Shade Garden & Sky_1
Titolo della Storia:
Shade Garden & Sky
Nome Autore su EFP e sul
forum: My Pride
Fandom:
Inuyasha
Personaggi Presenti: Un
po’ tutti
Pairing:
Accenni Miroku/Sango, Inuyasha/Kagome e
Miroku/Inuyasha
Tipologia: Log
fic [ Non più di
tre capitoli ]
Genere: Generale,
Malinconico, Vagamente Introspettivo, What
if?
Rating: Verde
/ Giallo
Avvertimenti:
Forse vagamente nonsense, Vagamente Hurt/Comfort, Velatamente Shounen
ai, Probabile Missing
Moment fasullo dei capitoli presenti alla fine del volume sessanta e
all’inizio
del sessantuno
Nota: Prequel
della
one-shot Until
our wisdom is exhausted
Parole scelte: Bacio,
Solitudine, Morte, Luna
Ambientazione presente:
Tempio / Montagna
Frase inserita: N°2
“Quando gli esseri umani hanno qualcosa da
proteggere, la loro forza si moltiplica a dismisura! Ti
batterò grazie al mio sangue
umano!”
Breve introduzione: «Feh!
Avevo bisogno di starmene da solo».
«Tu hai sempre bisogno
di startene da solo», replicai sarcastico, alzando finemente
un sopracciglio
prima di avvicinarmi maggiormente e sedermi con fare tranquillo accanto
a lui, abbandonando
lo shakujo al mio fianco.
Lui mi degnò appena di
un’occhiata, ritrovandosi a sbuffare per l’ennesima
volta e alzare poi lo
sguardo verso il cielo nero. «Non cominciare,
Miroku», mi freddò. «Non è
serata».
INUYASHA © 1997Rumiko Takahashi/Shogagukan. All Rights
Reserved.
SHADE GARDEN
& SKY
[1]
Sono cresciuto per
esser così capace
di sorridere anche
attraverso il dolore più grande.
01. CHAPTER ONE
UNDER A BLACK AND EMPLY
SKY
I
miei passi risuonavano sinistramente sulle assi di legno che
componevano il pavimento del tempio del Maestro, donandomi una bizzarra
sensazione di calma benché l’atmosfera non lo
fosse per niente. Nonostante la
quiete che vigeva nel tempio, difatti, sembrava quasi che da un momento
all’altro potesse succedere qualcosa. Cosa fosse ancora non
riuscivo a capirlo,
ma non mi sentivo affatto spaventato come avrei dovuto.
Venni
richiamato ben presto da dei rumori che sembravano provenire al di
fuori del
tempio, proprio nel cortile dinanzi alle scale che conducevano
all’entrata
principale. Mi accigliai ma, affrettandomi, attraversai l’ala
est dell’edificio
per raggiungerlo il più in fretta possibile, sentendo, mano
a mano che mi
avvicinavo, i rumori affievolirsi. Era come se qualcuno avesse
cominciato a
suonare il Koto
[2] e
poi, prima della nota più alta dello
strumento, si fosse bruscamente interrotto, lasciando basito
l’ascoltatore.
Il terrore si impossessò di me
proprio in quel momento, poiché cominciai a comparare quello
stesso improvviso
ed assurdo silenzio ad un momento ben preciso della mia vita:
l’attimo in cui,
da bambino, vidi mio padre morire, risucchiato dal vortice della sua
mano
destra. Automaticamente guardai la mia, chiudendola a pugno per
stringere poi
nel palmo il rosario che la sigillava. La quiete prima della tempesta.
Era
questa l’ansia che, finalmente, cominciò a
dilatarsi in tutto il mio essere,
scorrendo nelle vene insieme al mio sangue.
L’agitazione crebbe non appena
cominciai ad udire il suono del vento provenire da quella mano stessa,
e,
scalpicciando sul legno a piedi nudi, corsi; corsi con tutta la forza
che avevo
in corpo, sentendo quello sforzo mozzarmi il respiro ancor prima di
giungere
alla sala principale del tempio. Ovunque mi guardassi, non vedevo altro
che
porte di carta e pareti di legno, come se nell’edificio fosse
ormai scomparsa
ogni via d’uscita. Fortunatamente, però,
più avanzavo, più la strada sembrava
spianarsi, sebbene l’ingresso che mi avrebbe condotto in
prossimità delle scale
del tempio fosse ancora lontano.
