l'ultimo sorriso, l'ultima lacrima
L’ultimo sorriso, l’ultima lacrima
Chi aveva detto che le principesse erano sempre felici?
La piccola Jildel non lo capiva.
Non capiva perché era dovuta andare ad abitare al palazzo reale,
tantomeno il perché i suoi genitori non potevano stare con lei.
La piccola Jildel era triste, sola
e annoiata. Non c’era nessuno che giocasse con lei, nemmeno il
principe, che sebbene fosse la sua promessa sposa, non la degnava mai
di uno sguardo, preferendo la compagnia di altri adolescenti come lui.
E la piccola Jildel era solo una bambina.
Spesso sgattaiolava fino al balcone
della torre est, quella in cui non si poteva andare, perché
riservata alla regina e alle sue dame. Ma la regina era buona con lei,
e pur sapendo delle sue scappatelle non la sgridava mai.
E così, Jildel, piccola
principessa sola, passava lunghissimi minuti a osservare i bambini
della piazza giocare, quelli che la invidiavano.
Quelli invidiati da lei.
Un giorno, la piazza era diversa dal solito. Più chiassosa, più gioiosa e colorata.
In città era arrivata una
compagnia di girovaghi: cantastorie, giocolieri, maghi e attori, che
con i loro canti, i loro trucchi e i loro scherzi divertivano la folla
in cambio di poche monete.
L’allegra fiera
conquistò il cuore della bambina, che si sporse più del
solito, arrampicandosi sulla balaustra di pietra. Ma era
un’azione pericolosa, e subito la badante che la seguiva
intervenne, tirandola dentro per la vita.
La principessina cominciò a
dimenarsi, non volendo abbandonare quello spettacolo, e
nell’agitazione della lotta, la sua bambola di pezza preferita,
quella con l’abito di seta azzurro, i boccoli biondi e il
cappellino con la retina, cadde giù, in mezzo alla gente, sulla
strada.
Jildel si disperò, pianse e
pianse in direzione del giocattolo, finché, prima di esser
riportata nelle sue stanze, non vide avvicinarvisi un bambino.
Era un bambino molto strano, a dire
il vero. Indossava dei pantaloni grandi, enormi, così larghi che
di lui potevano starcene in tre, là dentro. Una camiciona blu a
quadri e un fazzoletto rosso legato al collo completavano il suo
abbigliamento inusuale.
Ma la cosa più strana era il viso.
La faccia era tutta bianca. Solo un
grande sorriso rosso, e una lacrima e una stella blu disegnate sulle
guance spezzavano quel candore.
Fu questo bambino strano a
raccogliere la bambola e a guardarsi attorno in cerca della
proprietaria. Poi, sentendo i pianti di Jildel, alzò la testa, e
per un attimo la piccola principessa poté guardarne il volto per
bene.
Sembrava quasi che la stesse prendendo in giro, con quel suo sorriso beffardo, mentre si allontanava con il giocattolo.
Per la piccola Jildel era crollato il mondo.
L’unico suo tesoro, l’unica sua compagna di giochi era stata portata via da uno sconosciuto.
Ovviamente una principessa poteva
avere tutte le bambole che desiderava, ma quella era speciale. Quella
era l’ultimo regalo della mamma, e ora che non l’aveva
più, era come se davvero non fosse più parte della
propria famiglia.
La piccola Jildel pianse, pianse e pianse.
La badante si sentì in colpa
per averla trascinata via così brutalmente, e ne parlò
con la regina, che ebbe un’idea. Perché non invitare la
compagnia a palazzo, per deliziare i nobili della corte e far tornare
il buonumore alla principessina?
E così fecero.
L’indomani, nella grande sala
del banchetto, le musiche esotiche e vivaci dei menestrelli allietarono
i commensali, mentre le acrobazie dei saltimbanchi li stupirono e
meravigliarono. All’aperto vennero intrattenuti con le evoluzioni
degli equilibristi e l’abilità dimostrata nell’uso
del fuoco, mentre i maghi suscitarono stupore e dubbio facendo
scomparire oggetti, indovinando i pensieri degli spettatori e
incantandoli con i loro giochi di destrezza.
