5. INCONTRI
The sun goes down
I feel the light betray me
– Papercut, Linkin
Park –
Le
ci sarebbero voluti secoli per
abituarsi alla sgradevole sensazione del passaggio da un Portale
all’altro, e
al suo stomaco probabilmente non sarebbe bastato nemmeno tutto il tempo
del
mondo.
Lucius
le stava ridendo dietro.
–
Sta’ zitto, non è divertente! –
lo rimbrottò lei, rassettandosi l’abito con tutta
la dignità possibile.
Dall’arcata
al centro della
Piazza del Vecchio Regno erano sbucati al centro di un’altra
piazza,
notevolmente più piccola e molto meno fastosa. Aurin era una
cittadina minore
di Sonnerg: occupava circa un terzo dell’estensione della
capitale Vihrea, ma era
molto rinomata per le sue antiche tradizioni di Arte Orafa, che da
secoli si
tramandava di padre in figlio all’interno delle famiglie che
ne avevano scritto
la storia.
–
Benvenuta nella Terra del Sole,
cerbiattina! –
–
Un ottimo primo passo, non c’è
che dire – borbottò lei.
–
L’importante non è non cadere,
ma sapersi rimettere in piedi –
Regan
fu colta da un’improvvisa
illuminazione.
–
Il Coordinatore di questa Terra
è una donna, vero? Renise, se non sbaglio
–
Chissà
da dove le veniva
quell’informazione. Non era stata consapevole di saperlo fino
a quell’esatto
istante.
–
Esatto. Renise Urwald, la più
anziana dei Coordinatori attuali –
La
prima cosa che Regan notò era
che lì il clima era sensibilmente più mite che a
Norden. Una corolla di
botteghe e osterie si affacciava sullo spiazzo lastricato di pietra
rosata, al
centro della quale si ergeva un baldacchino di marmo, sormontato sulla
cima
della tonda cupola di vetro da una scultura laminata d’oro
zecchino che
raffigurava un sole dai raggi serpeggianti attorno a un nucleo vuoto.
Abbassò
subito lo sguardo, colta da una repentina vertigine che la costrinse a
sorreggersi a Lucius per non perdere l’equilibrio. Nella sua
testa che
vorticava emerse una visione sbiadita, Prince Edelberg che
dall’alto la
guardava con un sorriso solare.
Cercando
di tornare in sé, Regan
arrossì. Decisamente quei Portali non le andavano a genio.
C’era
parecchia gente vociante in
giro e una seconda corolla orlava il limitare della piazzetta:
bancarelle di
frutta e ortaggi, dolciumi e scampoli si susseguivano in esplosioni di
colori e
profumi a perdita d’occhio, finendo per perdersi nella
confusione della folla.
Era strano a dirsi, ma in tutto quel marasma colorato Lucius spiccava
molto più
che a Kauneus: alto, completamente vestito di nero, e così
pallido in confronto
alla carnagione olivastra degli abitanti del posto. I suoi occhi, di un
azzurro
più ceruleo di quello a cui Regan si era abituata sotto ai
cieli nuvolosi di
Norden, vagavano qua e là, esplorando la zona guardinghi.
Quel luogo le era
inspiegabilmente familiare; lo aveva già visto da qualche
parte, ma non
riusciva a capire dove. Forse faceva parte di quelle cose che aveva
dimenticato.
–
Sciò, sciò, intralciatori! –
berciò un vecchietto ingobbito. Li scansò
malamente facendosi largo con il
bastone da passeggio, portando nella mano libera un grosso paniere
pieno zeppo
di cavoli un po’ ammaccati. Imprecando burbero in un dialetto
che Regan non
conosceva, varcò il Portale e scomparve. Nel medesimo
istante, uscì un uomo
imbacuccato in un mantello pesante, un cappello a larghe falde calcato
in
testa. Le passò accanto di fretta, senza nemmeno scusarsi
per la spallata che
le diede mentre si affrettava a disperdersi nella folla.
Regan
gli imprecò dietro,
massaggiandosi la spalla indispettita.
L’urbanizzazione
di Aurin era
molto diversa da quella di Kauneus: niente palazzi maestosi, niente
stradone
lastricate, ma soltanto casette in legno e pietra e un dedalo di viuzze
polverose. Regan si rallegrò di essere stata costretta a
mettere gli stivali di
Angina, perché altrimenti tutta quella polvere le sarebbe
finita nella scarpe.