Una trave del soffitto cadde,
quasi rischiando di ferirmi, rompendo il pavimento e conficcandosi in
esso,
rivelando lo scheletro di legno ormai marcio di cui era composto. Alzai
automaticamente lo sguardo per evitare altre sorprese, sentendo il
suono del
vento sibilare sempre più forte ad ogni minuto che passava.
Mancava poco. Molto
poco.
A fatica, riuscii a trovare
finalmente quel tanto agognato ingresso, venendo investito dalla luce
lunare
che, dopo tutto quel tempo passato nella semioscurità,
sembrò quasi riuscire a
ferirmi gli occhi come un piccolo sole. Brillava alta nel cielo sgombro
di nuvole con
un’intensità inaudita, tingendo i dintorni e
bagnandomi il volto con la sua
luce. L’erba alta che costeggiava il tempio sembrava
d’argento, accecante quasi
quanto la luna stessa, e a causa di tutta quella luminosità
le ombre sembravano
pressoché inesistenti.
Mi guardai intorno, quasi
aspettandomi di vedere qualcosa, avanzando piano mentre gli occhi mi
cadevano
sulle tegole del tetto del tempio, la maggior parte delle quali si
erano rotte
ed erano cadute sul ballatoio di legno sottostante. Senza che me ne
accorgessi
mi ritrovai ad osservare dall’alto la tomba di mio padre,
sentendomi ben presto
richiamato da delle voci familiari. Voltandomi, sgranai gli occhi,
facendo loro cenno di non avvicinarsi. Sembrarono però non
capirmi, poiché il
primo a farlo fu proprio Inuyasha. Avrei voluto gridargli di non
muoversi, di
non fare un altro passo se non voleva rischiare che risucchiassi anche
lui nel
mio vortice, ma quando aprii la bocca per farlo, dalle mie labbra non
uscì
alcun suono.
Fu a quel punto che aprii di
scatto gli occhi e soffocai un grido nel profondo della mia gola,
sentendo il
cuore battere all’impazzata contro le pareti del mio petto.
Drizzandomi a
sedere abbassai lo sguardo per osservare la mia mano destra e la ferita
provocatami dall’aura di Naraku, senza riuscire ancora a
respirare con
regolarità.
Un
sogno. Era stato soltanto uno
stupido e maledettissimo sogno. Sempre lo stesso incubo quasi ogni
notte,
dannazione.
Traendo un profondo respiro cercai
di calmarmi, facendo vagare gli occhi in quel piccolo spazio sgombro da
alberi
in cui ci eravamo accampati per quella notte. Kagome, Sango e Shippo
dormivano
ancora placidamente, e persino la piccola Kirara se ne stava
tranquillamente
acciambellata vicino alla sua padrona. C’era soltanto una
persona che mancava
all’appello, e quell’ansia che avevo provato prima
che mi svegliassi tornò
prepotentemente a farmi visita. Ma scossi violentemente il capo, non
volendo
dar peso ad essa. Era stato soltanto un sogno, mi ripetevo, e non
dovevo dunque
temere le conseguenze. I miei compagni erano tutti lì. Erano tutti al sicuro.
Decisi di alzarmi il più
silenziosamente possibile, gettando uno sguardo al piccolo
falò che
scoppiettava allegramente al centro di quell’accampamento
provvisorio. Non
dovetti nemmeno ravvivarlo, poiché ci aveva già
pensato Inuyasha prima di
sparire chissà dove. Proprio la notte ideale per farlo,
ironizzai, alzando gli
occhi verso le fronde sopra di noi per sbirciare attraverso la cappa di
fogliame ed osservare così il cielo nero.
