Titolo
della : Solo
una volta, un
giorno, un mondo
Personaggi:
Voltaire, Maometto, Gesù e Sòl (l'antica
divinità celtica del
sole)
Generi:
Introspettivo, un po' romantico e lievemente non-sense
Warnings:
La fan
fiction potrebbe
trattare tematiche religiose che qualcuno di particolarmente
sensibile potrebbe giudicare blasfeme. Non mi pare che lo siano, ma
tant'è che la gente tende a diventare insofferente
all'umorismo
cinico quando si tratta di religione.
Note
personali (l'autrice
consiglia
di leggerle dopo
la lettura):
Non
ho mai conosciuto nessuno dei quattro personaggi sopracitati, ma sono
piuttosto sicura che il modo in cui io li ho descritti sia
decisamente distante da qualunque visione... beh, tradizionalista,
ecco. C'è un motivo, ovviamente, se i miei personaggi non
rispecchiano in alcun modo la tradizione: siamo nel 2011, gente.
Nella
mia storia, Maometto e Gesù si sono beccati due millenni,
decennio
più o decennio meno, di tracollo dell'umanità e
di scannamenti fra
cristiani e islamici. Rappresentano la perdita di valori e di
umiltà
del mondo.
Voltaire,
invece, è l'obiettività. Storicamente parlando e
sebbene sia noto
come ateo, Voltaire non lo era affatto. Era deista, ma non volevo
complicare oltre la trama – che potrebbe essere
già di per sé
problematica – quindi vogliate scusarmi qualche licenza
poetica.
Non tutte le sue citazioni sono trascritte alla lettera –
eccezion
fatta per quella di Marlowe ("La
religione è un giocattolo per bambini")
che è una cosa di più. La ragione è,
ovviamente, che volevo
inserirle direttamente in ciò che pensa, dice o fa. Non
volendo
appropriarmi delle citazione di Monsieur Voltaire – non sia
mai! -
riporto qui le citazioni originali.
"Dio
è un commediante che recita per un pubblico troppo
spaventato per ridere".
"Se
questo è il migliore dei mondi possibili, gli altri, come
sono?".
"Una
lunga disputa significa che entrambe le parti hanno torto".
Ci
sarebbe anche una citazione di Gandhi, un po' trasformata da
Maometto, ovvero "Mi
piace il vostro Cristo, non mi piacciono i vostri cristiani. I vostri
cristiani sono così diversi dal vostro Cristo".
Sòl,
infine, è
l'antica divinità celtica del sole. L'ho scelta per due
motivi:
primo, la festa del Natale è storicamente legata alla festa
pagana
del sole; secondo, essendo una dea del sole mi sembrava la
più
adatta a rappresentare, al contrario degli altri, la speranza e la
felicità.
La
canzone, alla fine, si chiama "Light
the candles" e,
con tutta sincerità, non so chi sia l'autore. E
sì, ho barbaramente
(ma letteralmente) tradotto il testo in italiano per motivi di
scorrevolezza. Chiedo perdono, ma tant'è. Anche il titolo
è una
strofa della canzone, naturalmente.
Questo,
ad ogni modo, è
il link su YouTube → Clicca
proprio qui
*
Quando
aprii la pesante porta del bar, il primo pensiero che mi
attraversò
la mente fu che quello non era certamente il più raffinato
dei posti
dove trascorrere la vigilia di Natale. Non che io sia una persona
dalle richieste incontentabili, ma qualcosa di quell'angusto locale
mi aveva infastidito immediatamente. Non avrei saputo dire se fosse a
causa delle opache lampade a neon, dello scolorito velluto del
vecchio biliardo o di quell'aria rancida per le migliaia di sigarette
fumate nel corso dell'ultimo ventennio fra le mura ingiallite. Era
una sensazione che traspirava da ogni cosa – come se il
Natale non
fosse mai arrivato a nascondere la sciatteria di tutto quel
deprimente luridume.
Lì,
fermo sulla soglia e infreddolito dal gelo pungente, avevo soltanto
due certezze: la prima era che Sòl doveva aver pianificato
qualcosa
di molto bizzarro e la seconda era che Gesù se ne sarebbe
lamentato
fino all'anno nuovo.
Al
pensiero delle lagne che il mio amico avrebbe fatto, non potei
trattenere un sogghigno divertito. È un tale bambino, a
volte!
