Vedeva chiaramente lo scintillio divertito che
animava gli occhi dei genitori, sapeva che mai prima di allora si era seduto
con un qualsivoglia libro in grembo e ricordava perfettamente che giorno
dell’anno era. Nonostante ciò voleva studiare.
Desiderava restare lì, nella sua
camera, lontano dalla momentanea e generale follia.
Desiderava chiudere gli occhi e
vedere il resto del mondo che lentamente scompariva, lasciandolo solo.
Desiderava ignorare, dimenticare,
rimuovere per sempre tutto il resto.
- Non puoi studiare domani, Danny?
-
La domanda era stata posta di
nuovo, un accenno di sarcasmo nella voce.
Il ragazzo sollevò gli occhi,
incontrando finalmente quelli della madre: la osservò avvicinarsi, leggiadra,
la mano stretta in quella del marito. Daniele ne seguì i movimenti con
attenzione: mentre con sicurezza prendeva posto sul suo letto, i lunghi capelli
neri che ondeggiavano con lei.
- Sai benissimo quanto mi faccia
piacere vederti con gli occhi su qualcosa che non sia uno schermo – stava
dicendo, la voce pacata, quasi cantilenante – Stasera però non mi sembra
il momento migliore -
Daniele la ascoltava e non la
ascoltava. Pensava, piuttosto.
Rifletteva su cosa potesse aver
combinato, su quale potesse essere il motivo per cui erano lì, nella sua
stanza. Inarcò un sopracciglio, chiedendo tacitamente spiegazioni. La mummia
sospirò, il sorriso sotto i baffi e lanciò un’occhiata allusiva alla
moglie.
- Devi andare a fare dolcetto o
scherzetto – affermò allora la regina, seria e sorridente.
Daniele in un primo momento pensò
di aver capito male. Assottigliò lo sguardo, lasciando cadere il libro sul
pavimento e stringendo le mani l’una nell’altra.
- Come? –
- Dolcetto o scherzetto –
ribadì la mamma, uno sguardo altezzoso da far invidia a Cleopatra.
- Scherzate? – chiese
Daniele, reclinando leggermente lo schienale della sedia – Cos’ è,
una presa in giro?-
Non ottenendo risposta né alcun
cenno di scuse da parte dei diretti interessati, continuò, infervorandosi:
- Ho diciotto anni, porco cane!
Avrò il diritto almeno di decidere cosa fare e cosa non fare?! Dolcetto o
scherzetto! Non ci penso proprio, fossi matto! Ma cosa vi salta per… -
- Otterresti punti per la macchina
–
Cinque parole. Cinque semplici
parole che riuscirono a fargli chiudere di scatto la bocca.
Daniele si era alzato in piedi
senza nemmeno accorgersene: aveva preso a camminare per la stanza, le braccia
che si agitavano per enfatizzare le sue parole. Non riusciva ad accettare quella
loro improvvisa ed inaspettata imposizione. Non riusciva neanche a spiegarsela.
Eppure bastarono quelle parole a
svuotargli la mente.
- Cosa? -
Un sussurro, solo un sussurro.
Fievole, quasi inesistente.
Un alito di speranza uscito con
riluttanza dalle sue labbra umide e tremanti.
- La macchina – ripeté,
calmo, il padre.
Daniele gli si fermò di fronte, le
braccia che lente tornavano ai lati del corpo ed un’espressione guardinga
che gli colorava il volto. Il ragazzo strinse le labbra, gli occhi fissi in quelli
della mummia.
- Gradirei delle spiegazioni
– disse, ponderando le parole.
- Tu accompagnale e noi prendiamo
in considerazione l’Audi –
Daniele spinse le mani nelle
tasche dei jeans, il cervello che lavorava furiosamente.
- E’ un ricatto? –
chiese, l’unica intenzione di prendere tempo.
- Vedila come una possibilità
– rispose angelica la madre.
Daniele le sorrise di rimando, un
sorriso tirato e distratto. Accompagnale e prendiamo in considerazione
l’Audi, così aveva detto. Una serata a fare dolcetto o scherzetto e
avrebbe potuto avere la macchina.
Gli occhi del ragazzo
s’illuminarono automaticamente, il verde che diventava gradualmente
sempre più brillante. Poche ore in mezzo a quella pazzia convulsiva valevano una
macchina? Daniele si trattenne a stento dal saltare proprio lì, davanti a loro,
certo che sì, certo che la valevano!
Non riusciva a crederci, avrebbe
avuto la macchina!
- Ci sto – buttò lì, preda
dell’euforia, il sorriso che s’ingrandiva illuminandogli il viso.