Cosa mi aspettassi di vedere non
lo seppi neanche io, poiché la luna, che nel mio sogno era
apparsa così vivida
e reale, un cerchio perfetto dall’alone argentato che si
stagliava contro la
coltre celeste, in quel momento non c’era. Si vedeva soltanto
quell’enorme
manto d’ebano nascosto a tratti dalle cime degli alberi, una
coltre scura sulla
quale brillava una vaga trapunta di stelle.
Allora perché non facevo
altro che
pensare a quell’incubo, forse persino più delle
sere addietro? Non seppi darmi
una risposta e nemmeno la cercai, afferrando semplicemente il mio
shakujo [3]
per
allontanarmi poi di soppiatto da lì, alla ricerca di
Inuyasha. Sentii giusto un
piccolo miagolio e mi voltai appena, vedendo Kirara che, ancora un
po’
assonnata, mi fissava. Mi portai l’indice della mancina alle
labbra per farle
cenno di non far rumore, e lei, dopo aver dato vita ad un altro
miagolio ed
aver quasi rischiato che Sango, sentendola, si svegliasse, si
accoccolò
nuovamente contro di lei, coprendosi un po’ il musetto con le
sue due code.
Sospirai sollevato e ripresi il
mio cammino, inoltrandomi nel fitto sottobosco in cui, solo di tanto in
tanto,
si udiva il basso richiamo di qualche rapace notturno. Mi ritrovai ben
presto a
girovagare senza meta, non sapendo dove quello sciocco si fosse
cacciato.
Sapevo che non avrei dovuto lasciare le ragazze da sole per andare a
cercarlo,
questo era certo, ma quella notte il più vulnerabile di
tutti era proprio lui.
La Divina Kagome poteva contare sulle
sue
frecce e sulla sua energia spirituale, Sango sul suo fedele Hiraikotsu
- ormai
rimesso a nuovo dal vecchio Yakuro Dokusen - e sul supporto di Kirara,
e anche
Shippo, bene o male, sapeva cavarsela da solo. Quello stupido hanyou,
invece,
era quasi del tutto inoffensivo in serate come quella. E battere degli
youkai a
suon di pugni non era l’ideale. Rammentavo sì quel
giorno in cui aveva
combattuto in forma umana contro Tokajin, il falso eremita, ma
ricordavo ancor
più la sgradevole sensazione e l’opprimente senso
d’abbandono che tutti noi
avevamo provato nel crederlo morto con lui. E io non volevo che
ricapitasse una
cosa del genere.
Aumentai dunque il passo, stando
attento a dove mettevo i piedi onde evitare di inciampare in qualche
radice
nascosta sotto il terreno. Nonostante non fosse una serata fredda, il
mio
respiro si condensava in piccole nuvolette di vapore, e
l’unico suono che
cominciai ad udire, mano a mano che avanzavo, fu soltanto il mio
ansimare a
fatica a causa della fitta vegetazione e lo scalpiccio dei miei sandali
sulle
poche foglie morte che ricoprivano il terreno. Incespicavo quasi in
continuazione e avanzavo troppo lentamente, mentre sentivo lo
strisciare dei
primi rettili che fuoriuscivano dalle loro tane nonostante
l’alba ancora
lontana.
Mi ritrovai ben presto su uno
stretto sentiero irto di piante, probabilmente percorso da ben pochi
uomini
fino a quel momento, che si inerpicava zigzagando fra quelle immense
file di
alberi che avevano cominciato a farsi fortunatamente più
rade. Le loro cortecce
erano del tutto ricoperte di muschio, e le radici erano contorte e
nodose,
nascondiglio perfetto per piccoli animali.
Cespugli e rovi crescevano sul lato nord
di
quel piccolo boschetto, impedendomi il cammino e facendo sì
che le maniche
della mia kesa [4]
si impigliassero nei rami sporgenti, ma capii di essere sulla buona
strada
proprio quando vidi un pezzo di stoffa del kariginu [5]
di
Inuyasha. Difatti non lo trovai molto distante da lì, seduto
sull’erba ai
limitari di quel boschetto, con lo sguardo perso nel vuoto.