La piccola Jildel finalmente sorrise.
Vedere tutte quelle meraviglie da
vicino aveva allontanato la sua malinconia, e per un po’ si
dimenticò totalmente della perdita subita.
Poi arrivarono i pagliacci. Buffi
ometti vestiti con abiti sformati dai colori sgargianti, con il viso
dipinto e i modi allegri. Invasero la scena, cominciando a lanciarsi
palline, corde, clavette, facendole girare, volteggiare, rotolare,
senza mai tenerle in mano più di un paio di secondi, e senza
lasciare che toccassero terra nemmeno una volta.
Entrò nel gruppo un altro piccolo pagliaccio, e Jildel sentì un groppo formarsi alla gola.
Eccolo lì il ladro.
Eccolo lì colui che l’aveva derisa mentre la derubava di ciò che aveva di più prezioso.
Voleva mettersi a gridare, dire alle guardie di arrestarlo, svelare il suo misfatto. Ma non riusciva.
Era difficile parlare, ora che il
suo nemico era a portata di mano. E poi i grandi non prendevano mai sul
serio i problemi dei più piccoli, difficilmente avrebbero
acconsentito ai suoi capricci vendicativi.
Quindi si costrinse a osservare in silenzio.
Il bambino, nonostante la giovane
età, era davvero molto bravo e agile. Non perdeva mai un pezzo,
e si divertiva a mettere in difficoltà i colleghi adulti,
combinando scherzi e marachelle che suscitavano l’ilarità
del ricco pubblico.
All’improvviso si tolse
l’ampio fazzoletto rosso dal collo e lo lanciò in aria,
catturando una palla colorata. Prese al volo l’involto e si
avvicinò alla piccola principessa.
Inchinandosi teatralmente, tolse la copertura all’oggetto e lo offrì a Jildel.
La bambina non poteva credere ai
suoi occhi. Dalle mani del piccolo pagliaccio, ecco comparire un
abitino azzurro, un cappellino con la retina e una cascata di boccoli
biondi.
La sua bambola era tornata da lei per mano di un cavaliere in miniatura vestito a festa.
Nei giorni seguenti, i teatranti
tornarono spesso per delle rappresentazioni a corte, così la
piccola Jildel ebbe finalmente un compagno di giochi.
Ogni pomeriggio, infatti, il
cavaliere-pagliaccio rimaneva a farle compagnia, e i due correvano,
saltavano, si rotolavano sull’erba morbida del giardino.
Ogni giorno un nuovo gioco, ogni
giorno un nuovo mondo da esplorare e nuovi eroi da interpretare. Quelli
furono i momenti più gioiosi da quando la principessina era
arrivata a corte: non si sentiva più ignorata, non più in
trappola.
La piccola Jildel non era più sola.
Anche quando la compagnia girovaga
aveva concluso la sua permanenza alla capitale del regno, non pianse
all’idea di non poter più passare il tempo con il suo
nuovo amico.
Perché lei aveva letto tante favole, e sapeva. Sapeva che il cavaliere tornava sempre dalla sua principessa.
E lei avrebbe aspettato il ritorno del suo.
Passarono quattro estati.
Il re, ormai anziano, spirò in una notte d’autunno, lasciando il trono al principe, di appena diciannove anni.
Passarono cinque autunni.
La regina raggiunse il consorte nel
regno della seconda vita, non molto tempo prima del matrimonio tra la
giovane principessa Jildel e il nuovo sovrano.
Passarono sei inverni.
La principessa compiva sedici anni, e finalmente poteva essere incoronata come nuova regina.
Passarono sette primavere.
Una compagnia di artisti girovaghi arrivò in città.