Cleopatra e la mummia si alzarono,
sorridenti, guardando il giovane con malcelata soddisfazione.
- Sicuro? –
- Certo che sì – affermò
Daniele, facendo per uscire dalla stanza. Aveva già messo un piede fuori dalla
porta quando si bloccò di colpo, cercando di nuovo gli occhi del padre: - Non
c’è qualcosa sotto, vero? –
- Nessun trucco – rispose la
mummia, annuendo con il capo.
Daniele sorrise ancora,
credendogli subito. – A più tardi! – gridò, scendendo le scale a
due a due.
Arrivò al piano terra a tempo
record: corse verso il salotto e venne accolto da due paia di occhi sorpresi.
Sorrideva, i pensieri ancora fissi
su degli pneumatici indistruttibili, quando si accorse di loro. Le labbra
persero l’inclinazione allegra alla stessa velocità con cui l’avevano
assunta.
Daniele guardò le due ragazze
vicine alla porta e capì di aver preso la situazione sottogamba.
Calimero e Trilli. Sei e sedici
anni.
Le guardò, squadrandole con occhi
critici. Prima la più piccola, avvolta nel costume nero, l’enorme massa
di capelli rossi e ricci che lottavano per uscire dal cappuccio e gli occhioni
neri che non smettevano di fissarlo. Quindi la più grande, vestita da fatina, i
capelli lisci legati in una coda di cavallo e le forme messe in bella mostra,
che lo fulminava con la mascella serrata.
Daniele guardò le sorelle,
chiedendosi se avesse fatto la scelta più giusta.
Le guardò, ricordandosi che era il
31 di ottobre.
Le guardò, pensando a cosa andava
in contro.
Daniele sospirò, immaginando i
genitori che se la ridevano al piano di sopra. Lo avevano messo nel sacco.
Tanto di cappello.
- Pronte a fare dolcetto o
scherzetto? –
*
- Questa! No, prima quella! No, no, cominciamo
dall’altra strada! -
Daniele si passò una mano sugli
occhi, un’imprecazione che ondeggiava perfida sulla punta della lingua e
i piedi che si rifiutavano di spostarsi anche solo di un altro centimetro.
Non ce la faceva più.
Avevano percorso appena pochi
metri dalla porta di casa e già non ce la faceva più.
Fu con diffidenza che riaprì gli
occhi. Lentamente, preparandosi psicologicamente a ciò che avrebbe visto.
Lasciò correre lo sguardo sulle
villette schierate ai lati della strada: addobbate, luminose, alcune spettrali
altre festose. Guardò le innumerevoli zucche che punteggiavano la notte con i
loro colori infiammati e le loro espressioni ridenti e ghignanti. Sentì le
risate dei bambini, i trilli dei campanelli, la voce di Rossana.
Rossana, costumi, zucche,
dolcetti, Rossana, lampioni, candele, bambini… Rossana.
- Daniele, forza! Andiamo! -
Si sentì tirare la manica della
felpa, una vocetta acuta e squillante che gli perforava il timpano. Con calma
abbassò lo sguardo, fissando le piccole dita che gli stringevano la maglia.
Osservò la bambina che con un guscio in testa saltellava al suo fianco. Lo
cercava di trascinare, guardandolo con fare supplichevole.
- Danieeeele! Ti muovi o no?
– cantilenò ancora la bambina, una ciocca di capelli rossa stretta fra i
denti.
Il ragazzo sorrise con un sorriso
di convenienza e si piegò sui talloni, portando il viso all’altezza di
quello della sorellina. Il tono pacato, le parlò con decisione:
- Rossana, non devi fare così
– cominciò, lo sguardo serio al punto da far perdere la voce ed il
sorriso alla piccola – Non c’è bisogno di gridare né di
tirare, stiamo andando, non vedi? -
- Ma che tatto, complimenti
– commentò acida una voce alle sue spalle.
Daniele si rialzò, liberando il
braccio dalla stretta della bambina e lanciando un’occhiata aspra a
Trilli:
- Non ho urlato -
- Hai fatto di peggio –
ribatté la ragazza, l’aria piccata, prima di poggiare una mano sulla
schiena di Rossana e sospingerla verso un gruppo di bambini: - Perché non vai
avanti? Noi arriviamo subito -
Daniele guardò la bimba che si allontanava, lo sguardo
basso e ferito.
- Non intendevo sgridarla, Sofia
– disse, sedendosi svogliatamente sul bordo del marciapiede. Lei scosse
la testa, agitando la busta che teneva in mano. – No. Non va –
mormorò, guardandolo dall’alto in basso.