Gliel'abbiamo ripetuto in mille differenti modi, ma non c'è
proprio
speranza che il suo volubile carattere possa migliorare. Non che sia
una cattiva persona, anzi: io e lui ci conosciamo da secoli,
ormai, ma talvolta è davvero intrattabile e tende a
diventare
pedante e a lamentarsi come un ragazzino. Capita spesso di scherzare
dei suoi capricci, alludendo al fatto che al poverino siano sempre
mancate le attenzioni paterne. A quelle frecciatine, in genere,
Gesù
ci mostra il medio e tiene il broncio per i minuti successivi, prima
di riacquistare il suo amabile carattere da intrattenitore.
Nonostante le sue arie da prima donna, tuttavia, posso affermare con
totale sicurezza che Gesù è indubbiamente uno dei
migliori amici
che io abbia mai avuto. Se me lo avessero detto quando ero in vita,
sarei probabilmente raggelato. È incredibile come la morte
possa
mutare le opinioni della gente.
«Voltaire»
proruppe la voce bassa e strascicata di Maometto alle mie spalle.
«Che diavolo ci
facciamo
qui?».
«Hai
una domanda di riserva, per caso?».
«Che
diavolo ci faccio io,
qui?».
Sorrisi
sotto i baffi.
«Stavo
cercando di immaginare la faccia che farà Gesù
non appena vedrà
questo posto».
«Dovresti
vedere la mia, di
faccia, allora» sbuffò indispettito Maometto.
«Oh, va' al diavolo
e scansati, Voltaire. Non ho intenzione di ghiacciare in questo posto
dimenticato da ogni divinità conosciuta».
Mi
scostai di lato e tenni aperta la porta per farlo entrare.
«Smettila
di tirare in ballo diavoli e dei» lo ammonii con ironia.
«Sai
meglio di me quanto possono diventare insopportabili».
Le
sottili labbra di Maometto si storsero in un ghigno sprezzante.
Alto
e magro, Maometto è quel genere di uomo con cui la maggior
parte
della gente preferirebbe evitare di farsi vedere accompagnata.
C'è
una luce costantemente beffarda nei suoi occhi scuri e ha lo
spiacevole vizio di lisciarsi in continuazione il sottile pizzetto
nero. Lo fa in un modo così arrogante che desta
l'irritazione di
chiunque debba sopportarlo per più di un minuto.
Quell'umorismo noir
tutto suo, poi, non lo aiuta certo a mostrarsi nella luce migliore.
Alle volte, i suoi modi di fare sembrano davvero malefici, ma sa
essere un buon amico e un ottimo confidente. Non potrei mai
rinunciare alla sua compagnia.
Lo
seguii mentre si avvicinava al bancone e lo osservai scrutare con una
smorfia disgustata la patina appiccicaticcia che lo ricopriva. Alzai
gli occhi al cielo nel vederlo sfiorare con un lungo indice lo
sgabello e fissarsi inorridito il polpastrello impolverato.
«Maometto,
siediti».
«È
il letamaio più lercio in cui sia mai stato – e
vorrei
sottolineare che ho visto Gerusalemme prima ancora che s'inventasse
il calendario» disse, lisciandosi con cura il pizzetto.
Sollevai
la mano per attirare l'attenzione del barista – un anziano
con
pochi capelli e dal volto scialbo – e ordinai due Beck's.
«Gerusalemme
è una città deliziosa» commentai con
semplicità. «Ed è
considerata sacra da più di--».
«Sacra?»
mi interruppe Maometto con un sibilo infastidito.
«Sciocchezze. La
Cupola della Roccia è completamente ricoperta d'oro».
«È
tutto in tuo onore, amico mio. Ringrazia, saluta e
rassegnati»
scherzai con un sogghigno.
«È
nel loro cuore che dovrebbero tenermi, Voltaire. Non sul loro
tetto».
Annuii
appena.
«Chi
è che ti vuole agganciare al tetto?» proruppe una
voce beffarda
alle nostre spalle. «Devo assolutamente
stringergli la mano prima dell'anno venturo».
Maometto
si voltò indietro con un ghigno fastidioso.
«Gesù!
Che bella sorpresa!» esclamò con aria sarcastica.
«Dove hai
lasciato i tuoi bei cosini alati che scintillano? Papà non
ti ha
detto che non dovevi infilarli sull'alberello?».
«Va'
all'inferno, Maometto» scandì con durezza
Gesù.