Il debole vento che si levava di
tanto in tanto gli gonfiava le vesti e gli scompigliava dolcemente i
lunghi
capelli neri, facendoglieli a volte ricadere davanti al viso senza che
lui se
ne curasse molto. Sembrava assorto in chissà quali pensieri,
come ogni qual
volta diventava umano o come quando si ritrovava a pensare alla defunta
Kikyo.
La sua
Kikyo.
Indugiai un po’, ma forse fu
al
pensiero che anche in quel momento stesse ricordando lei a farmi
indietreggiare
del tutto, quasi avessi cambiato idea e volessi lasciarlo solo a
riflettere.
«So che sei lì,
monaco», si
fece
però udire lui e, sussultando un po’, fu con le
mani alzate che uscii da dietro
a quei cespugli, facendo tintinnare di poco gli anelli del bastone
quando lo
mossi.
«Accidenti, anche senza quel
tuo
terribile fiuto sei riuscito a scoprirmi», provai a
ridacchiare con fare scherzoso,
abbozzando persino un sorriso - che in quel momento reputai io stesso
fin
troppo falso - nonostante Inuyasha mi stesse dando la schiena.
«Per quante
volte ti si ripeta che quando sei umano non devi allontanarti da noi,
tu fai
sempre l’esatto opposto».
A quel mio dire, lui sbuffò,
agitando persino una mano in risposta. «Feh! Avevo bisogno di
starmene da solo».
«Tu hai sempre
bisogno di
startene da solo», replicai sarcastico, alzando finemente un
sopracciglio prima
di avvicinarmi maggiormente e sedermi con fare tranquillo accanto a
lui,
abbandonando lo shakujo al mio fianco.
Lui mi degnò appena di
un’occhiata,
ritrovandosi a sbuffare per l’ennesima volta e alzare poi lo
sguardo verso il
cielo nero. «Non cominciare, Miroku», mi
freddò. «Non è serata».
Gli scoccai un’altra rapida
occhiata, decidendo infine di non ribattere e di tacere semplicemente.
Se conoscevo
abbastanza bene Inuyasha, alla fin fine avrebbe aperto bocca lui.
Restammo
quindi entrambi in silenzio a fissare la volta celeste sopra di noi,
senza
cercare in nessun modo di intavolare un discorso ma concentrandoci
soltanto
ognuno sui propri pensieri. E io di riflettere ne avevo davvero
bisogno.
Non più di pochi mesi
addietro,
prima che accorciassi ancor più la mia vita risucchiando
l’aura velenosa di
Naraku, avevo praticamente chiesto a Sango di partorire i miei figli e
di
passare con me il resto della sua vita. Avrebbe dovuto essere una lieta
notizia, un avvenimento che avrebbe dovuto portare gioia nei cuori di
entrambi,
ma io, sebbene sentissi di amarla, di amarla davvero, sembravo
quasi non essere soddisfatto. Era come se
qualcosa, o per meglio dire qualcuno, frenasse quella
felicità che avrei dovuto
provare.
Che uomo spregevole che ero.
Ferire in questo modo i sentimenti sinceri di Sango senza che lei se ne
rendesse conto. Probabilmente perché, in fondo in fondo,
conoscevo fin troppo
bene la causa di quella che era diventata per me una sorta
d’indecisione. Il
problema era che non volevo ammetterlo a me stesso né tanto
meno illudermi.
Questo qualcuno aveva ancora un piede in due staffe senza che mi ci
mettessi
anch’io a confonderlo di più.
«Avremmo dovuto rimetterci
già in
viaggio», si fece sentire d’un tratto la voce di
Inuyasha, interrompendo quel
sottile silenzio che era regnato fino a quel momento e disfacendo al
tempo
stesso il filo dei miei pensieri.
Scossi di poco il capo per
riprendermi, sospirando. «Ci rimetteremo in viaggio
domattina, non appena
potrai muoverti liberamente», ribattei, quasi stupendomi del
perché continuassi
a stupirmi dei suoi rozzi modi di fare. «Girare a vuoto non
ci è comunque
d’aiuto».