Daniele fece per dire qualcosa ma
lei non glielo permise, con la voce tremante di rabbia lo anticipò:
- Non puoi fare così! Non è tuo
diritto, lo sai? Passi meno di un’ora al giorno con quella bambina: non
puoi essere arrogante al punto da riprenderla, men che meno se io sono
presente. - Si fermò un attimo solo per prendere fiato e poi continuò, il tono
più basso – Ti vuole un mondo di bene. Senza ragione per quanto mi
riguarda, ma è così. Non… non commettere l’errore di… Rossana
è dolcissima, cerca di… -
Daniele si alzò in piedi, evitando
lo sguardo della sorella e stringendosi nelle spalle.
- Dobbiamo passare una serata
insieme, Sofia, vedi di non farne una tragedia -
- Sei un imbecille! – sbottò
lei, spintonandolo con forza ed avviandosi a passo svelto verso il gruppo cui
si era accodata Rossana. Li raggiunse, sorridente ed apparentemente
spensierata.
Daniele la guardava da lontano,
ancora fermo.
Le guardò entrambe mentre
ridevano, chiedendosi quando fossero arrivati a quel punto: quando avesse
smesso di parlare con le sorelle, quando Sofia avesse accumulato tutta quella rabbia
nei suoi confronti e come fosse possibile che verso quel piccolo Calimero non
sentisse altro che un fievole affetto.
Iniziò a passeggiare, tenendosi
diversi metri dietro di loro, lontano dalla calca, indifferente ad ogni cosa.
- Tutto bene? -
Daniele sobbalzò sentendo quella
voce del tutto inaspettata. Guardò il bambino alla sua destra e inghiottì a
vuoto, ancora scosso per lo spavento preso. Piccolo, sui dieci anni al massimo,
il ragazzino gli camminava affianco, fissando un punto indefinito davanti a sé.
- E tu saresti? – chiese
Daniele, cercando di riprendersi, fissandolo truce.
- Fonzie – rispose il
ragazzino, spingendo più a fondo le mani nelle tasche della giacca di pelle.
- Quello di Happy Days? –
- Esattamente. Non sono identico?
–
Daniele ridacchiò, scuotendo piano
la testa e guardandolo con la coda dell’occhio.
- Sei biondo – ribatté poi,
scompigliandogli la chiara capigliatura con una mano. – Fonzie non era
bruno? -
- Dettagli – soffiò il
ragazzino, sbuffando ed allontanandosi di un passo.
- Se lo dici tu – mormorò
Daniele, fermandosi giacché il gruppo aveva raggiunto una nuova casa.
- Sai cos’altro dico?
–
Daniele non rispose, il capo
reclinato all’indietro per cercare di vedere le stelle che non guardava
da troppo tempo. Sentiva i pensieri che gli si accalcavano nella testa,
immagini che si susseguivano: un’Audi aspettata da tempo e che ora
sembrava quanto mai vicina, la scuola che lo tartassava, i genitori che…
- Dico che dovresti tenere
d’occhio la fatina -
Daniele inarcò le sopracciglia,
abbassando la testa per guardare il ragazzino:
- Cos… -
Lo spazio prima occupato, ora era
completamente vuoto. Daniele girò su se stesso, cercando quel giacchetto di
pelle nero con cui prima stava parlando. – Fonzie? Dove sei finito?
–
Continuò a cercarlo con gli occhi,
dimenticando il gruppo che stava seguendo e che era scomparso alla fine della
strada. Fu allora che ripensò alle parole dette dal ragazzino in nero: “
Tieni d’occhio la fatina”
Daniele riprese a camminare,
affrettandosi a girare l’angolo per raggiungere gli altri.
Camminava a passo veloce, la
parola “fatina” che gli rimbombava per qualche motivo nella testa.
Di primo acchito aveva pensato a Trilli, a Sofia… e senza rendersene
conto aveva sentito quell’ansia che saliva. Non ce n’era motivo, lo
sapeva bene. Eppure ancora una volta annaspava.
Girò l’angolo rischiando di
inciampare nei suoi stessi piedi. Si ritrovò sulla strada principale, metri e
metri pieni di zombie, girasoli, mele e cani parlanti… un numero
apparentemente esorbitante di costumi. Si fece largo tra la folla, cercando con
gli occhi un punto di riferimento: che fosse Rossana, Sofia o anche Fonzie.
Continuava ad annaspare.
Perché non li vedeva? Che diavolo di fine potevano aver fatto?!
- Daniele? -
Si voltò di scatto,
incredibilmente sollevato dal sentire quella vocetta conosciuta. Sorrise,
trovandosi davanti Rossana già aggrappata alla sua felpa. Guardò alle spalle
della bambina ma non vi trovò la fatina.