–
Andiamo – Lucius le diede un
colpetto d’incitamento sulla schiena. – Avremo
tempo un’altra volta per fare un
giro al mercato. Adesso è meglio muoversi, il sole non
aspetterà di certo noi –
A
Regan sfuggì il senso di
quell’ultima frase, ma non si fermò a questionare.
Il
villaggio non aveva mura che
la recintassero o porte simboliche che ne segnassero i confini:
c’era
semplicemente un sentiero di terra scura che si dipanava da due lati
opposti
attraverso la prateria, conducendo da una parte al confine con Brenner,
attraverso un fitto tappeto di alberi, e dall’altra verso le
pianure. Sembrava
che l’inverno, lì, non fosse nemmeno in vista,
quando invece sul calendario
mancava poco al Solstizio.
–
Come fa questa gente a
difendersi? Voglio dire, se sono artigiani dell’oro, avranno
parecchie
ricchezze, tra una bottega e l’altra. Faranno gola a parecchi
briganti e sono
circondati dal nulla, senza mura, milizie, praticamente
indifesi… –
–
Vedi, cerbiattina, la prima
regola da imparare quando si vuole viaggiare per le Sette Terre e
tornare a
casa interi, o almeno vivi, è che chi si ferma alle
apparenze è spacciato.
Aurin ha dei guardiani che, da che esistono, non hanno mai fallito di
proteggerla –
Uscendo
dal paesello, una sorta
di pietra miliare appoggiata tra le sterpaglie, che le si avviluppavano
intorno
quasi fino a inghiottirla, comunicava ai viaggiatori un messaggio nella
stessa
lingua del motto della Lega, a stento leggibile da quanto corroso dal
tempo e
dalle intemperie.
Dormientes Umbras numquam excita.
Mentre
lei e Lucius, a piedi,
percorrevano il sentiero verso il Bosco, Regan si accorse che il suolo
scintillava come se fosse tempestato di diamanti o minuscoli cocci di
vetro.
Lungo i bordi della strada, larga quanto bastava per permettere il
passaggio di
un carro, prosperava una moltitudine di erbe e fiori che Regan non
riusciva a
riconoscere.
–
Resta al centro del sentiero,
per favore – scattò Lucius, appena lei fece per
avvicinarsi a un grosso cespo
di fiori dai carnosi petali gialli.
–
Stavo solo… –
–
Al centro, Regan – ribadì
Lucius, riportandola di forza in mezzo alla stradina. – Non
farmelo ripetere di
nuovo –
Lei
si massaggiò il braccio, un
po’ ammaccata nell’orgoglio per il trattamento da
bambina appena ricevuto.
–
Che cos’ha di pericoloso in un
campo di fiori? –
Lucius
emise una risatina
sinistra.
–
Non è il campo di fiori in sé.
È quello che lo abita –
Scettica,
Regan indagò con lo
sguardo tra l’erba alta e folta che danzava lambita dalla
brezza fresca, ma
tutto ciò che si poteva distinguere erano fiori di
innumerabili varietà sparsi
tra il verde a perdita d’occhio.
–
Io non vedo niente –
Lui
levò impazientemente gli
occhi al cielo.
–
Ma tu mi ascolti quando cerco
di insegnarti qualcosa? Cosa ti ho appena detto in merito a chi si
ferma alle
apparenze? –
Sulla
tentazione di credere che
si stesse solamente prendendo gioco di lei vinse il buonsenso e da
lì in poi
Regan stette bene attenta a rimanere gomito a gomito con lui.
In
linea d’aria, la distanza tra
il villaggio e il Bosco appariva irrisoria; percorrere a piedi la sola
via che
conducesse dall’una all’altro, tuttavia, era un
altro paio di maniche. C’era un
laghetto paludoso sulla sinistra e la stradina lo costeggiava per un
tratto,
assumendone la curva arrotondata, per poi tirare nuovamente dritto e
proseguire
così fino a che non veniva inghiottita dalla vegetazione.
Poco prima che
iniziasse il Bosco, in una piccola radura secca, sorgeva una casupola
decrepita, con i muri fatti di pietre grossolanamente addossate
l’una all’altra
e il tetto di paglia. Porta e finestre erano sprangate.
–
Dov’è che stiamo andando? –
domandò.
Era la terza volta che ci provava, e le prime due Lucius
l’aveva liquidata con
un banale “Vedrai”.
–
È proprio vero che la curiosità
è donna –
Faceva
abbastanza caldo da
potersi togliere il mantello, cosa che Regan aveva già fatto
da un pezzo. Lui,
invece, non voleva nemmeno saperne di slacciarsi qualche alamaro.