Mi
sfiorai distrattamente la tempia destra: sarebbe stata una lunga,
lunghissima serata. Mi girai a mia volta e guardai stancamente il mio
amico. Gesù è un uomo dotato di una bellezza
aggraziata – quasi
femminea. I lunghi capelli gli incorniciano con eleganza il volto
chiaro, ricadendo in soffici ricci sulle spalle esili, e gli occhi
sono talmente azzurri e luminosi da sembrare quasi irreali. La sua
stessa gestualità e il suo portamento, poi, hanno qualcosa
di
dannatamente intrigante, ed è davvero difficile che passi
inosservato fra la folla. Mi sono domandato spesso se sia proprio
quello il suo vero
aspetto, e mi sono risposto che, probabilmente, non lo è per
niente.
La vanità di Gesù è sempre stata
proporzionata al suo potere;
fortuna che il suo animo sia solitamente abbastanza buono da
permettere di tralasciare quel suo inguaribile difetto.
Mentre
ordinavo una terza birra, Gesù si sedette sullo sgabello
alla mia
destra. Sembrava irrequieto.
«Avanti»
lo incitai con un sorriso gentile. «Di' qualunque
cosa tu stia
pensando di dire».
«Non
ho intenzione di trascorre in questa bettola la vigilia di
Natale»
eruppe con enfasi, come se non avesse atteso altro. «Dai,
seriamente. È il mio compleanno
e questo posto fa schifo. E guarda che sono nato in una mangiatoia,
io».
Scoppiai
in una fragorosa risata nel vedere Maometto fare una smorfia
nauseata, voltarci le spalle e alzare la testa verso il minuscolo
televisore appeso all'altro capo del bancone.
«Che
ho detto di divertente?» mi chiese Gesù con un
broncio.
«Nulla.
Ho solo avuto un déjà-vu».
A
volte, lui e Maometto sono così simili.
Non sono certo che se
ne siano ancora accorti, ma condividono lo stesso disprezzo cocente
per ciò che le loro rispettive religioni hanno fatto.
Talvolta, la
rabbia del fallimento si fa così intensa che sono costretto
a
interromperli prima che diventino troppo blasfemi – e a loro
proprio non lo si può perdonare. Su di me, che sono un
modesto
letterato che ha deciso di voltare le spalle a Dio per amore della
ragione e della conoscenza, si può chiudere un occhio,
dopotutto.
Ricordo
ancora quando affermai che Dio era soltanto un commediante dal
pubblico troppo spaventato per ridere. Quando mi ritrovai davanti a
lui – ed ero ancora combattuto fra il fastidio di essere
morto e il
fastidio che Dio esistesse realmente – fu lui a ridere della
mia
faccia. E io risi con lui, alla fine. Non è poi
così male, se ci si
prende il tempo di conoscerlo meglio e non lo si fa arrabbiare.
Mi
accorsi improvvisamente delle note melodiche delle voci bianche che
provenivano dal televisore e feci un sorriso sghembo. Il paradosso di
dieci ragazzini che intonavano canti innocenti per un bambino che
stava seduto al mio fianco e giocherellava con l'etichetta di una
Beck's in un bar ammuffito. A giudicare dal disappunto dipinto sul
volto scuro di Maometto, stavamo pensando tutti la stessa cosa.
«Non
ti piacciono le carole natalizie?» gli domandai
tranquillamente.
«No»
rispose al suo posto Gesù. «Le detesto».
Repressi
un altro sorriso.
«Le
ho sempre detestate» continuò lui, scuotendo
scocciato la testa.
«Fosse per me, a Natale si canterebbero soltanto i
Doors».
Maometto
si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito e ruotò
la testa verso di
lui.
«Idiota
di un Messia» lo canzonò.
Gesù
alzò le spalle e portò la bottiglia alle labbra.
«Beh,
è vero. Non gliel'ho mica chiesto io di cantare e di
nascondere la
merda del mondo con le loro lucine».
«Sono
in molti a trovare conforto in tutto questo, Gesù»
mi intromisi
pacatamente. «Non biasimare il loro tentativo di trovare un
po' di
pace».
«Oh,
eccome se li biasimo!» replicò con veemenza.
«Glieli avevo
lasciati tutti, i presupposti per un po' di pace. E loro, che fanno?
Si circondano di croci e cattedrali e fanno gli strozzini con il mio
nome. Bel ringraziamento del cazzo».