Un giovane alto e snello, dai
pantaloni larghi e marroni, un fazzoletto rosso al collo e una camicia
a quadri blu, si ritrovò a gironzolare per il mercato, senza
avere idea di come ci fosse finito. Sentendo parlare due mercanti a
proposito della famiglia reale, si avvicinò a loro,
intromettendosi nel discorso.
- Perdonate il disturbo, ma sono
almeno sette anni che manco da qui, e vorrei sapere se foste
così gentili da aggiornarmi sulla situazione.
I due uomini si scambiarono un’occhiata perplessa di fronte al viso dipinto del ragazzo.
- Di’, ma non leggi i
proclami? – rispose l’uomo barbuto – Tre anni fa il
re è passato a miglior vita, e il principe ha preso la corona.
- Oh, ehm… e la regina?
Questa volta fu l’altro a
rispondere, quello con una pelata così lustra che si poteva
usare come specchio ustore… o almeno questa era stata la prima
impressione del ragazzo.
- Se n’è andata
l’anno dopo. Ora c’è la nobile Jildel a prendere il
suo posto… anche se devo dire che un po’ la compatisco,
poveretta.
- Eh, già… non deve essere molto felice in una situazione simile.
- Cosa vuol dire questo? – a
dispetto dell’enorme sorriso disegnato sulla sua bocca, ora
l’espressione del giovane era tutt’altro che gioviale. La
preoccupazione che traspariva dai suoi occhi era sincera, e i due
mercanti gli spiegarono la situazione.
Il re non era affatto fedele alla
bella consorte, e più o meno tutti, in città, erano a
conoscenza delle sue relazioni con altre dame della corte. Si
raccontava addirittura che non ce ne fosse una che non fosse passata
dal suo letto, almeno una volta.
Mentre la povera Jildel, raramente
veniva addirittura considerata. Sarà perché la vedeva
ancora come una bambina, o perché non l’amava
affatto… ma certo era che lei doveva soffrirne molto.
Il suo carattere mite, però,
la tratteneva dal protestare in qualsiasi modo, e perciò era
divenuta una sorta di beniamina del popolo, uno stoico simbolo di forza
interiore.
- Tutte le dame… quella corte è come una sorta di harem!
- Un che? – i due
commercianti non avevano mai sentito una parola simile. Il ragazzo si
trovò in difficoltà a dover spiegare il significato di
qualcosa di cui lui, avendo viaggiato in molti regni, anche totalmente
differenti per usanze e tradizioni, dava quasi per scontato la
conoscenza.
Si grattò la testa incerto.
- Bè, un harem è… mah, lasciate stare, è meglio. Grazie per le informazioni!
Si allontanò dalla
bancarella avviandosi verso la piazza centrale. Una volta arrivato
alzò gli occhi verso la torre est, quella in cui abitava la
regina, e tentò di intravederne la figura, senza risultato.
Poi tirò fuori dalla manica
la mela che aveva sottratto ai suoi informatori, le diede un morso e si
riunì ai suoi compagni.
Quella sera il palazzo era in
fermento. Non solo si sarebbe festeggiato il ventiduesimo compleanno
del re, ma per l’occasione era stata programmata
l’esibizione degli stessi artisti che sette anni prima avevano
lasciato a bocca aperta tutta la corte.
L’unica che forse non
attendeva con ansia quel momento, era proprio la giovane Jildel, che
dello spettacolo di quel tempo aveva continuato a custodire gelosamente
il ricordo. Ma col passare dei mesi, quel ricordo era divenuto
doloroso: ogni anno attendeva il ritorno di quel piccolo pagliaccio che
le aveva donato così tanta gioia e serenità.
E ogni anno era rimasta delusa dal non vedere arrivare nessuno a riempire quella piazza così… grigia e normale.
Crescendo si era data della sciocca
per quella frenesia, per quell’eccitazione che ad ogni musica
proveniente dal balcone la coglieva. Cosa sperava? Di poter continuare
a comportarsi come una bambina? Di poter di nuovo giocare con un
ragazzino di strada?