–
Che cosa sai delle ninfe,
cerbiattina? –
Regan
fu presa in contropiede.
Poco,
ecco cosa sapeva delle
ninfe.
–
Abitano le macchie boscose –
rispose, esternando direttamente le nozioni nell’ordine in
cui le si
proponevano. – E sono… be’, sono le
creature più vicine alla Madre che siano
mai esistite e sono antiche quanto lei –
–
In pratica non sai un bel
niente –
–
Scusami se non sono onnisciente
come te! –
–
Ma come siamo permalosi! –
commentò lui, ridanciano, mentre le scompigliava i capelli.
– Stavo solo
cercando di capire fino a che punto tu andassi istruita per
l’imminente
incontro con loro –
Regan
stava iniziando a
sprofondare nella confusione più totale e in cuor suo si
augurava di aver
frainteso.
–
Cosa vorre… ? –
–
Innanzitutto – la interruppe
lui, puntandole contro un dito. – Le ninfe disprezzano
profondamente qualunque
essere vivente più evoluto di una scimmia. Il che ha fatto
sì che si
guadagnassero tutto il mio rispetto e la mia stima, ma non
giocherà certo in
nostro favore –
Come
premessa suonava tutt’altro
che rassicurante.
–
In secondo luogo, la loro
percezione del creato è completamente diversa dalla nostra:
loro non vedono la
materia, ma l’energia che vi è insita, pertanto
sarai lieta di sapere che loro
non ti guarderanno male perché hai i capelli color sangue.
Lo faranno
semplicemente perché sei una piccola sudicia demone priva di
rispetto per la
Madre – Lucius le rivolse quello che lei suppose dovesse
essere un sorriso
incoraggiante.
–
Io rispetto la Madre con tutta
me stessa! – protestò lei.
–
Ho paura che questo sia il tuo
umile e quantomeno inutile punto di vista – la contraddisse
lui, ostentando un
rammarico puramente caricaturale. – Vedi, ci sono parecchie
filosofie al mondo
e sebbene tutte si rifacciano più o meno al medesimo filo
conduttore, ci sono
differenze abissali negli sviluppi di ciascuna di esse. Gli umani, ad
esempio,
hanno ingenuamente eletto la loro razza a dominatrice del pianeta e si
sono
creati divinità in linea con la loro necessità di
controllo sul corso degli
eventi: loro offrono sacrifici propiziatori, seguono comportamenti
retti per
ottenere ricompense celesti dopo la morte, adorano i loro
déi perché sono
convinti che così si meriteranno la loro benevolenza
–
Era
una credenza molto comoda,
vista così, come una trattativa commerciale: dare per
ricevere qualcosa in
cambio. Un affare, praticamente. Ma forse gli umani, effimeri e deboli
com’erano, avevano qualche diritto di aggrapparsi a certe
convinzioni per
sopravvivere.
–
Le nostre razze, invece –
continuò Lucius. – Possiedono una
sensibilità diversa, rispetto a loro. Noi
avvertiamo sfumature più profonde nelle cose, quindi ci
è più semplice
comprendere la necessità di rispettare la fonte della nostra
energia vitale. Ad
alcuni non importa comunque – puntualizzò con una
scrollata di spalle – Ma è
per questo che c’è la Lega –
Il
sentiero aveva iniziato a
degradare progressivamente; davanti a loro, il Bosco di Aurin si
stagliava
contro il cielo azzurro nel suo manto verde scuro, attraverso il
qualche pochi,
fragili raggi di sole riuscivano a penetrare.
–
Ciononostante, mangiamo gli
animali, tagliamo gli alberi, scaviamo nelle montagne – stava
spiegandole Lucius,
nell’istante in cui entrarono nella zona ombreggiata sotto
alla coltre di
piante. – Non siamo in grado di vivere di sola energia, come
le ninfe. La
nostra dimensione corporea ci costringe a nutrirci di pezzi della
Madre, dei
suoi stessi figli, che agli occhi delle ninfe sono sacri e inviolabili,
e a
costruirci case di legno e pietra. E poi siamo avidi di possedere, di
prevalere
gli uni sugli altri, ci ammazziamo tra di noi… in un certo
senso, è proprio
questo a renderci rozze creature inferiori. A parte, naturalmente, il
nostro
famigerato egoismo –
–
Tutti questi preamboli per
dirmi che stiamo andando dalle ninfe? –
–
Sì – rispose Lucius,
scavalcando un tronco d’albero abbattuto.