- Daniele! Marco dice che è da
stupidi aver paura del buio – si lamentava la bimba, gli occhi umidi che
minacciavano il pianto – Diglielo che non è da stupidi! Perché non lo è
vero? -
Daniele scosse la testa, sperando
di darle ragione. Non aveva davvero sentito le parole della sorellina, la testa
piena di troppi pensieri. A riportarlo in sé furono gli occhi sempre più
liquidi, impossibili da ignorarsi.
- Sono una stupida? – chiese
ancora la bimba, sconsolata come non mai.
- No. Certo che no – rispose
Daniele, lo sguardo finalmente concentrato. – No, che non sei una stupida,
Rossy. – aggiunse, sorridendole indeciso.
Lei rispose al sorriso,
illuminandosi in volto e dimenticando rapidamente la tristezza.
- Hai avuto buoni dolcetti? -
s’informò Daniele, camminandole al fianco.
- Abbastanza. Nessuno però mi ha
ancora dato una Rossana – piagnucolò lei, scavando con le manine nel
cestello colorato. – E’ la mia caramella preferita, sai? Perché è
dolce e si chiama come me –
Daniele guardava distratto nel
cestello della sorellina, quando con la coda dell’occhio individuò un
giubbino di pelle che svoltava in una stradina laterale. Il ragazzo sentì un
brivido lungo la schiena, fermandosi piano.
- Rossana – mormorò,
poggiando una mano sulla spalla della bimba – Sai dov’è quel
ragazzo con cui stavo parlando prima? -
- Quale ragazzo? –
- Era vestito di nero, un
giacchetto di pelle… biondo, piccolo. Parlavamo poco dietro di voi
–
La bambina scosse la testa,
stringendosi nelle spalle.
- Non lo so. Credo di non
conoscerlo -
- E Sofia? – chiese Daniele,
improvvisamente agitato, scuotendole piano la spalla – Sofia
dov’è?! –
Rossana rise, distratta da quattro
principesse che la chiamavano dalla casa vicina. Si stava già allontanando,
diretta dalle amichette, quando si ricordò di rispondere al fratello:
- Ha detto che doveva incontrare
Capitan Uncino -
Daniele corrugò le sopracciglia,
preso in contropiede da quella risposta inaspettata. Chi doveva incontrare?
Strinse le labbra, spingendo le
mani nelle tasche. Non gli piaceva, per niente.
Non gli andava bene che
Sofia se ne fosse andata, così come non gli era mai andato a genio Capitan
Uncino. Che poi, non era proprio lui a uccidere Trilli? Scosse la testa,
cercando di non perdere di vista Rossana: almeno una avrebbe dovuto riportarla
a casa.
Daniele sospirò, dandosi dello stupido:
che doveva fare? Lasciò che i pensieri andassero a ruota libera, sfiorando le
zucche, urtando il principio di Archimede, soffermandosi sulla macchina che
avrebbe avuto.
Fu durante quel giro panoramico
che lo rivide. Solo di spalle, nella stradina alla sua destra, ma lo vide. Ne
era certo. Deglutendo a vuoto, senza pensarci sopra due volte,
s’incammino verso il fantomatico giubbino di pelle. Quando ebbe raggiunto
la stradina, mal illuminata e silenziosa, la giacca non c’era più.
Sapeva di star sbagliando e forse
proprio per quello continuò a camminare.
Percorse l’intera stradina,
sbucando nella piccola piazza. Si guardò attorno, il respiro che si condensava
in una pallida nuvoletta davanti ai suoi occhi. Stava per girare i tacchi,
deciso a tornare da Rossana, quando sentì la risata: piccola, quasi un soffio.
Eppure la sentì. Proveniva dal fondo della piazza, dal piccolo parco giochi in
disuso: quello con l’altalena rotta e lo scivolo rovinato.
Iniziò a camminare molto
lentamente.
Giocava con le ombre, cercando di
muoversi piano, silenziosamente. Il respiro controllato, gli occhi che si
abituavano al buio. Notò la macchia di color verde brillante solo dopo parecchi
minuti e la riconobbe come il vestito da Trilli solo dopo una manciata di
secondi.
La prima cosa che aveva
riconosciuto era stata la risata di Sofia. Ora ne vedeva chiaramente i tratti
del viso: seduta sul bordo di una panchina sorrideva, gli occhi fissi sulla
figura che aveva di fronte. Daniele aguzzò la vista, cercando di capire se
davvero era Capitan Uncino quello con cui parlava Trilli. Fermandosi a qualche
metro di distanza dovette ammettere che sì, era proprio un pirata il ragazzo
che intratteneva sua sorella.