Lei era una principessa, lei non poteva.
E ora era una regina, lei non doveva.
Dopo il banchetto, prima dei balli, all’ora dell’esibizione la regina uscì.
Uscì nel giardino, suo mondo
incantato, che all’occorrenza era divenuto un’isola
deserta, una caverna cristallina, un bosco magico, un labirinto
inestricabile.
Ora era solo un giardino.
Vasto, pieno di fiori, di piante, di luoghi di riposo e fontane. Ma pur sempre un giardino.
Dov’era finita quella
fantasia che le permetteva di sognare? Dove quell’entusiasmo che
la spingeva a inventare vicende sempre più strane e intricate?
Non c’erano più.
Non c’erano più, e
allora l’acqua che si raccoglieva nella vasca in marmo rosa non
le sembrava più un mare abitato da sirene e serpenti marini, ma
semplice liquido.
Le panchine non erano più le selle di un drago, e gli alberi non erano le torri di un altissimo castello fatato.
Si sedette sulla superficie liscia delle rive del suo mare in miniatura, sospirando ai giorni perduti.
- E’ una magnifica serata per osservare le stelle, non trovate, mia regina?
Non si ricordava il nome di quel
nobile. Erano tutti uguali, con lo stesso tipo di abito, la stessa
quantità di gioielli, gli stessi modi esageratamente adulatori.
- Indubbiamente.
- Ma ditemi, non avete interesse nello spettacolo? Eppure ricordo che l’ultima volta vi divertiste assai.
- …non mi piacciono i pagliacci.
- Certo, crescendo i gusti cambiano. – Jildel si fece guardinga, quando il nobile si sedette vicino a lei. Troppo vicino.
- Devo ammettere che eravate una bambina deliziosa. E ora siete una giovane donna molto affascinante…
Jildel si alzò rabbiosa e schifata al tocco della mano dell’uomo che le sfiorava la spalla.
- Come vi permettete?! State al vostro posto, sono pur sempre la vostra regina!
- Suvvia, vostra maestà. Il
re ha già tante amanti, perché per una volta non siete
voi a divertirvi? - le afferrò il polso, stringendoglielo dietro
la schiena e avvicinandola a sé. La giovane regina tentava di
allontanarlo con la mano libera, ma inutilmente. Era troppo debole per
riuscirci.
- Non osate… non
azzardatevi… - sentiva le lacrime pizzicarle gli occhi, e il
nobile si stava avvicinando sempre più alle sue labbra, quando
all’improvviso si staccò allarmato.
Il suo copricapo era volato via,
sbalzato da una forza sconosciuta. Si guardò attorno e
impallidì quando lo vide conficcato al tronco di un albero da un
pugnale.
Nello stesso istante una voce profonda, ma che rivelava la giovane età del proprietario, irruppe minacciosa nel silenzio.
- Questo era solo un avvertimento, la prossima volta mirerò più basso.
- C-come osi tu, lurido vagabondo! Ti farò incatenare nelle segrete del castello, non uscirai mai più!
- Sparisca subito dalla mia vista e
non osi tornare a corte, o sarà lei a finire i propri giorni in
una cella! – esclamò la ragazza in preda all’ira e
allo spavento. Ora non era più la principessina i cui capricci
non sarebbero stati ascoltati, ora era la regina, e aveva il potere di
fare ciò che desiderava.
Il nobile accolse la frase come la minaccia che era, e si affrettò ad andarsene.
Lei si girò verso il suo
salvatore: pantaloni troppo larghi, una camicia non più tanto
grande a quadrettoni blu, fazzoletto rosso al collo; il viso non era
più bianco, ma rimanevano la bocca rossa, la lacrima e la stella
blu sulle guance. Sorrise.
Il cavaliere-pagliaccio era tornato dalla sua principessa.
Da quella sera era tutto cambiato.
