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“Fino a
quando hai intenzione di continuare?”
“Finché non
mi darà ascolto.”
E in quel
momento, quel pomeriggio d’estate, in una comunissima strada assolata, lui aveva
capito una cosa di Watanuki. L’aveva vista, chiara nei suoi occhi così distanti,
e così seri.
Il premuroso,
gentile Watanuki, che continuava a cucinare per quella donna, per farle capire
il suo errore; quello sciocco di Watanuki, che andava ogni giorno a parlare ad
una porta chiusa, nell’ansia di aiutare quella sconosciuta… Sciocco, gentile,
volenteroso, sì certo, era ovvio, quello lo sapevano tutti…
Ma Watanuki
era anche l’ostinazione.
Fermo contro
una freccia che avrebbe potuto trapassargli il cuore, quando si era convinto di
dover stare al fianco di quella signora che ogni giorno lo faceva stare più
male. Sempre a sorridere a una ragazza che portava solo disgrazia. Accanito nel
trovare a tutti i costi la soluzione per la maledizione dell’occhio.
Nessuno
avrebbe potuto fargli cambiare idea, se sentiva che ciò che aveva deciso era
giusto.
E questa che
avrebbe potuto essere una qualità, un esempio di costanza, quella sera aveva
colpito Doumeki come una lama di incomprensibile terrore.
C’era una
ragione, adesso lo sapeva. Adesso che andava a trovarlo ogni giorno chiuso in
quella casa, chiuso sempre più in se stesso. E si ripeteva che era l’ultima
volta che lo lasciava fare, che difendeva le sue scelte, che la prossima volta
che fosse successo qualcosa di grosso, gli avrebbe parlato. E gliel’avrebbe
detta, quella frase
pronunciata allora con
tanta semplicità,
che non aveva più smesso di risuonargli tra i pensieri. “Fino a quando hai
intenzione di continuare?”
Ma poi,
quella prossima volta arrivava, e passava, e lui si ritrovava sempre sotto la
luce della luna, a contemplare il fondo del suo bicchiere di liquore, avvolto
nel fumo della pipa, senza una parola.
A sera, la
sua vita si appannava del leggero disorientamento dell’alcool, e ogni giornata
che era stata ferma, immutabile, uguale come sempre alle altre, pareva a
quell’ora vacillare, perdere il filo, in equilibrio sopra un vuoto. E tornava alla
superficie l’ansia dietro ogni suo gesto più tranquillo, la nausea in un ampio
mare completamente piatto.
E non poteva
che essere così. Se avesse dovuto tenere un arco teso per tutta la vita,
concentrato sul bersaglio, sordo ad ogni altra cosa, ma senza mai scoccare la
freccia, la sua mano avrebbe inevitabilmente tremato.
Sentiva
ormai da tempo addosso la stanchezza di quel gesto che non si compiva mai; un
senso di logoramento tale da ottenebrare ogni cosa, persino il dolore. La fatica di tutti
quegli anni era strisciata dentro di lui, spegnendo a poco a poco molte cose;
molte cose che aveva considerato precisamente sue, pilastri del suo modo di
essere, ma che invece si erano sgretolate senza rumore, lasciandogli solo la sorpresa
della facilità con cui erano svanite. Era ora profondamente diverso senza essere
cambiato mai, un’altra persona con lo stesso viso, silenzioso in un modo del
tutto differente. Il coraggio di quel lungo, infinito gesto, di una protezione
senza tempo e senza ringraziamenti, aveva eclissato ogni altra fermezza; quelle
che servivano nella vita di tutti i giorni, e che si erano addormentate, per
sfinimento, dentro di lui.
E così, erano
mesi che aveva in casa quel kimono elegantissimo, giorni che era già stato
svolto dalla carta di riso, sfiorato dalle mani e dalle lacrime di sua madre; e
ancora non si decideva. Non si trattava di grandi decisioni, questa volta, solo
di dire due parole. Ma la voglia di farlo annegava nel bicchiere assieme al
ghiaccio.
Buttò giù
l’ultimo sorso. Almeno quello doveva farlo, domani.
“Domani… non
verrò.”
“Lo so.”
Tutto qui.
All’unica svolta della sua vita, riceveva soltanto quelle parole.
Il mago aveva
sulle labbra il suo solito sorriso enigmatico, quello che gli riusciva ormai
tanto bene e che nello stesso tempo non gli era riuscito mai. Posata la pipa, si
alzò a prendere da dietro uno shoji una piccola pila di cose, perfettamente
ordinata.