–
Perché stiamo andando
dalle ninfe? –
Era
particolarmente scontenta
della lunga gonna del vestito che era stata costretta a indossare:
adesso che
si stavano addentrando nella boscaglia, aveva iniziato a impigliarsi
ovunque,
così le toccava tenerlo raccolto tra le mani, facendo bene
attenzione a non
strapparlo. Era una vecchia veste dai colori tenui che era appartenuta
a
Eleonora, lisa e rammendata in un paio di punti. Almeno non le sarebbe
dispiaciuto se si fosse rovinata.
Lui
si voltò per affibbiarle
un’occhiatina ironica.
–
Non sei di gran supporto contro
il luogo comune delle ragazze carine e stupide, sai? –
Il
solo motivo per cui Regan non
replicò era che era troppo distratta da ciò che
la circondava: felci alte fino
alla sua vita tappezzavano la terra in mezzo a cui camminavano,
lasciando a
malapena lo spazio necessario a passare. Il sentiero si era
sensibilmente
ristretto, ma aveva conservato quell’inspiegabile scintillio
cristallino, anche
se là sotto di luce ne arrivava pochissima. Attraverso
l’aria umida le sembrava
di riuscire a sentire il respiro degli alberi, le loro voci sommesse
che
sussurravano racconti troppo remoti perché lei ne potesse
intuire le trame.
Fruscii e scricchiolii si susseguivano in ogni dove, sporadicamente
accompagnati da versi di dubbia natura. Nonostante questo, la pelle
d’oca di
Regan era dovuta alla sua meraviglia nei confronti di un luogo il cui
spirito
le dava l’impressione di danzarle intorno e sfiorarla per
gioco, nel tentativo
di catturare la sua attenzione. Era così presa da quelle
sensazioni che, senza
volerlo, aveva lasciato andare l’abito e quasi aveva smesso
di badare a dove
metteva i piedi. Lo vide con la coda dell’occhio, e non era
nemmeno tanto
sicura di cosa, di preciso, avesse
visto: qualcosa di smile a un’ombra, ma denso e concreto,
qualcosa di vivo. Era stato solo un
guizzo sotto a uno
strato di foglie; forse
l’immaginazione le aveva giocato un brutto scherzo. Eppure,
fermandosi per
controllare, qualcosa stava strisciando, nascosta nel verde.
Accigliata,
si chinò con
circospezione. Le foglie smisero istantaneamente di muoversi, come se
un
ipotetico alito di vento che un secondo prima le aveva sollevate si
fosse
placato proprio in quel mentre. Regan protese una mano, avanzando di un
passo
immersa in un torpore annichilente. La suola dello stivale
calpestò l’erba
fresca che nasceva là dove si interrompeva il sentiero. Le
foglie tremarono un
singulto fulmineo.
–
Regan! –
Il
terrore nel richiamo rauco di
Lucius la sottrasse con inconcepibile prontezza allo stato di trance in
cui si
era lasciata scivolare. Si sentì strattonare via dal ciglio
del percorso,
sollevata da terra, e quando i suoi piedi ritrovarono il suolo, davanti
a lei
c’era l’espressione furiosa di Lucius, le narici
bianche e dilatate, il respiro
affannato. Le sue mani le spingevano le spalle fino a farle male.
–
Ti spiacerebbe spiegarmi cosa
c’era di così incomprensibile in “resta
al centro del sentiero”? – le sibilò a
un palmo dal naso. – Credi forse che te l’abbia
detto così, per gioco? –
Lei
aprì la bocca per rispondere,
ma non uscì alcun suono. Una reazione così
spropositata non se la sarebbe
aspettata.
–
Ti devo mettere al guinzaglio o
pensi di potercela fare a proseguire secondo le istruzioni che ti ho
dato in
partenza? Preferisci che ti porti in braccio? –
Regan
sedò seduta stante la parte
di sé che le scalpitò nel petto, allettata da
quell’ultima proposta, e voltò il
viso altrove.
–
Starò più attenta – promise.
Lucius
la lasciò andare, sfogando
la rabbia residua in un lungo sospiro. Persino la minima traccia di
colore che
poteva recare la sua pelle sembrava colata via in uno spavento che non
aveva
ancora cessato del tutto di scuotere il suo autocontrollo.
Non
aggiunse altro. Le voltò la
schiena e si rimise in marcia, le lunghe gambe che sforbiciavano
falcate più
lunghe e frettolose. Da lì, Regan fece una fatica non
indifferente per stargli
dietro.