La giovane Jildel sorrideva
più spesso ora, era più spensierata. Non mostrava
più quello sguardo lontano e malinconico con cui era stata
sorpresa a volte.
Perché ora tutto era tornato come doveva essere.
Ogni pomeriggio si recava in
giardino, dove il suo cavaliere colorato le narrava di reami lontani,
di animali strani e religioni arcane. Le raccontava dei pericoli che
avevano dovuto affrontare in viaggio, come quando avevano incontrato i
banditi nella foresta, o erano stati assaliti dai pirati durante un
viaggio in mare.
Le raccontò di quando aveva
imparato a lanciare i coltelli da un guerriero dalla pelle scura come
la notte, ed era salito su una specie di capra senza corna, dal
mantello giallo a macchie marroni e dal collo lungo come una casa.
La giovane regina, dal canto suo,
ascoltava rapita i suoi racconti, sobbalzando quando imitava i versi di
belve feroci e ridendo alle imitazioni dei regnanti.
Passarono così dei giorni felici.
Una sera, al momento della separazione, il ragazzo raccolse il proprio coraggio, esibendosi in un baciamano alla regina.
Jildel si sentì avvampare al
lieve contatto con le labbra di lui. Non si spiegava quella sensazione
mai provata fino a quell’istante. Forse si sentiva male?
Però non le sembrava di avere la febbre e, anzi, si sentiva la
testa leggera leggera, come se potesse fare un salto e toccare le
nuvole, come nei suoi sogni di bambina.
Era il pensiero del suo cavaliere che le scaldava così tanto il cuore?
Si strinse la mano al petto.
Sì, era il suo cavaliere.
Ma la ragazza non era mai veramente
sola durante quegli incontri. Dall’alto delle finestre del
salone, la figura del re la osservava sempre, controllando il suo
comportamento. Era la sua corte, decideva lui come andavano le cose.
Anche lei faceva parte del suo harem personale, lei era sua.
Anche quella volta lui era là, a vedere la sua sposa arrossire per un altro uomo.
A vedere la sua sconfitta.
Ma lui era il re, e il re non perdeva mai.
Il mattino seguente, il giovane pagliaccio non si esibì nel suo numero con i coltelli.
Un drappello di guardie andò
a prelevarlo all’alba, adducendo il crimine di aver oltraggiato
la regina e minacciato un esponente della nobiltà.
La condanna era la morte.
Quando Jildel venne a saperlo, corse subito dal suo re, per chiedere spiegazioni e scagionare il ragazzo.
Ma lui fu irremovibile. Non volle
ascoltare nessuna delle ragioni di lei, e la ricacciò nei suoi
appartamenti con malagrazia.
Per la giovane Jildel era crollato il mondo. Di nuovo. Definitivamente.
Era disperata, si sentiva impotente e colpevole.
Solo per aver dato confidenza all’amico di un tempo, solo per aver… solo per aver amato
l’amico di un tempo, anche se solo per un istante. Solo per
questi futili motivi, ora una vita innocente sarebbe stata cancellata.
La sua vita innocente.
Pianse. Pianse come non mai,
più di quando aveva dovuto lasciare i genitori, più di
quando aveva perso la bambola in piazza.
Ogni cosa era perduta, grigia, ammuffita. Ogni cosa non valeva più nulla.
Si rinchiuse nelle proprie stanze, e non uscì più.
Era giunto il momento.
Non aveva il coraggio di scendere in piazza sul palco reale. L’avrebbe uccisa.
Eppure non poteva abbandonare così il suo cavaliere. Seppur nel momento ultimo, lei doveva esserci.
Fece uscire tutte le cameriere e le
dame di compagnia pettegole. Si portò di fronte al balcone, quel
famoso balcone della sua infanzia, e, dopo un respiro profondo,
spalancò le imposte, uscendo sulla terrazza.