“Ecco, questo
è il mio regalo per la sposa. E quello sotto è per te, ebbene sì, anche se non
te lo meriti proprio per niente. Ah, ecco! E lo vedi quel sacchettino? Devi
darlo a Himawari-chan, ma subito! Mi ha detto che ha un vestito color pesca
–l’ha detto soltanto a me, invidioso eh?- Insomma, spero che vadano bene con il
resto.”
Prendendo i
pacchi occhieggiò dentro il sacchetto di organza, intuendo un paio di guanti
ornati di pizzo e fiocchi. “Non mi sembrano tanto una cosa che una trentenne
metterebbe.”
L’altro
riprese la pipa, aspirandone una boccata sempre col sorriso, ad occhi chiusi.
“Sono sicuro che a Himawari piaceranno.”
“Penso di
poter venire dopodomani, comunque.”
“Passate
anche dopo la cerimonia, magari. C’è dello champagne.”
“Penso che
saremo fuori città.”
“Come
preferisci.”
Era il loro
primo litigio da anni, e stavano parlando di guanti color pesca e champagne in
fresco. E all’improvviso sentì che sarebbe voluto scappare ovunque, dall’altra
parte del mondo, e lasciarlo solo, come ad ogni modo lo era. E non sentire
parlare più di niente, e farsi una vita, era comunque in tempo, e abbandonarlo
lì, a sfiorire come i disegni su quei kimono, che avevano perso il loro
significato ora che non si curvavano più su forme di donna. E lo sapeva, anche
se se lo negava lo sapeva, che assieme ai colori e al profumo di Yuuko era
sbiadito anche il senso di quella scelta; nulla più che un rito che prende forza
nel suo monotono eseguirsi, una formula in una lingua morta ripetuta con
religiosa fede, ma di cui è ormai dimenticato il contenuto.
E se era
così, lui stava inseguendo il fantasma di un fantasma. Aveva imperniato la sua
esistenza su un’incolmabile, immutabile assenza.
E anche se
lui si aggrappava alla realtà opposta di una presenza, di Watanuki, lui, vero,
vivo, sempre lui, che era sempre là, sempre la persona che aveva deciso di
proteggere, quell’assenza gliela leggeva negli occhi. Quegli occhi che adesso
non lo guardavano, che sapevano che domani lui si sarebbe sposato, e quanti
figli avrebbe avuto e quando sarebbero nati, che sarebbero stati condannati al
suo stesso destino, e che pure continuavano a non voltarsi verso di lui.
Era
consapevole che dietro quel vuoto, quella distanza sempre più deserta fra di
loro, c’era uno strazio, uno smarrimento che non potevano avere fine, e che lui non
avrebbe
mai
potuto comprendere fino in fondo. Sapeva che da qualche parte,
dietro il fumo della pipa e il sorriso, c’era ancora, raggomitolato in un
angolo, un ragazzo che piangeva; e ripeteva a se stesso che era per quello che
era ancora lì. Ma in fondo lo sapeva, che non era neanche quella la ragione per
cui, dopodomani, sarebbe tornato in quel luogo.
Potevano
spegnersi i soli; i pianeti avrebbero continuato a percorrere la loro orbita in
silenzio, girando lenti attorno al buio, fino al collasso. Non importava.
Di tutto
quello che era stato, gli era rimasto solo questo. La fermezza di una decisione
presa, di una scelta che considerava ancora giusta. E che non avrebbe cambiato
mai.
Ma qualche parte, sul
fondo del suo cuore, sotto la stanchezza e i ragionamenti e il non
pensare, un’ultima cosa ancora c’era: quella che aveva compreso un pomeriggio
d’estate in una strada assolata, e che non se n’era andata mai più. Il terrore
che quel coraggio e quella costanza portassero un altro nome, quello
dell’ossessione.
[Scritta per
una “sfida interna” tra un trio di amiche in occasione del 3 marzo (compleanno
di Doumeki), sul tema di un “missing moment” importante ambientato nell’arco di
xxxHOLiC-Rou. Sono profondamente insoddisfatta di questo lavoro confuso, in cui
i temi che volevo sviluppare ci sono, ma mi è mancata la coerenza. E’ più o meno
la prima volta che mi accosto, a tentoni, a Doumeki, personaggio che comprendo
ma trovo difficile da gestire; scusandomi di questa pubblicazione, spero di
poter migliorare il pezzo in seguito, o di dedicare qualche parola ancora a
questo personaggio che paradossalmente mi risulta il più snaturato nella serie
Rou.]
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