Era
intenso l’odore di terra
bagnata che aleggiava in quella foresta. Era quasi come se qualcuno
rimescolasse continuamente il sottobosco.
–
Quando arriveremo, lascia
parlare me – esordì Lucius a un tratto.
Regan
non aveva problemi, da quel
punto di vista, ma dal discorso precedente le era rimasta qualche
lacuna
dubbiosa.
–
Mi chiedo se loro lasceranno
parlare te, visto che ci odiano tanto –
–
Perché non ascolti mai quello
che dico, cerbiattina? –
–
Ma sei stato proprio tu a dire…
–
–
Che odiano la nostra razza –
completò lui. – La nostra razza, capito? Non noi nello specifico – Un
sorriso furbesco gli solleticò le labbra. –
E me men che meno –
–
Che cos’avresti tu di così
speciale? – sbottò lei
–
A parte notevoli dosi di
affabilità e presenza scenica, intendi? – Lucius
si portò due dita alle labbra
e fischiò. In un attimo, in un turbinio di ali nere, Rok
planò da chissà dove e
si posò sul suo avambraccio teso, becchettandogli la manica.
–
Ecco che cos’ho di così
speciale –
Orgoglioso,
come se avesse
compreso ogni singola sillaba, Rok si rizzò tutto, gonfiando
il petto come un
pavone.
–
Non capisco –
–
Rok ha voluto concedermi
l’onore di scegliere di essere il mio Guardiano, anni fa. Tu
lo sai che cos’è
un Guardiano, vero? –
Il
tono supponente di Lucius la
irritò e umiliò al tempo stesso. Regan non aveva
idea del perché certe
informazioni fossero incise così nitidamente nelle sua
memoria, altre fossero
sbiadite e fumose, e altre ancora mancassero del tutto.
Ma
Lucius sapeva come blandire un
animo e non gli ci volle nulla per farle dimenticare
l’arrabbiatura.
–
I Guardiani sono il dono più
inestimabile che la Madre possa concedere – disse, grattando
la testolina
docilmente piegata di Rok. – Un animale incontra un uomo e
tra loro si crea una
specie di connessione a livello spirituale. Se un animale sceglie di
essere il
tuo Guardiano, ne devi essere estremamente lusingato: è un
evento che non accade
tutti i giorni. Significa che la Madre ha una predilezione per te
–
–
Oh, capisco – fece Regan,
corrucciata. – Sei il cocco della Madre, quindi agli occhi
delle ninfe
apparirai come una specie di eletto, dico bene? –
–
Qualcosa del genere – gorgogliò
lui, grondando compiacimento da ogni singolo poro della pelle diafana.
La parte
dello sbruffone che amava tanto interpretare gli calzava a pennello
addosso, si
sposava alla perfezione con la sua faccia da bello e maledetto, un
po’ bravo
ragazzo, un po’ scavezzacollo, ma a tratti, in qualche
momento di inconsapevole
distrazione, nelle sue iridi di ghiaccio celeste si intravedeva
qualcosa di
profondo e tristemente ombroso, ma durava sempre troppo poco
perché se ne
potessero ricavare altro che mere supposizioni.
–
Ora basta perdesi in
chiacchiere. Manca poco –
Si
rimisero in marcia per
l’ennesima volta. Via via che ci si addentrava di
più, la vegetazione si
infoltiva e diventava più intricata e selvaggia, ma una cosa
strana saltò
all’occhio di Regan solo dopo un bel po’: non
c’era traccia di animali di alcun
tipo. Niente orme, né tane, né rami spezzati o
foglie mangiucchiate, e nemmeno
versi in lontananza. Il fischio del vento era il solo suono udibile. Di
tanto
in tanto, folate impetuose scuotevano le fronde degli alberi sopra le
loro
teste, producendo un fruscio al contempo lugubre e affascinante. Regan
iniziava
a sentirsi male alle ginocchia, anche se non era un percorso
particolarmente
impegnativo, e i muscoli delle gambe erano già indolenziti.
Non doveva essere
granché avvezza all’attività fisica.
Mentre
attraversavano una radura,
una nuvola di farfalle si sollevò da un cespuglio fiorito a
pochi passi da lei,
spaventate dall’improvvisa intrusione. Regan le
osservò incantata: erano di
tonalità calde che andavano dal rosso al giallo, con piccole
macchie nere a
formare motivi astratti, alcune dotate di lunghe code appuntite, altre
più
semplici, ma tutte fluttuavano con la stessa mirabile leggiadria da un
ramoscello all’altro, disegnando l’aria con i loro
colori ammalianti sotto alla
calda luce solare, che in quel punto trovava facile accesso nello
spazio lasciato
aperto dalla mancanza di alberi. Sarebbe stato bellissimo se anche una
soltanto
di quelle creature fosse discesa per un momento a posarsi sulla sua
mano per
lasciarsi ammirare da vicino.