La piazza era piena, gremita di
tutta quella gente che solo il giorno prima acclamava le acrobazie del
ragazzo, mentre ora attendeva ansiosa l’ora della sua morte.
Il banditore proclamò il giudizio e il condannato fece il suo ingresso, diretto al patibolo.
Niente trucco sul suo viso, niente
abiti sgargianti. Quello che camminava verso la morte era solo un
ragazzo come tanti. Magari più interessante, con più
avventure sulle spalle.
Ma un ragazzo, con l’unica colpa di aver osato troppo.
Salì sul palchetto di legno al centro della piazza.
Dopo essersi inginocchiato di
fronte al ceppo, alzò un’ultima volta lo sguardo, diretto
verso la torre est del castello.
Dal balcone una figura tormentata lo osservava trattenendo il proprio dolore.
Delle parole mormorate al vento.
Un sorriso mesto, una lacrima lungo la guancia.
Il boia calò l’ascia.
La regina si accasciò al suolo sconvolta, reggendosi alla balaustra.
L’orrore dipinto sul volto, le lacrime che scorrevano.
Un’immagine nella mente.
L’ultimo sorriso del pagliaccio. L’ultima lacrima del pagliaccio.
Da giorni non mangiava più, non dormiva più.
Le dame erano preoccupate, i signori erano preoccupati, il popolo era preoccupato.
Il re si stufò.
Spalancò la porta delle
stanze di Jildel con un impeto che spaventarono la ragazza, e la
costrinse a seguirlo nella loro sala da pranzo privata.
Le ordinò di mangiare, la implorò di mangiare.
Ma lei non ascoltava. Non aveva più occhi per vedere il mondo, non aveva più orecchie per sentirne i rumori.
Vedeva solo un volto colorato, che sorrideva anche quand’era triste.
Sentiva solo storie di paesi lontani, risate e scherzi.
Vide un coltello.
Non seppe nemmeno lei con che forza
riuscì a sollevarsi e spingere in là il sovrano,
allontanandosi di qualche passo.
Lo vide agitarsi quando prese la lama e se la puntò alla gola.
Lo vide pregarla di non fare pazzie, dirle che l’amava. Finalmente.
Ma non era questo che voleva.
Sorrise dolcemente al ricordo di una bambola che compariva da un fazzoletto rosso.
Una lacrima le solcò il viso al ricordo di una risata.
La lama affondò nel collo sottile.
E il re non dimenticò mai quell’immagine.
L’ultimo sorriso della regina. L’ultima lacrima della regina.
Salve a tutti! Grazie per esservi fermati a leggere!^^
Questa storia si è classificata terza al contest [Original Concorso 9] L'harem e... il pagliaccio indetto
da Eylis, in cui era richiesto l'inserimento nella storia di un luogo
(l'harem) e di un personaggio (il pagliaccio) a cui potevamo dare
l'interpretazione desiderata purché ne mantenessimo intatta
l'idea di fondo.
...ecco, l'harem che ho rappresentato è...piuttosto...anomalo
direi XD
in realtà l'idea iniziale era di ambientare la storia in un
mondo fantasy che avesse le caratteristiche dei regni arabi, e quindi
considerava la presenza di un vero harem.
Ma poi l'idea di un uomo (il pagliaccio) che poteva entrarci
liberamente era decisamente...forzata, se non altro, visto che l'unica
presenza maschile autorizzata era quella del sultano e degli eunuchi.
Quindi ecco cosa è diventato *w*
Per il resto invece, non è cambiato granché XD
Bene, non ho altro da dire se non...spero di piazzarmi bene 8°D
(nonostante non abbia avuto il tempo di ricontrollare e di conseguenza
ho scoperto già due errori di battitura, più....mi son
dimenticata di segnare la lunghezza della storia in parole, ahah
8°D)
EDIT: mi sono piazzata bene. WOOH!!8°°°D
Grazie di nuovo per aver letto!<3
Se vorrete lasciare una recensione mi renderete felice ai limiti della stupidità 8°D
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