Avrebbe voluto raggiungerli,
afferrare Sofia per un polso e riportarla sul corso, in mezzo alla gente.
Avrebbe voluto che quel pirata
smettesse di guardarla in quel modo.
Avrebbe voluto comportarsi da
fratello maggiore.
Non lo fece però, bloccato dalle
parole che sentì.
- Perché hai accettato, allora? -
- Ti giuro che non lo sapevo! Non
esce mai dalla sua stanza, come potevo mai immaginare che sarebbe venuto a fare
dolcetto o scherzetto? Devono averlo costretto mamma e papà –
- Ha detto qualcosa? –
- Non si è nemmeno accorto che
venivo qua –
Una risata, diversa. Roca,
profonda.
- E’ un idiota tuo fratello
-
Daniele s’irrigidì. Gli
occhi che si chiudevano, cercando invano di reggere il colpo.
- Proprio un idiota. Come puoi
essere imparentata con uno del genere? -
- Zitto –
Daniele si aspettava di tutto. Qualunque
cosa. Meno che quello.
- Solo io posso chiamarlo idiota.
Come ti permetti? Non provare mai più ad insultarlo, hai capito? -
- Dai piccola, non ti scaldare!
Scherzavo, che diavolo! –
- Non mi piace quando scherzi su
queste cose – rispose lei, alzandosi in piedi e facendo per allontanarsi.
- Ma che, te la sei presa? –
rise lui – Solo perché ho dato dell’idiota a tuo fratello? –
Sofia gli aveva dato le spalle ma
a quelle parole si girò di nuovo per fronteggiarlo, incollerita come mai.
- Non provare più a ripeterlo
– sibilò, i denti serrati.
Il pirata rise ancora, muovendo
qualche passo verso di lei. Si mosse rapidamente, afferrandole il braccio per
impedirle di allontanarsi ancora. Avvicinò il viso a quello della ragazza,
sorridendo con cattiveria.
- Io dico quello che mi pare -
Sofia cercò di liberare il braccio
dalla stretta ferrea del giovane, inutilmente. Scalciò, senza colpirlo.
- Non ti agitare, fatina –
rideva, lui – Non ti va di giocare? -
- Lasciala –
La scena s’immobilizzò
all’istante.
Come se le parole di Daniele
avessero avuto il potere di fermare il tempo.
Poi si voltarono entrambi verso di
lui. Due paia di occhi: uno irridente, l’altro sollevato.
- Che hai detto, scusa? –
chiese il pirata, la voce dura più di quanto fosse invece l’atteggiamento.
Daniele mosse qualche passo verso
di lui: lo superava in altezza, in età e in forza. Lo sapeva lui e lo sapeva
Capitan Uncino. Lo fissò negli occhi. Era sicuro di sé, pronto a colpirlo, a
fargli davvero male.
Lo meritava. E lo avrebbe anche
fatto, bastava un suo cenno, un suo movimento… ma non ci fu. Il sorriso
del pirata si spense piano, mentre le sue dita lasciavano il braccio della
ragazza. Sofia arretrò rapida non appena le fu possibile, portandosi alle
spalle del fratello. Anche il pirata era arretrato, tornando alla panchina,
dando loro le spalle. Daniele continuò a guardarlo, poggiando una mano sulla
schiena della sorella e sospingendola.
Sentì il tremore che la pervadeva
e si avvicinò di più, avvolgendole le spalle con un braccio.
- Va tutto bene -
*
- Come… come hai fatto a… come sapevi
che… -
Daniele sorrise, cercando e
sperando di riuscire a confortarla. La guardò, il viso calmo e rilassato.
- Ti ho visto mentre ti
allontanavi – mentì, stringendosi nelle spalle.
- E mi hai seguita? –
Daniele annuì, stringendo le
labbra e rilassando le spalle alla vista della strada principale.
- Perché? -
- Tu perché sei andata via?
– ribatté lui.
- Dovevo vedermi con quel cretino
–
Daniele ridacchiò, annuendo fra sé
e sé: - E’ un poco di buono, lo sai? –
- Ora sì – rispose Sofia,
accennando un timido sorriso.
Stava per aggiungere
qualcos’altro, quando furono interrotti da un pulcino nero che si fiondò
loro incontro.
- Ma che fine avevate fatto?
– li assalì Rossana – Siete spariti! Mi avete lasciato sola! -
- Scusaci, Rossy – mormorò
Sofia, piegandosi sui talloni.