Il
desiderio di Regan non si era
nemmeno formulato del tutto che una delle farfalle con le code
abbandonò il
gruppo per veleggiare armoniosamente verso di lei, su e giù,
priva di peso,
fino a che, con un ultimo battito di fragili ali, si fermò
proprio al centro
del palmo che le aveva disteso davanti, non senza una certa
incredulità.
Era
meravigliosa, impalpabile
velo di colori in cui, incredibile a pensarci, risiedeva la stessa
identica
scintilla di vita che abitava esseri grandi migliaia di volte
più di lei.
Eppure in quella bellezza così delicata c’era
qualche cosa di forte, un potere
che Regan riusciva a distinguere ma non a comprendere.
D’un
tratto dal punto in cui
giaceva la farfalla scaturì un formicolio insolito, come se
il sangue stesse
fluendo tutto lì. Era difficile dire se fosse gradevole o
meno; non che le
facesse male o altro, era semplicemente strano.
–
Regan! – tuonò la voce irosa di
Lucius, lontana. Rok volò via dalla sua spalla. –
Oh, maledizione! –
Un
brivido improvviso la scosse
da capo a piedi mentre un dolore simile a quello di una puntura le
trapassò la
mano. Si sorprese a emettere un singulto strozzato proprio mentre la
farfalla
se ne svolazzava via con grazia e disinvoltura, lasciando una goccia di
sangue
a colarle lenta verso il polso nudo. Dietro di lei, il cuore di Lucius
batteva
all’impazzata, mentre lui le correva incontro sciorinando
imprecazioni che a
lei giungevano sorde nelle orecchie ovattate.
–
Regan! –
–
Ti giuro che questa volta non
mi sono mossa dal centro del… –
Lucius
le piombò addosso con la
furia di una tempesta e la sollevò da terra senza rendersene
conto, prendendola
per le spalle.
–
Come ti senti? Ce la fai a
tenere gli occhi aperti? –
–
Ma che diamine stai facendo?
Mettimi giù! – sbraitò lei, livida
dall’imbarazzo.
–
È… è tutto a posto? – si
sincerò lui, attonito e bianco come un cencio.
Lei
si divincolò e per poco non
perse l’equilibrio nel rimettersi in piedi.
–
Ma certo che è tutto a posto,
mi ha solo morso una farfalla! A proposito, da quando in qua le
farfalle
mordono? –
Lucius
boccheggiava, smunto e
sconcertato, fissandola come se non l’avesse mai vista prima
e senza ascoltare
una sola parola.
–
Come diavolo è possibile? –
–
Non lo so, me lo sto domandando
anch’io – disse Regan, mentre si risistemava il
vestito, che le si era
accartocciato addosso nel trambusto. – Voglio dire, chi
penserebbe mai che
delle cosine così graziose e delicate… –
–
No, no, Regan, per l’amor del
cielo! – Con qualcosa che era a metà tra una
risata trattenuta e un rantolo
impaziente, Lucius le prese febbrilmente il viso tra le mani e lo
portò a un palmo
di naso dal proprio. – Non capisci? Le Myrkae sono velenose!
Sono mortalmente velenose, e
tu… tu dovresti
essere… –
Regan
comprese da sola come si
sarebbe dovuta concludere la frase.
Morta.
Nondimeno,
la
sua salute era quella perfetta di sempre, se si tralasciavano le gambe
stanche
e la minuscola ferita puntiforme lasciata dalla farfalla.
–
Sei proprio sicura di sentirti
bene? – insisté Lucius. Le appoggiò due
dita alla gola, là dove pulsava la
giugulare, e fu stupito di trovare pulsazioni forti e regolari.
–
Mai stata meglio! – Regan lo
cacciò via con una spinta.
–
Le Myrcae non si avvicinano mai
alle persone, se non vengono stuzzicate… non credevo fosse
necessario metterti
in guardia –
–
Lucius, la vuoi smettere? –
sbraitò Regan, oltre il colmo dell’esasperazione.
Gli mostrò la mano, che
peraltro non stava nemmeno più sanguinando. – Lo
vedi? È già tutto passato. Non
mi fa nemmeno male. Si vede che quell’esemplare non era
velenoso, o aveva
finitola dose giornaliera –
–
Io proprio non capisco… –
blaterò lui, scuotendo la testa.