«Ma nemmeno starcene fermi lo
è»,
volle aver ragione come un bambino capriccioso. «Mentre noi
siamo qui a girarci
i pollici, Naraku potrebbe trovare il modo di completare la
sfera!»
A quel suo dire allungai una mano
per prendere il mio bastone, picchiettandoglielo subito dopo con poco
garbo
sulla testa. «Non essere stupido», replicai, senza
curarmi delle lamentele che
quello scemo di lasciò sfuggire. «Se avesse
potuto, l’avrebbe già fatto da un
pezzo», sospirai ancora, aggrottando di poco le sopracciglia
prima di assestare
un altro colpo, venendo stavolta allontanato da lui che,
com’era prevedibile,
mi inveì contro. Ma io non vi diedi peso, continuando
«Anch’io sono impaziente
quanto te, Inuyasha, ma dobbiamo restare calmi e ragionare».
E se lo dicevo io, un uomo la cui
vita era praticamente appesa ad un filo, voleva significare molto.
Però
Inuyasha ai ritrovò a sbuffare e ad alzarsi in piedi,
poggiando una mano
sull’elsa della sua Tessaiga.
Abbassò poi lo sguardo verso
di
me, fissandomi attentamente con quei suoi occhi non più
dorati ma marroni. «Tipico»,
sbottò. «Sempre a prendervela comoda, voi
umani».
Nonostante tutto, riuscì a
strapparmi un sorriso. «Abbiamo ritmi diversi dai
tuoi», ci tenni a ricordargli
sebbene lo sapesse, alzandomi poi a mia volta. «Ci
converrebbe tornare dalle ragazze,
piuttosto», soggiunsi, sistemandomi qualche piega della kesa
prima di scoccare
un’occhiata ad Inuyasha e sorreggere meglio il mio shakujo.
«Abbiamo bisogno
anche noi di riposo».
«Tu
ne hai bisogno, forse»,
ci tenne ad avere l’ultima parola, precedendomi in quella
fitta boscaglia
subito dopo ed imprecando quando le maniche dell’abito
cominciarono ad
impigliarsi nei rovi. Io lanciai un ultimo sguardo a quella volta scura
che ci
sovrastava, reprimendo dentro di me qualsiasi pensiero o sentimento.
La nottata sarebbe stata ancora
lunga e popolata da incubi, ne ero certo.
[1]
Titolo ispirato ad un’antologia di doujinshi chiamata
per l’appunto “Shade garden and sky”,
alla quale hanno collaborato molte doujika.
[2] Strumento
musicale tradizionale giapponese
appartenente alla famiglia della cetra, derivato dal Guzheng cinese.
Il corpo dello
strumento è costituito da una cassa armonica, lunga circa
due metri e larga tra
i 24 ed i 25 cm, costruita, in genere, con legname di Paulownia (Kiri
in giapponese).
Su di essa corrono
tredici corde di uguale diametro ed aventi stessa
tensione, ognuna delle quali poggia su di un ponticello mobile.
Il koto viene
paragonato al corpo di un drago cinese disteso. Per tale motivo le
diverse
parti di cui esso è formato assumono dei nomi che ricordano
quelle del mitico
animale.
[3] Bastone
sacro che portano i monaci
buddisti, caratterizzato
da degli anelli sulla sommità. Viene utilizzato soprattutto
nelle preghiere o,
in mani più esperte, come arma offensiva o di difesa.
Il numero di
anelli è determinato dalla condizione del suo possessore,
sebbene la maggior
parte degli shakujo siano costituiti da sei anelli.
[4] Il tipico
abito scuro indossato dai monaci
buddisti, dal sanscrito “Kashaya”, che significa
“Colore opaco”.
Viene drappeggiata sotto
un braccio e fissata alla spalla opposta. Si pensa che la kesa sia
stata
modellata in riferimento ad un indumento che il Buddha si
cucì da solo
utilizzando brandelli di stoffa utilizzati per coprire i cadaveri.
[5] E’ la
veste
tradizionale indossata dai Kannushi, ovvero i sacerdoti shinto, durante
le
feste.
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