Rimanemmo
in silenzio solo un paio di secondi, fissando ognuno la bottiglia che
stringevamo fra le mani.
«Lo
avresti creduto possibile, Gesù?» chiese Maometto
con voce
incredibilmente seria. «Che avrebbero fatto tutto questo
casino,
voglio dire».
«Quel
che è certo è che non avrei mai immaginato
di ritrovare la
mia faccia stampata su delle T-shirt» rispose. «So
di essere
incredibilmente attraente, ma questo è troppo».
«Secondo
me, le cose sarebbero andate molto meglio se tu fossi stato
ateo»
ridacchiai.
«Come
no» mi diede corda Maometto. «E chi glielo
spiegava, poi, al
papà?».
«Fottiti»
mormorò Gesù fra i denti. «Tu e tutti
quei dannati--».
«Basta
così, grazie» li interruppi seccato.
«Dovreste smetterla di
litigare. Fate troppo cliché religioso,
voi due».
«Io
non ho niente contro di lui» puntualizzò
pedantemente Maometto,
sfiorandosi appena il pizzetto. «Sono i suoi cristiani che mi
danno
sui nervi».
«Chiudi
la bocca e bada ai problemi della tua gente, tu» lo
rimbeccò subito
Gesù.
«I
problemi della mia gente sono iniziati quando la tua
gente
ha iniziato a chiamarci infedeli».
«La
mia gente? Quella non è la mia
gente. La mia gente
non scatena guerre di denaro».
«Disse
il Cristo protettore delle più ricche banche del
mondo».
«Amen,
ma vogliamo parlare delle tue banche, Maometto?
Perché non se
ne parla mai, con te? E lascia che ti dica un'altra cosa...».
Smisi
di ascoltarli e mi massaggiai stancamente le tempie. Ero stato un
illuso a credere che sarebbero stati capaci di comportarsi come
persone civili: erano seduti troppo vicini l'uno dall'altro. Pregai
che Sòl arrivasse in fretta a salvare la mia proverbiale
pazienza,
poiché temevo che stesse già scoccando il suo
ultimo minuto di
eroica sopportazione.
Quando
iniziano a scaricarsi reciprocamente le colpe del mondo intero,
Maometto e Gesù diventano insopportabili e ingovernabili
– una
pessima combinazione, a mio parere. La questione più buffa
di ogni
loro discussione, oltretutto, è che tendono a farneticare
cose a cui
non credono assolutamente.
Mentre
cercavo di allontanare da me i loro fastidiosi battibecchi, mi parve
quasi di sentire la voce focosa di Marlowe ripetere nella mia testa:
“La religione è un giocattolo per bambini,
Voltaire”. La parola
“giocattolo” continuò a rimbombarmi
nelle orecchie per i minuti
successivi. Un giocattolo, la definisce Marlowe, e nient'altro.
È
una sciocchezza, come una stupida litigata in uno squallido bar di
periferia alla vigilia di Natale.
Non
ci si ferma più nemmeno per Natale, ormai. Mi chiedo se ci
sia
ancora qualcuno che riesca a vedere il Natale per quello che dovrebbe
semplicemente essere: un suggerimento.
A
volte, credo che il Natale abbia qualcosa di vivo. Vecchio e
rassegnato, sembra un fantoccio di lucine e festoni che grida al
mondo che sta andando in contromano. Eppure, poveretti, gli uomini
vanno sempre contromano; e dire che la più profonda essenza
della
felicità, quella per cui faticano tanto, è
proprio lì, nascosta
dai regali impacchettati.
È
una sensazione di insostenibile calore che pervade il petto e infonde
il desiderio che la vita – quella vita
– possa durare per
sempre. Si sente di amare tutti, incondizionatamente, perché
la vita
è bella in quanto tale e tanto dovrebbe bastare a chiunque.
È
questione di un battito di ciglia in cui si pensano un migliaio di
sciocche idiozie felici tutte in una volta. Poi, c'è un
respiro, una
parola, ed ecco che ci si ricorda di appartenere ad
un'umanità che
si nutre di normalità e senso pratico. La folle luce da cui
ci si
sentiva completamente irrorati si dissolve lentamente e si torna a
sorridere con moderata gaiezza – e quella traccia di morbosa
devozione alla vita è già scomparsa.