–
I vostri schiamazzi stanno
disturbando il mio Bosco, demoni stranieri – disse una pacata
voce femminile
che sembrava provenire da ovunque e da nessuna parte, al di fuori di
tempo e
spazio.
Regan
si guardò intorno, cercando
qualcuno da individuare, ma non trovò altro che
l’infinità di verde che aveva
visto da più di un’ora a quella parte. Poi la
vide: una sagoma a malapena
distinguibile dal profilo della selva, trasparente e fluida come
l’acqua, dalle
fattezze vagamente rassomiglianti a quelle di una persona, che stava
gradualmente acquisendo forma e una parvenza di consistenza.
Non
c’erano molti dubbi circa la
sua identità: quella che aveva davanti non poteva essere
altro che una ninfa.
Erano
ovunque attorno a lei.
Decine e decine di contorni sfocati che si confondevano con
l’ambiente come se
potessero assumerne l’esatta consistenza, la stessa precisa
essenza. Le ninfe,
infondo, erano quello: essenza pura, più che creature
corporee. Sapevano
fondersi con le piante, le rocce, il terreno, potevano dissolversi
nell’acqua e
scomparire in un alito di vento. Se si trovavano in presenza di
persone, erano
persino in grado di imitarne le sembianze, assumendo i caratteristici
tratti
antropomorfi, ma di una corporeità differente, impalpabile,
come fili di fumo
azzurrino modellati a immagine e somiglianza di qualcosa la cui natura
era
troppo diversa dalla loro per poterla replicare verosimilmente.
Immobile
accanto a Lucius, Regan
poteva udire le loro voci sorgere una a una tutt’intorno a
sé. Non suoni
tangibili trasportati dall’aria, ma piuttosto echi remoti che
trascendevano la
materia, sfiorandole direttamente l’anima in migliaia di
vibrazioni che le
rimbombavano nella testa, assumendo ciascuna un proprio significato.
Erano
troppi, però, quei sussurri confusi; le si stavano
ammassando dentro come una
moltitudine di libellule impazzite, fino a stordirla.
–
Basta, basta, per favore! –
supplicò, coprendosi inutilmente le orecchie.
–
Silenzio, sorelle –
La
voce ultraterrena di poco
prima aveva parlato di nuovo, e al suo ordine tutte le altre voci si
sopirono
immantinente, lasciando finalmente tregua alla testa sovraffollata di
Regan.
Guardò
in su, colma di
riconoscenza. Al suo cospetto c’era una creatura che
ricordava una donna,
nell’aspetto: un corpo esile e longilineo, dotato di
accennate forme femminili
e lunghi capelli che sembravano fatti di infiniti fili
d’acqua, la pelle di un
inconcepibile biancore azzurrato, levigata e diafana come marmo. A
Regan dava
l’impressione che, se avesse allungato la mano per toccarla,
sarebbe stato come
tentare di afferrare una nuvola.
–
Chi sei tu che odi le nostre
voci senza il nostro consenso? –
Le
labbra della ninfa non si
erano mosse quando lei aveva pronunciato quelle parole. Due occhi
perlacei
privi di pupilla fissavano Regan guardinghi. C’era una
bellezza strana in
quell’essere, nella delicatezza dei suoi movimenti.
–
Nobile Antares – Lucius si era
fatto avanti, prendendo parola prima che potesse farlo lei, e allora
Regan
rammentò.
“Lascia parlare me.”
Lucius
esibì il consueto saluto
in uso nelle Terre e a questo aggiunse un inchino reverenziale.
–
Questa è Regan, la giovane di
cui ti ho parlato –
Lo
sguardo inespressivo della
ninfa discese su di lei con rinnovato interesse. A giudicare da come
tutte le
altre le obbedivano, doveva essere la loro regina, o qualcosa di affine.
Regan
si affrettò a imitare
goffamente l’inchino, facendo intanto mente locale del fatto
che, se Lucius
aveva parlato alla ninfa di lei, significava che era già
stato lì.
Ecco perché è stato via
così a lungo.
La
ninfa prese a girarle intorno
per studiarla. Le movenze delle sue gambe erano diverse da quelle di
chi
possedeva un corpo di carne e ossa: era una semplice simulazione priva
di reale
conoscenza meccanica.