Daniele annuì, scusandosi
silenziosamente.
- Ci siamo persi qualcosa? -
- Sì – dichiarò eccitata la
bimba – Ho scoperto che Marco ha paura dei ragni! –
Sofia la guardò senza capire: -
E’ un bene? – chiese, incerta.
In quel momento Daniele ricordò
ciò che gli stava dicendo prima e sorrise, intromettendosi nel discorso.
- Certo che è un bene! –
esclamò – Ora non ti può più prendere in giro, vero? -
Rossana saltò su felice, gli occhi
che le brillavano e le gote rosse.
- Esatto! – strillò,
afferrando per mano il fratello e tirandolo con sé.
- Dove andiamo? –
- A fare dolcetto o scherzetto
– rispose lei con ovvietà.
Daniele sentì Sofia che
ridacchiava alle sue spalle e sospirò, fingendosi abbattuto.
- Non ti sei ancora stancata? -
- No! Come fai a pensarlo? –
gli chiese lei, davvero sorpresa – E poi non ho ancora avuto una Rossana
–
Sofia gli si avvicinò
dall’altro lato e lo prese a braccetto, mormorandogli all’orecchio:
- E’ la sua caramella
preferita -
- Lo so – rispose Daniele,
contento di averla presa in contropiede.
Sofia si riprese alla svelta,
pizzicandogli scherzosamente un fianco e rimbrottandolo:
- E sai anche che un ragazzino sta
cercando di attirare la tua attenzione? -
Daniele sobbalzò a quelle parole,
voltandosi di scatto nella direzione che gli indicava la sorella. Strinse gli
occhi, fermandosi sul posto e fissando il bambino: era proprio lui, Fonzie.
Balbettando il ragazzo si scusò, dicendo alle sorelle di andare avanti, perché
le avrebbe raggiunte dopo poco. Loro annuirono, confuse, continuando a
camminare e lasciandolo indietro. Daniele le fissò per un po’, quindi
attraversò la strada, raggiungendo il piccolo demonio. Sentiva una strana
sensazione, qualcosa di diverso dalla solita ansia.
Una sensazione che sembrava
assalirlo sempre e solo in presenza del bambino.
- Si può sapere a che gioco stai
giocando? – gli chiese, aggressivo, guardandolo di sbieco.
- Io? –
- Non fare la faccia
d’angelo: sei tutto fuorché quello –
Il ragazzino sorrise, un sorriso
furbo, saputo:
- Attento alle parole, potresti
arrivare a scomode verità -
Daniele sussultò, sorpreso dal
tono improvvisamente serio del suo interlocutore. Arretrò di un passo, senza
smettere di fissarlo.
- Che stai dicendo? – gli
chiese, sconcertato – Come fai a sparire in quel modo e perché ti
comporti in modo così assurdo? Non è divertente, sai? -
L’altro ridacchiò, sedendosi
sul bordo del marciapiede con nonchalance.
- Quella frase poi! “Tieni
d’occhio la fatina”, si può sapere da dove ti è uscita?
E’ uno scherzo? -
Non ottenendo risposta Daniele
continuò. Sempre più nervoso, il tono di voce che saliva senza che se ne
rendesse conto. Scese dal marciapiede mettendosi di fronte al ragazzino:
l’espressione truce e le braccia conserte in atteggiamento battagliero.
Qualcosa non quadrava. Assolutamente no.
- Se scherzavi, sappi che non è
stato divertente – sibilò, il cervello che faceva gli straordinari.
Come faceva quel tipetto a sapere
che Sofia sarebbe stata in pericolo?
Era stato davvero un avvertimento
il suo? L’aveva davvero guidato fino al parco giochi in disuso?
Daniele chiuse gli occhi sentendo
che la testa cominciava a girargli in maniera preoccupante. Li riaprì solo
quando sentì quell’odore sospetto: ci mise un po’ a mettere a fuoco
la sigaretta tra le labbra dell’altro, troppo sconvolto per riuscire a
realizzare al meglio la situazione.
- Stai fumando? – chiese, la
voce che gli moriva in gola – No, dico: stai davvero fumando? -
Fonzie stringeva la sigaretta fra
due dita: l’allontanò dalle labbra, schiudendole quel poco che bastava a
far uscire una folata di pallido fumo. Gli occhi azzurri sembravano essersi
congelati, fissi in quelli di Daniele.
- Non hai più di dieci anni -
mormorò il ragazzo, la testa che gli si svuotava, stanca di quel gioco.
- L’età è sempre relativa
–
Daniele rise, un ultimo e
disperato tentativo di allentare la tensione.