È
una vera sfortuna che nessuno di noi sia mai stato capace di
aggrapparsi con foga a quell'istante di estasi. Avremmo potuto
salvare il mondo. Ora, invece, siamo costretti ad aggrapparci a
ciò
che di esso è rimasto. L'unica cosa a cui posso pensare,
dopotutto,
è che se questo è il migliore dei mondi
possibili, gli altri devono
essere davvero una schifezza.
È
proprio alla condanna del mondo a cui pensavo quando qualcuno mi
picchiettò l'indice sulla spalla sinistra. Preso in
contropiedi,
sobbalzai sullo sgabello. Maometto e Gesù avevano smesso di
recriminarsi a vicenda ed ora osservavano lo sconosciuto che stava
cercando di attirare la mia attenzione – chissà da
quanto, poi.
Era
un uomo piuttosto alto, dal naso bitorzoluto, l'aspetto malconcio e
l'alito fetido. I pochi capelli rossicci erano scompigliati attorno
alle orecchie rosse ed il suo volto squadrato recava i segni di una
rasatura fatta in fretta e con poca cura. Era il ritratto di uno che
avrebbe potuto stendermi con un gancio destro, se solo mi fossi
azzardato ad augurargli “buon Natale”.
«Hai
bisogno?» gli chiesi con gentilezza, sebbene avessi inclinato
il
collo con espressione circospetta.
«Oi,
amico, te lo dico» mi rispose con il pesantissimo accento del
posto
ed un fiato di birra ancora più pesante.
«C'è una tizia, qua
fuori, che vuole che ti stacchi e vai da lei».
«Una
tizia?».
L'uomo
emise un grugnito di approvazione.
«È
'na tizia un po' bassotta. Carina, però».
Sorrisi
fra i baffi. Era probabilmente la più semplice descrizione
di Sòl
che avessi mai udito. A lei avrebbe fatto piacere.
Mi
alzai dallo sgabello nello stesso istante in cui Gesù si
rivolgeva
allo sconosciuto.
«Ha
chiesto anche di noi due?».
«Macché.
Quella mi ha detto che voleva solo quello con il naso grande».
Sentii
Maometto e Gesù ridacchiare all'indirizzo della mia schiena.
Voltai
appena la testa e rivolsi ad entrambi un'occhiata di sufficienza.
«Io
e il mio naso grande andiamo fuori un attimo» gli dissi con
una
smorfia. «Ed entrambi saremmo lieti di sapere che vi siete
affogati
con la birra».
Mi
stavo avviando verso l'uscita, quando la voce dell'uomo mi
arrivò
nuovamente alle orecchie.
«Ehi,
amico! Di', te l'hanno mai detto che c'hai la faccia come quella del
Cristo che sta là, appeso in chiesa?».
Scoppiai
a ridere e mi affrettai ad uscire da quella stamberga prima che di
essere colpito a tradimento dalla Beck's di Gesù. Mi
richiusi la
porta alle spalle e cercai Sòl con lo sguardo. La trovai
immediatamente, appoggiata al muro di cemento a pochi metri da dove
stavo iniziando a rabbrividire.
«Perché
stai ridendo?».
«L'uomo
che hai mandato a cercarmi ha appena fatto notare a Gesù che
assomiglia – indovina un po' – a
Gesù» risposi con divertita
naturalezza. «E ha detto che sei carina. Bassotta,
ma
carina».
Il
suo aspetto, in effetti, era indiscutibilmente carino. Indossava un
adorabile berretto di lana beige che le nascondeva i corti riccioli
biondi e una grossa sciarpa colorata attorcigliata fino al naso. A
causa del freddo pungente, le guance rotonde e lentigginose erano
arrossate e gli occhi turchesi brillavano per le lacrime. Nonostante
calzasse un paio di stivaletti marroni con qualche centimetro di
tacco, non raggiungeva il metro e cinquanta. Più che
un'antica
divinità del sole, sembrava un simpatico folletto dei boschi
irlandesi.
«Si
può sapere che ti è saltato in mente di portarci qui?»
le
domandai incuriosito. «Un altro minuto e quei due sarebbero
partiti
per le crociate».
«Davvero?»
disse Sòl con voce incredibilmente lieta.
«Ti
fa piacere?».
«Sì»
rispose con estrema semplicità. «Volevo passare la
vigilia di
Natale con il mio filosofo senza fede preferito».
Inarcai
pesantemente un sopracciglio.
«Non
ti piace?» mi domandò.
«È
un posto sporco, sciatto e deprimente».
«Beh,
lo è anche il mondo, ma ci dobbiamo stare lo
stesso».
