sirem
Nella
vita, penso in quella di tutti, ci sono notti che si possono definire
solo come strane senza riuscire a scendere
più nel dettaglio.
Notti catartiche, fatte di eventi e parole che non potrebbero
esistere alla luce del vivo giorno. Notti rigorosamente in bianco,
almeno in parte, fatte di torpori e sbalzi vividi che restano
intangibili in qualche modo, come stralci di sogni.
Ne
ho già vissuta anche io qualcuna. Certe sono bellissime,
certe
tremende, comunque sempre intensissime. Spero, con questa mia, di
riuscire a restituire un po' dell'atmosfera e delle sensazioni di
quelle notti.
Ci
si può vedere il legame che si vuole, in questa fic.
Volutamente,
non è chiarito e non m'interessa che lo sia. Non
è questo il punto.
Buona
lettura.
Una
notte
“Mi
dispiace.”
Remus
sollevò lo sguardo dalla pergamena di scatto, quasi
sussultando. Si
voltò verso la soglia spiazzato, le labbra semiaperte e gli
occhi un
po' spalancati.
Sirius
se ne stava appoggiato allo stipite, sagoma esangue e filiforme in
controluce. Grazie a Godric aveva finito per lasciarsi convincere a
fare una doccia, dopo il lungo racconto a fiume su quanto accaduto
nell'ultima prova del Torneo Tremaghi che gli aveva propinato senza
nemmeno sedersi, appena entrato in casa – o meglio, appena
precipitatosi in casa abbaiando a tutta birra.
Per
la verità, Remus non aveva capito tutto quanto di quel
concitato
monologo, e non solo perché oggettivamente gli mancavano
alcune
conoscenze pregresse su quanto avvenuto ad Hogwarts nell'ultimo anno:
Sirius parlava a una velocità pazzesca, mangiandosi le
parole e
saltando da un punto all'altro della narrazione come un poltergeist
impazzito, perdendosi talvolta in divagazioni confuse e
farfugliamenti incomprensibili. Lui non aveva potuto far altro che
ascoltare in silenzio quella valanga inarrestabile, incapace di
intervenire, di interromperlo o anche solo di sedersi almeno lui. Il
suo unico riflesso era stato chiudere la porta d'ingresso, tanto
perché qualche passante ficcanaso non avesse l'idea di
chiedersi chi
fosse che pontificava a quel modo nel suo ingresso e andasse quindi
ad allertare Scotland Yard o il Ministero della Magia una volta
riconosciuto il suo scomodo ospite.
Aveva
già ricevuto da Sirius un biglietto sui fatti accaduti, che
gli
annunciava tra l'altro la sua venuta imminente, ma in quello scritto
non era stato preciso e dettagliato quanto narrandoli personalmente.
E il pensiero angosciante dei rischi corsi da Harry, insieme a quelli
che ancora doveva correre, aveva lasciato per qualche momento Remus
intorpidito, quasi trasognato. In tale stato, si era soffermato ad
osservare l'animagus dapprima in una sorta di trance meditabonda, poi
realizzando poco a poco lo stato pietoso della sua persona: una veste
che pareva uno straccio, capelli come filo spinato, barba incolta e
fango persino sulle guance.
“Fatti
una doccia,” erano state le parole sgorgate istintive dalle
sue
labbra.
Sirius
aveva sbattuto rapidamente gli occhi inquieti un paio di volte.
“Eh?”
Remus
aveva scosso piano la testa, ritrovando un barlume di logica.
“Ti
puoi riposare, fare una doccia. Sembri averne bisogno,” aveva
ribadito, pacato e ragionevole.
“Lupin,
hai sentito quello che ti ho detto?” aveva ribattuto Sirius,
animoso.
Lui
aveva sospirato piano.
“Appunto.
Dammi il tempo di digerire le cose. Vai a farti una doccia, io
intanto ragiono un attimo e ti preparo qualcosa da mangiare,”
aveva
insistito meccanicamente lui. Tutt'a un tratto gli era sembrato
importante, continuare quella conversazione davanti a una persona che
sembrasse tale e non somigliasse più che altro a un Inferius.