- Me ne vado – disse,
guardandosi nervosamente alle spalle – Non mi piace avere a che fare con
ragazzini come te. Inquietante, ecco cosa sei. Tu, la tua sigaretta, le tue
frasi e i tuoi occhi. Non fate al caso mio -
- Perché? –
- Te l’ho appena detto
– rispose secco Daniele, dandogli le spalle. Stava per andarsene, stanco
e provato da quell’incontro, quando si decise a fare un’ultima
domanda:
- Come ti chiami? –
La risposta si fece attendere
parecchi secondi.
- Non è nel tuo interesse saperlo
-
Daniele sorrise. Sorrise al vuoto
davanti a sé. Ne era sicuro. Lo sapeva che avrebbe risposto in quel modo.
Spaventoso, ecco cos’era.
Le membra infreddolite, si avviò
lentamente, attraversando la strada con calma.
- Saluta le tue sorelle -
Daniele si pietrificò sul posto,
indeciso se girarsi o no. Sempre quel ragazzino, sempre Fonzie.
Non doveva.
Faticosamente si girò di qualche
grado, lo stretto necessario per guardarlo con la coda dell’occhio.
Era ancora seduto sul bordo del
marciapiede, dall’altra parte della strada. Gli occhi su Daniele.
- Perché? – chiese il
ragazzo, un soffio stentato – Perché non mi lasci in pace? Perché ce
l’hai con loro? -
- Non l’hai ancora capito,
Daniele? –
E ancora una volta, per
l’ennesima volta, annaspava.
- Come sai il mio nome? –
Daniele si girò del tutto,
fronteggiando il bambino. Sorrideva, la zazzera bionda illuminata da un
lampione poco lontano. Sorrideva, mostrando i denti troppo bianchi. Sorrideva,
spegnendo la sigaretta fra due dita.
- Le porto via, Daniele -
- Che stai dicendo? –
sussurrò il ragazzo, chiedendolo quasi a se stesso.
Sentiva lo stomaco che si
contorceva mentre respirare diventava sempre più difficile. Socchiuse gli
occhi, cercando di guardare meglio quel piccolo corpo capace di spaventarlo
tanto. Perché?
- Smetti di sorridere! –
gridò, muovendo un piccolo passo in avanti – Cosa diavolo stai dicendo?
Dove le porti? Quando, come e perché dovresti portarle da qualche parte?! -
Il bambino non aveva smesso di
sorridere un attimo. Quando Daniele si zittì, il respiro affannoso e i pugni
contratti, si alzò in piedi. Infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle,
lanciando uno sguardo alle stelle.
- Devo portarle via con me,
Daniele -
Daniele scosse la testa,
lentamente, socchiudendo gli occhi.
- Non è possibile – mormorò,
a voce così bassa da credere di non essere stato sentito.
- E’ il mio lavoro –
Daniele rise, una risata oscura,
terrificante.
- E cosa saresti? – sbraitò,
ridacchiando convulsamente.
- C’eri vicino prima,
Daniele –
Il ragazzo si zittì, ricordando
senza volere le parole che aveva detto: Non fare la faccia d’angelo:
sei tutto fuorché quello.
- Un angelo? – chiese, un
sarcasmo caustico nella voce.
- Oh, no. Non un angelo –
rispose il ragazzino, smettendo di sorridere – Non il tipo di angelo che
vorresti –
- Non capisco –
- Hai capito benissimo, invece.
E’ arrivato il loro momento, Daniele –
Il ragazzo scosse ancora la testa,
le nocche pallide tanto i pugni erano stretti.
- L’angelo della morte? -
Non ci fu bisogno di confermare
quelle parole.
Daniele lasciò che le braccia gli
ricadessero inermi sui fianchi, gli occhi che si appannavano e la bocca che
s’inaridiva. Annaspava, ma neanche se ne accorgeva.
- Perché? - chiese, lo sguardo
vitreo.
- Devo –
Daniele negò con il capo.
- Perché mi hai portato da Sofia?
Perché mi hai messo in guardia? Perché mi stai dicendo tutto questo?! -
Il bambino non rispose subito,
guardando di nuovo le stelle per qualche attimo.
- Cerco sempre di fare in modo che
l’ultima sera sia speciale – disse – Che non abbiano qualcosa
di cui pentirsi, qualcosa per cui star male. Capisci? -
- No –
- Ti fai troppi problemi, Daniele
– ridacchiò il ragazzino.
Ma Daniele non lo ascoltava più.
Si era girato, guardando la terza casa bianca, quella dal cui vialetto stavano
uscendo una fatina e un pulcino nero. Le osservò: Trilli e Calimero.