Finsi
di sospirare rassegnato e la guardai di traverso. Attraverso il
piccolo spiraglio fra il cappuccio e la sciarpa, i suoi meravigliosi
occhi mi scrutavano divertiti.
«Cosa
stai tramando, Sòl?».
«Perché
devi sempre credere che io trami qualcosa?».
Le
rivolsi un'occhiata eloquente.
«Oh,
d'accordo!» esclamò lei con voce capricciosa e
incrociando le
braccia al petto. «Volevo che Maometto e Gesù
litigassero prima
che iniziassero i festeggiamenti. L'ultima volta sono riusciti ad
innervosire perfino Buddha. Voglio dire... è Buddha,
porca
vacca».
«Una
lunga disputa significa che entrambe le parti hanno torto»
recitai
con un sorriso sghembo.
«Perché
devi sempre filosofeggiare?».
«Perché
io sono, in effetti, un filosofo».
Per
un attimo mi parve offesa, ma poi scosse il capo con indifferenza. La
vidi infilare una mano inguantata nella tasca destra del cappotto ed
estrarre un pacchetto stropicciato di Winston rosse. Sfilò
una
sigaretta e mi porse il pacchetto. Non sono un fumatore, eppure
avvertii l'improvviso bisogno di condividere con lei quel momento di
strana apatia. Ne presi una e la portai alla labbra. Sòl si
guardò
circospetta attorno. Certa di essere completamente inosservata, si
tolse un guanto e me la accese con un tocco di polpastrello. Aspirai
la prima boccata e la rimproverai con lo sguardo.
«Non
guardarmi così» mi disse.
«Qualcuno
avrebbe potuto vederti».
«È
Natale, François. Rilassati».
Sbuffai
rassegnato ed appoggiai il capo alla parete del bar. Alzai gli occhi
verso il cielo, alla distratta ricerca di una stella. Era troppo
nuvoloso e pensai che quella notte, probabilmente, avrebbe nevicato.
«Sì»
affermò improvvisamente Sòl. «Fra poco
nevicherà».
Feci
un verso di disappunto.
«Odio
quando mi leggi nella mente».
«Non
si dicono bugie agli dei, François».
Scossi
la testa e tornai a scrutare l'oscurità del cielo attraverso
il fumo
delle nostre sigarette. Mi sentivo strano, come se non fossi nel
posto in cui avrei dovuto essere. Eppure, ero certo che era proprio
lì che volevo essere, accanto a lei e ai suoi modi da
ragazzina
maliziosa. È assurdo che dopo aver girato il mondo moderno
per quasi
un secolo, abbia dovuto aspettare di morire prima di innamorarmi di
una donna – una dea dimenticata dagli uomini, oltretutto,
proprio
io che avevo così stoicamente rinnegato la religione.
Mentre
le stavo accanto e pensavo a cosa c'era di sbagliato in quella
vigilia di Natale, mi accorsi che aveva realmente iniziato a
nevicare. I fiocchi candidi danzavano nelle tenebre con delicatezza,
attorcigliandosi l'uno con l'altro e depositandosi con impalpabile
leggerezza sulla strada, sui gradini, sui grigi edifici cupi, sulle
nostre spalle e sulle nostre teste.
Sòl
gettò a terra la sigaretta prima di terminarla e mi
afferrò con
forza un polso. La guardai con espressione interrogativa e lei mi
rispose con un sogghigno divertito.
«Vieni
con me».
Non
mi concesse nemmeno il tempo di protestare. Iniziò a correre
lungo
lo sconnesso vialetto di cemento e poi giù, fino alla
strada,
trascinandomi con sé. La neve che mi colpiva il volto era
fastidiosa
e fui costretto a sollevare la mano libera per ripararmi.
Sòl non
sembrava intenzionata né a fermarsi né a
rallentare.
«Sòl!»
la chiamai. «Dove mi stai portando?».
«Nel
niente, François!» mi rispose ridendo, saltando
con grazia il
gradino di un marciapiede. «E pure nel tutto, se ti
va!».
«Cosa
stai---? Sòl, per l'amor del cielo,
non--».
«Abbi
fede, filosofo blasfemo!».
Iniziavo
a non avere più fiato e sperai con tutto il mio cuore che
quella
corsa irragionevole e sfiancante finisse in fretta. Attraversammo
velocemente un modesto quartiere fatto di case basse e squadrate.