“Una
doc...” aveva ringhiato Sirius irritato. “Ma
chissenefrega. E non
ho fame. Ma ti rendi conto che...?”
“Sirius.”
L'aveva interrotto, grave. “Sono le otto di sera. Abbiamo
almeno
dodici ore di tempo davanti a noi prima di dover fare qualunque cosa
di utile. E tu devi, devi assolutamente prendere fiato. E io devo
pensare un attimo a questa storia, quindi fammi il favore
di...”
“Ma
Harry potr...!”
“Harry
è vivo e vegeto, e certo non grazie a te. O a me.”
La
sua voce era suonata secca e aggressiva alle sue stesse orecchie, e
aveva ammutolito Sirius di botto. Per una decina di secondi c'era
stato un silenzio glaciale nella stanza, poi Sirius aveva sbuffato
malevolo.
“Bene.
Ok, la doccia. È capitale,” aveva commentato
tetro, voltandosi per
imboccare le scale.
“Intendo
dire...”
“Sì,
ho capito cosa intendi dire.”
“No,
che non hai capito, Sirius.”
L'altro
già stava iniziando a salire le scale, senza più
voltarsi.
“Adesso
sei al sicuro, qui, come lo è Harry a casa sua. Questo
volevo dire.”
“Dove
sta il bagno?”
Remus
aveva sospirato, rassegnato.
“In
fondo a destra. Asciugamani puliti nell'armadio a muro,”
aveva
risposto, forzandosi ad avere un tono disponibile.
Poi
aveva sentito la porta chiudersi, e poco dopo l'acqua che iniziava a
scorrere. Era rimasto fermo per qualche istante ancora, quindi aveva
preso un lungo respiro. Un secondo. E un terzo.
Harry
se l'era vista davvero brutta, aveva vissuto qualcosa di tremendo e
devastante, e Sirius Black stava nel bagno di casa sua a fare la
doccia.
“Tutto
ok,” aveva mormorato tra sé, girando a casaccio
intorno al tavolo.
“Tutto peeerfettamente a posto, Lupin.”
Poi
aveva acceso il fuoco sotto la pentola di gulasch avanzato a cena, si
era seduto allo scrittoio e aveva preso un foglio. Lo faceva sempre,
quando doveva cogitare su qualcosa d'importante. Sin dai tempi della
scuola, il suo metodo per riflettere era sempre stato prendere
appunti di modo da organizzare strutturalmente il filo dei pensieri.
Ed
era appunto immerso in quella salutare attività al risuonare
della
voce di Sirius.
“Scusami,”
diceva.
A
guardarlo lì sulla soglia, pulito e sbarbato, Remus ebbe il
dubbio
che la sua idea dopotutto non fosse stata molto buona: con i capelli
puliti, il viso libero e addosso una veste che doveva aver preso nel
suo armadio, Sirius somigliava un po' di più a Sirius Black,
quello
che conosceva lui. Ma al tempo stesso era così radicalmente
diverso
che quasi faceva male ai polmoni.
Stava
meglio dell'ultima volta che l'aveva visto ma era lo stesso scavato
in faccia, pallido come i morti, tutto ossa e nervi: persino la veste
gli cadeva addosso come ad un ragazzino che prende per scherzo gli
abiti dei genitori; eppure Padfoot era sempre stato più alto
e più
massiccio di lui, spalle larghe e schiena dritta.
Poteva
pesare cinquantacinque chili, forse. O forse no. Forse era solo che
sembrava tanto più esile che da ragazzo.
“Come?”
chiese atono.
Per
un attimo si sentì sprofondare nel terrore. In quattordici
anni si
erano visti un'unica volta, nella Stamberga l'anno prima. Non si
erano pressoché parlati. Ora Sirius era entrato in casa sua
da meno
di mezz'ora e lui non si sentiva affatto preparato ad affrontare
l'argomento della spia, del Fidelius e di quello che era successo a
James e Lily. In un certo senso non aspettava altro dal 1981, ma
così
gli sembrava un po' affrettato,
per quanto paresse un controsenso.