Era come se il tempo si fosse
fermato.
- Prendi me -
*
- Daniele! -
Sentì la manica della felpa che gli veniva improvvisamente
tirata verso il basso e sorrise.
- Ti avevamo dato per disperso – mormorò una voce
alle sue spalle.
Si voltò, sorridendo anche a Sofia.
- Mi sono perso qualcosa? -
- Sì! – strillò la
piccoletta che ancora lo stringeva. Daniele finse un’espressione
scocciata e si piegò davanti a lei, così da poterla guardare in viso. Le guance
arrossate, gli occhi luccicanti, Rossana era il ritratto della felicità.
Daniele ridacchiò, prendendole affettuosamente il nasino fra due dita.
- E cosa mi sarò mai potuto
perdere? –
- Guarda, guarda! –
Rossana saltellava, incapace di
trattenere l’eccitazione. Scavava con le manine nel suo piccolo e strapieno
cestello, un’espressione buffa sul viso e la punta della lingua che
spuntava dalle labbra strette.
- Eccola! – esclamò, alzando
vincitrice la mano destra.
Daniele guardò nella manina e vide
una piccola caramella rossa: lunga, sembrava occupare tutta la mano della
bambina. Rossana. Rossana aveva finalmente avuto una Rossana.
- La caramella che volevi? –
chiese Daniele.
La piccola annuì, soffocando una
risata. Lanciò un’occhiata complice alla sorella e poi tornò a guardare
Daniele. Allungò la mano verso il fratello: il palmo all’insù, sembrava
porgergli la caramella.
- Che c’è? -
- Prendila – rispose
Rossana.
- La caramella? –
- Sì –
Daniele scosse la testa, non
riuscendo a capire.
- Non era quella che volevi tanto?
– domandò – Ora perché me la dai? -
- Voglio darla a te –
- Ma è la tua preferita –
ribatté ancora, confuso e sorpreso.
Rossana ridacchiò, mettendogliela
in mano.
- E’ per te – affermò,
gettandogli le braccia al collo.
Daniele in un primo momento rimase
immobile, attonito ed impressionato. Poi strinse la caramella nella mano.
Ricambiò l’abbraccio della bambina, stringendola forte e poggiandole il
capo sulla spalla.
Sentì quel piccolo corpo
abbandonarsi contro il proprio e sorrise, gli occhi che pizzicavano.
- Grazie, Rossy – mormorò,
baciandole i capelli.
Si sciolse dall’abbraccio,
scoccandole un bacio anche sulla fronte.
Daniele si alzò in piedi,
lanciando un’occhiata alle sue spalle. Il sorriso ancora saldo sulle
labbra, si voltò verso Sofia. Lei fissava lo schermo del cellulare, ma sentendo
gli occhi di lui, sollevò lo sguardo.
- Che c’è? – gli
chiese, sorridendo incerta.
- Capitan Uncino è un poco di
buono, lo sai? –
- Sì –
- Gli devi stare lontana, lo sai?
–
- Sì – rispose ancora Sofia,
reprimendo malamente un sospiro esasperato.
- E che ti voglio bene, lo sai?
–
La ragazza trattenne il respiro,
sorpresa. Prima ancora che se ne accorgesse, si ritrovò stretta fra le braccia
del fratello. Dopo qualche secondo ricambiò la stretta, sorridendogli contro la
spalla.
- Tutto bene, Daniele? – gli
chiese, il sorriso nella voce.
Il ragazzo annuì, scostandosi da
lei.
- Devo andare – mormorò,
senza smettere di fissarle.
- Dove? – chiesero loro in
coro.
Daniele sorrise, un sorriso
malinconico ma sicuro. Reclinò la testa all’indietro, lasciando che lo
sguardo si perdesse fra i miliardi di stelle che coloravano il cielo nero.
Sorrideva, mentre i pensieri scorrevano liberi. Archimede, Rossana, la mummia,
le zucche, Trilli, la giacca, Cleopatra, l’Audi, Capitan Uncino,
Fonzie…
Sorrideva, rendendosi conto che
per la prima volta non annaspava.
- Un angioletto difettoso mi sta
aspettando -
Attraversò la strada, avvolto da
un silenzio che era solo suo.
Sorrideva, raggiungendo senza
incertezza il piccolo Fonzie. Gli scompigliò la zazzera bionda, facendogli
cenno con il viso che era pronto ad andare.
Sorrideva, una Rossana stretta fra
le dita.
Una lacrima che gli rigava la
guancia.
§§§
va
sentito quell'illi, a Sofia. per qualche motivo nella testa. efinito
davanti a sè.