Mentre sfrecciavo sul marciapiede, riuscivo a cogliere con la coda
dell'occhio gli infissi delle porte luccicanti e qualche pupazzo di
Babbo Natale appeso ai balconi e ai comignoli – nulla
più di
qualche macchia rossa. Fu una fortuna che fossi così
concentrato nel
tentativo di non inciampare sull'asfalto: se mi avessi fissato troppo
tutte quelle colorate lingue luminose, mi sarebbe probabilmente
venuta la nausea.
Quando
Sòl si fermò di colpo, rischiai di caderle
addosso. Feci un paio di
respiri profondi e fissai le nuvolette di vapore uscire dalla mia
bocca. Quella corsa disperata nel ghiaccio mi aveva distrutto.
«Là,
François».
Sollevai
il capo e guardai verso il punto indicato dal suo dito.
Al
di là di una stretta piazzetta rotonda, fra le case
illuminate, si
ergeva una modesta e timida chiesetta. Non fosse stato per il piccolo
campanile a punta che spuntava dal tetto, non avrebbe nemmeno avuto
l'aspetto della ricca casa di Dio. Non c'era alcun sagrato, nessuna
gigantesca vetrata e nessun portone dorato: era solo un edificio come
tanti, lì attorno. Mentre socchiudevo le palpebre per
scrutarla
meglio attraverso la neve sempre più fitta, mi domandai
ancora per
quale motivo Sòl mi avesse trascinato in quel posto.
«Ascolta»
mi disse.
Affilai
l'udito verso la profondità di quella notte e riuscii a
cogliere le
leggere note di una allegra canzone librarsi oltre le sottili parete
della chiesa. Leggera e innocente, la melodia sembrava troppo debole
per resistere all'incessante rumore dell'inverno. Eppure, qualcosa di
quella semplicità mi fece sorridere.
«Sapevo
che ti sarebbe piaciuto».
«Non
so se mi piace» la corressi rapidamente, infilando le mani
screpolate nelle tasche e nascondendo il volto nel bavero del
cappotto. «Non so nemmeno se ci sia qualcosa, in tutto
questo, che
mi sia mai piaciuto».
Si
avvicinò a me e si strinse al mio braccio, appoggiando il
capo alla
mie spalle.
«Questa
è la risposta. Non è meravigliosa?».
Cercai
di coglierne le parole, ma il vento soffiava troppo forte e noi
eravamo troppo distanti.
«“Tutti
quanti nel mondo hanno i loro riti, le loro feste e questo è
giusto,
è giusto”» mi
canticchiò in un orecchio Sòl, sorridendo
beata. «“Ecco come dovrebbe essere, tutti
quanti, in tutti i
modi, in tutti i paesi”».
Ridacchiai
fra i denti, scuotendo appena il capo.
«“Non
sarebbe bello se potessimo avere una sola festa? Tutti quanti
insieme”».
«Sòl»
la chiamai con dolcezza. «Cosa stai cercando di dirmi,
esattamente?».
«Possiamo
accendere le candele» continuò lei, come
se non mi avesse
nemmeno sentito. Si posizionò di fronte a me e mi
strattonò dai
gomiti fin quando non ebbi estratto le mani dalle tasche.
Intrecciò
le sue dita inguantate con le mie e iniziò a volteggiarmi
attorno.
«Per una volta, spegni il cervello e balla con me».
«Sta
nevicando, Sòl».
«Voglio
ballare, François. Voglio ballare perché la neve
è bella, perché
è Natale e perché sento che stasera qualcuno, da
qualche parte,
penserà la stessa cosa. Penserà che la vita
è bella e ballerà
sotto la neve, come noi. È Natale un po' per tutti,
dopotutto».
Un'indescrivibile
sensazione di calore mi infiammò improvvisamente l'animo.
Fissando
il suo volto arrossato e i suoi occhi brillanti, ricordai ancora una
volta il motivo per il quale mi ero innamorato di lei. Avvertii il
bisogno impellente di stringerla fra le braccia e lei, intuendo
– o
leggendo, piuttosto – i miei pensieri, sprofondò
nel mio cappotto.
«Riesci
a sentire il morso della felicità?» mi
sussurrò.
Le
baciai la fronte.
«Sì».
«“Tutti
quanti insieme. Solo una volta. Un giorno. Un mondo”»
riprese
a cantare. «Lascia che la felicità ti divori,
François».
Finché
dura, lascia che sia ancora Natale.
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