Sirius
scosse piano la testa, mesto.
“Il
tuo lavoro. L'hai perso per colpa mia.”
Remus
lo guardò ancora senza capire, incerto.
“Che...
Ad Hogwarts, vuoi dire?” ipotizzò stupefatto,
sporgendo appena il
capo in avanti.
Sirius
annuì serio.
“Professore
di Difesa,” precisò, con un lieve incurvarsi delle
labbra. “Il
mestiere fatto apposta per te. Mi dispiace, Remus.”
Sembrava
seriamente mortificato e a Remus tutto parve così surreale
che
l'unica cosa che gli riuscì di fare fu scoppiare
freneticamente a
ridere. Il posto ad Hogwarts. Come se fosse quella la cosa
importante, dopo tutto quello che era successo. Era veramente
assurdo.
“Remus?”
azzardò Sirius esitante, non capendo la sua
ilarità improvvisa.
Il
licantropo cercò di smettere di ridere, trattenendo il fiato
per
qualche secondo. Ma appena lo ebbe rilasciato, esplose in un accesso
di risa ancor più violento. Non riusciva proprio a fermarsi.
“Ah...
Remus, ti...stai bene?”
Un
cadavere ambulante sopravvissuto a dodici anni di Dementors si
preoccupava della sua salute, sicuramente quella mentale. Era ancora
più comico, e la sua crisi di riso isterico
s'impennò
ulteriormente. Cercò di fare segno che non era nulla, ma il
viso
cinereo dell'altro non sembrava trasmettere molta convinzione in
merito.
Remus
era una persona calma e controllata, Sirius lo sapeva e se lo
ricordava ancora perfettamente, nonostante tutto. Tuttavia era
consapevole anche del fatto che tutta quella calma e
quell'autocontrollo si traducevano talvolta in esplosioni improvvise.
Come quando l'aveva preso a schiaffoni al suo primo scherzo a Snape
dopo la volta della Stamberga.
Perciò,
e anche perché oggettivamente era sfinito, Sirius rimase
zitto e non
fece niente. Aspettò soltanto che le risate si calmassero e
che
Remus recuperasse un minimo di calma e un po' di fiato.
“F...fa
niente, Sirius,” commentò infine il licantropo,
ancora
ridacchiando. “Non è grave.”
“Perché
ti fa ridere?”
La
domanda scatenò una sua nuova, breve risata, poi Remus
scosse
vigorosamente la testa.
“Ma
che...! Era solo un lavoro! É tutto il resto
che...”
S'interruppe
con un sospiro. Tutt'a un tratto ogni ombra di divertimento era
sparita dal suo viso, lasciando il posto a una altrettanto subitanea
amarezza.
Un
nuovo silenzio, greve.
“Ma
quella cena..?” mormorò Sirius, cupo.
Remus
annuì ripetutamente, alzandosi.
“Ti
ho scaldato questo,” annunciò, avvicinandosi al
fornello su cui
sobbolliva la pentola. “Non è un
granché ma...”
Dietro
di lui, Sirius sospirò profondamente, prima di mormorare
impercettibilmente qualche parola, con appena un filo di voce.
“Mi
dispiace anche per tutto il resto.”
Remus
s'irrigidì perdendo un respiro e impiattò il
gulash come se non
l'avesse sentito, prima di girarsi e poggiare il piatto in tavola.
Sperava che almeno non gli tremassero le mani.
“Tieni...
Un cucchiaio,” aggiunse, aprendo il cassetto delle posate.
Sirius
si sedette in silenzio, prendendo voracemente a mangiare. Sembrava
non lo facesse da settimane, tant'era la foga.
Remus
si accomodò di fronte a lui, esitando per qualche istante.
Una
volta, attaccavano a parlare appena si trovavano nella stessa stanza.
Lo facevano naturalmente, senza stare a pensarci su. Era nella norma,
rientrava nell'ordine delle cose. In quel momento, invece, gli
costò
uno sforzo immenso socchiudere le labbra e tirar fuori la voce,
“Ricominciamo
dal principio. Questa storia della Passaporta al Torneo...”
Sirius
sollevò la testa dal piatto in cui l'aveva quasi immersa e
riprese a
raccontare.
Passarono
quasi due ore prima che avessero sviscerato tutti gli snodi della
vicenda, e altrettante perché analizzassero le conseguenze,
le
implicazioni e una primitiva panoramica delle possibili misure che
potevano essere adottate da Dumbledore. C'erano ancora qualche
milione di cose da dire – la rinascita dell'Order, quale
potesse
essere il loro ruolo – ma la testa di Sirius ciondolava e i
suoi
occhi faticavano a rimanere aperti. Anche Remus era esausto.
“Ti
preparo il letto qua in sala, va bene? Quel divano sembra tremendo,
ma in realtà non ci si dorme così
male,” propose, risolvendosi ad
alzarsi.
Sirius
annuì intontito.
“Non
so, sono abituato a giacigli di un certo livello,”
brontolò
ironico.
Remus
gli recuperò lenzuola, cuscino e coperta, intanto che lui
quasi
s'addormentava seduto, poi sparecchiò mentre quello si
preparava a
dormire.
“Se
hai bisogno di qualcosa sai dove dormo,” concluse, esitando
sulla
porta.
Sirius,
annuì catatonico, già infilandosi sotto le
coperte.
“Notte”
biascicò.
“Buonanotte,”
rispose Remus imboccando le scale.
Si
mise a letto con calma, assorto. C'erano tante cose da dire, e ancor
più da fare. Era uno di quei momenti in cui aveva la
sensazione che
gli eventi lo sorpassassero, che non ci fosse nessun controllo
possibile e che ogni logica disertasse sistematicamente la
realtà.
Sirius
che dormiva al piano di sotto, sul divano. Sembrava incredibile,
qualcosa che esulava dal possibile. Una volta, quand'era ragazzino,
c'era stato un periodo in cui Sirius Black era stato per lui la
persona più importante che avesse mai solcato il suolo
terrestre.
Lui, James e Peter avevano costituito tutto il suo mondo, le sue
morbide certezze. I suoi amici. Poi, per tredici anni, il pensiero di
Sirius era stato il veleno delle sue notti e il rammarico delle sue
giornate, per tredici anni la ferita accomunata a quel nome e quel
viso l'aveva fedelmente accompagnato ricordargli ogni giorno
l'immagine sorella di James. Tredici anni di astio, rabbia, sgomento
e rimpianto, tredici anni di odio e nostalgia, e insieme di dolore
per la morte di James.
E
infine Remus aveva scoperto la verità. Il sollievo era stato
vertiginoso, ma insieme era venuto il risentimento. Per la fiducia
tradita, per il sospetto, per la stupidità e
perché in fondo
rimaneva comunque colpa di Sirius. Era orribile, dal momento che
aveva fatto tutto per James, ma la sua morte rimaneva in buona parte
una responsabilità sua. Remus non se lo poteva dimenticare.
Non
riusciva a dormire. Impiegò tantissimo tempo per prendere
sonno,
agitandosi tra pensieri a scroscio, e quando poco a poco
riuscì a
placarli e cominciò ad abbandonarsi alla stanchezza,
perdendosi
nella confusione che precede l'abbandono, dovevano essere quasi le
tre di notte.
E
sentì bussare alla porta della stanza.
Sollevò
di scatto la testa dal letto, voltandosi indietro con ritrovata
lucidità.
“Sirius?”
mormorò.
L'uscio
si socchiuse, poi la testa dell'animagus fece capolino con
incertezza. Rimase per qualche istante lì, in silenzio.
Aveva la
faccia gonfia e abbottonata, doveva essersi appena svegliato.
“Dimmi,”
l'invitò Remus, la voce arrochita dallo stordimento.
Sirius
non parlò ancora, decidendosi ad entrare nella stanza. Aveva
in mano
il cuscino e sembrava quasi a disagio, vergognoso. Solo dopo un po'
prese fiato.
“Occupo
poco spazio,” borbottò impacciato.
Remus
impiegò qualche secondo a capire, poi spalancò la
bocca sorpreso.
“Ma
certo. Vieni. È così scomodo quel
divano?” replicò cordiale.
Sirius
scosse la testa, tuffandosi sotto la coperta.
“No,”
rispose, allungandosi proprio sull'orlo del materasso. “Ma,
basta.”
Basta
cosa, Remus non glielo chiese. Non ce n'era bisogno, perché
lo
capiva benissimo anche lui. Dopo quattordici anni di isolamento dal
mondo, c'era di che dire basta alla solitudine.
In
un certo senso era lo stesso per lui.
Sirius
riprese sonno quasi istantaneamente, il suo respiro si fece pesante
nel giro d'un paio di minuti. Anche Remus non impiegò molto
ad
addormentarsi. Quel suono regolare proveniente dalla sua destra
–
un suono che l'aveva accompagnato in innumerevoli notti, in un
passato lontano - lo cullò senza che nemmeno se ne
accorgesse,
trasportandolo nel mondo di Morfeo.
Si
risvegliò di soprassalto che albeggiava. Scorse una luce
pallidissima penetrare dalle imposte e riconobbe immediatamente che
dovevano essere le cinque e mezza del mattino, grossomodo. Si
rotolò
sul fianco, scoprendo così che il lato destro del materasso
era
vuoto: Sirius non c'era più.
Si
tirò a sedere aggrottando la fronte, sorpreso. Il suo primo
pensiero, conoscendo il soggetto, fu che quell'incosciente di una
testa calda per qualche motivo fosse uscito, nonostante tutto quel
che rischiava. Poi gli venne in mente che poteva anche solo essere in
bagno, o a bere dell'acqua in cucina. Dopo aver aspettato qualche
minuto, però, non poté evitare di alzarsi per
andare a controllare.
Sirius
non era in bagno, ma effettivamente non era nemmeno uscito. Lo
ritrovò seduto su quello stesso divano che aveva disertato
qualche
ora prima, rannicchiato e perfettamente sveglio.
“Sirius?”
L'animagus
voltò lentamente la testa verso di lui. Per qualche secondo
sembrò
persino non vederlo, o non riconoscerlo. Poi gli fece un cenno.
“Che
ci fai sveglio?” chiese a mezza voce, anticipando la sua
domanda.
“Potrei
chiedere lo stesso a te,” ribatté Remus
raggiungendolo sul divano.
“Niente, mi sono riscosso un attimo e non c'eri,
così sono venuto
a vedere,” spiegò poi, con un mezzo sbadiglio.
Aspettò
in silenzio per qualche secondo, sperando in un'analoga
delucidazione.
“Mi
sono dovuto alzare. Non riesco a dormire bene, ultimamente.”
Sirius
ridacchiò piano, senz'allegria. “Sai, negli ultimi
quattordici
anni,” rettificò, con un'ironia rabbiosa.
Remus
non trovò nulla da rispondere, lì per
lì. Rimase silenzioso e
assorto, mezzo addormentato.
“Torna
a letto, Remus,” gli suggerì l'animagus.
“Sopravviverò anche a
questa notte. Sopravvivo a tutte.”
Il
licantropo annuì distrattamente.
“Dovresti
sforzarti di dormire anche tu,” rispose poi, mite. Scorse la
piega
amaramente sarcastica delle labbra dell'altro, intuendo le sue
successive parole, e allora mentì tranquillamente, senza
pensarci.
“Comunque è passato il sonno anche a me.”
Sirius
scosse le spalle con noncuranza. Il suo sguardo, come quando lui era
entrato nella stanza un attimo prima, tornò a posarsi
fissamente
sullo spigolo della parete, a sinistra. Remus non era affatto sicuro
di voler sapere cosa stesse vedendo.
“Ti
va se metto su il tè?” propose, cercando se non
altro di
dimostrarsi effettivamente sveglio.
Sirius
non spostò neppure gli occhi.
“Earl
Grey,” precisò distrattamente.
“Sì,
Milord,” confermò Remus con un sorriso
canzonatorio. Certi ceffi
la boria l'avevano proprio nei geni, ne dedusse. “Immagino
che un
altro tipo di tè disdegnerebbe il tuo stomaco abituato alle
migliori
raffinatezze,” aggiunse alzandosi.
“L'hai
detto, Moony.”
La
voce di Sirius era remotamente divertita. Ma soprattutto eccolo
lì,
odiato e benedetto, quel soprannome che era tutta la sua storia. Gli
strappò un sorriso, letteralmente glielo strappò
in modo
brusco e quasi doloroso.
“Lo
sai che le so tutte, Padfoot,” cercò di scherzare
ripetendo una
delle frasi con cui erano soliti stuzzicarlo gli altri Marauders,
secoli prima, mentre s'avvicinava i fornelli.
Non
lo sentì muoversi nemmeno di sfuggita: semplicemente le
braccia di
Sirius improvvisamente lo strinsero da dietro, spasmodiche,
serrandolo contro il torace dell'animagus alle sue spalle. Rimase
immobile, rigido, senza neppure respirare. Anche alla Stamberga
s'erano abbracciati: era stato un gesto spontaneo nato dallo
sbalordimento e dalla foga irreale del momento. Ora invece era tutto
tangibile, concreto. Quella era la cucina di casa sua, la sua mano
stringeva l'impugnatura del bollitore, c'era il silenzio dell'aurora
e Sirius lo abbracciava. Era diverso.
Quel
suo momentaneo stand-by emotivo dovette essere interpretato come
fastidio, o rifiuto, e già la stretta si allentava. La mano
di Remus
lasciò il bollitore e insieme alla gemella si
posò su quegli
avambracci striminziti, mentre il corpo del licantropo ruotava per
ricambiare l'abbraccio. Dovevano essere ben ridicoli dall'esterno,
due omaccioni grandi e grossi abbracciati tra le pentole.
C'erano
troppe cose da dire. Troppe scuse da fare, troppi rimpianti da
esternare, troppe spiegazioni da dare. Troppe.
Era
meglio un abbraccio, e il silenzio.
Lo
stesso silenzio che rimase a mezz'aria, tiepido, quando i loro corpi
si allontanarono quasi con imbarazzo, e Remus tornò a
dedicarsi al
tè, Sirius girellò intorno al tavolo e poi
riconquistò la
postazione sul divano, aspettò che lui lo raggiungesse
facendo
svolazzare le tazze a mezz'aria. Il silenzio restò
lì,
confortevole, mentre sorseggiavano lentamente la bevanda bollente,
fianco a fianco. Bastava quello, e qualche sguardo obliquo che si
faceva sempre meno circospetto da tutt'e due i lati, le labbra di
Remus che si arcuavano verso l'alto e il viso di Sirius che
riscopriva l'uso di muscoli dimenticati in un sorriso minimo ma
disteso.
Il
silenzio.
Lo
stesso silenzio che salutò il socchiudersi delle palpebre di
Remus
nel sole pieno del mattino, senza che si fosse accorto di averle
chiuse. Era tutto storto di lato, mezzo incastrato tra il corpo
stravaccato di Sirius e e il divano. Sbadigliò stupito,
erano le
nove passate. Quando mosse il braccio Sirius sbuffò,
spalancò a sua
volta le fauci e sbatté gli occhi ancora assonnati. Non
s'era reso
conto di essersi addormentato di nuovo.
Poi
fece un regalo al mondo, o qualcosa del genere. Storse
le labbra e arricciò appena il naso, malandrino.
“Si
batte la fiacca, Moony?” esordì roco.
Remus
appoggiò la testa indietro, ridacchiando leggero.
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