–
Sei una creatura complessa,
demone bambina –
Regan
lasciò correre il “bambina”
solo perché ritenne più che logico apparire tale
a una creatura che era nata
insieme al mondo. L’incedere di Antares si avvicinava a una
danza lenta, così
come il vagare indagante dei suoi occhi.
Lucius,
ritiratosi in un angolo,
Rok di nuovo sulla spalla, seguiva con un’espressione
riflessiva. Sicuramente
stava ancora pensando all’incidente con la Myrka.
–
Il suo sangue non ha
contaminazioni, Lucius – disse la ninfa. –
È una Pura, come dite voi. Demone figlia
di demoni, come molti altri – La sua mano sfiorò i
capelli di Regan e il suo
braccio. La sensazione fu quella precisamente quella che si era
immaginata:
come entrare in contatto con una nuvola. – Ma se la Madre le
ha dato questi
colori, un motivo esiste – proseguì Antares.
– Quale esso sia, non sono in
grado di indovinarlo, tuttavia è immediato risalire a una
somiglianza con i
figli più temibili che la Madre ha voluto rendere
riconoscibili: piante, fiori,
serpenti, pesci, insetti… Là dove
c’è del pericolo in agguato, i colori si
fanno sgargianti, per colpire la vista dello sprovveduto e avvertire
del
rischio –
Regan
si massaggiò inconsciamente
la puntura alla mano, sentendosi improvvisamente molto stupida.
Dopotutto,
Lucius la aveva implicitamente messa in guardia da tutto ciò
che si trovava
oltre il bordo del sentiero, ordinandole di restare nel mezzo, ma come
avrebbe
potuto anche solo immaginare che delle farfalle potessero essere
pericolose?
–
Anima immacolata, e tuttavia
aggravata da qualcosa che la luminosa innocenza ancora cela –
La mano di
Antares si spostò sul petto di Regan, facendola sussultare.
Gli occhi di perla
della ninfa la scrutarono come se volessero scavarle fin dentro al
cuore.
–
Sento dolore, qui – Una
contrazione impercettibile delle dita immateriali. Qualcosa di simile
alla
compassione nello sguardo. – Chi ti ha ferita, bambina?
–
E
proprio lì, sotto la mano della
ninfa, qualcosa si contrasse in modo anomalo, causando a Regan una
fitta
sgradevole.
“Chi ti ha ferita?”
–
Nessuno. Non che io ricordi –
balbettò Regan a disagio. Cercò Lucius con lo
sguardo, invocando il suo aiuto.
Lui le fu accanto in un attimo con uno dei suoi sorrisi rassicuranti, e
lei si
sentì subito meglio.
–
Nobile Antares – disse Lucius
alla ninfa. – Se Regan è una Pura, dovrebbe essere
in grado di fare sfoggio di
discreti poteri, mentre invece… – Si
voltò verso di lei, lasciando cadere la
frase a metà.
–
Non possiedo risposta per
questo interrogativo. Posso solo dirti che la sua natura è
quella pura di un
demone e nei suoi occhi non ci sono macchie di peccato –
dichiarò Antares.
Regan
trasse un sospiro di
sollievo. Era come se il responso di giorni addietro di Shin fosse
appena stato
riconfermato: era pulita. Non aveva colpe per cui essere perseguita.
Ma
Antares non aveva ancora
finito.
–
La tua innocenza ti protegge,
demone bambina, ma verrà presto il tempo in cui il dolore e
il male del tuo
mondo la corromperanno, e tu dovrai essere pronta ad affrontare le
conseguenze.
Abbi fiducia in chi ne ha in te –
Regan
incrociò lo sguardo di
Lucius, lui le strizzò un occhio con un sorriso. Il suo
cuore saltò un battito.
Sopra
di loro, nel frattempo, la
luce stava iniziando a calare assieme al sole.
–
Vi state attardando – disse la
voce atemporale di Antares, e nello stesso istante le voci delle sue
sorelle
risorsero in un coro di sussurri confusi. – Il tramonto si
avvicina e la via
del ritorno è lunga –
La
testa di Lucius scattò verso
l’alto e i suoi occhi si sgranarono.
–
Dobbiamo andare, Regan – le
disse con urgenza. – Antares – aggiunse poi,
inchinandosi alla ninfa. – Ti sono
grato del tempo che ci hai concesso –
–
Mi rincresce solo di non
esservi stata di aiuto –
–
Al contrario – replicò Lucius.
– Adesso sappiamo che Regan non è il frutto di
qualche esperimento contro
natura. Possiamo cercare le sue radici altrove, e abbiamo un campo
abbastanza
ristretto –
Antares
annuì. Si avvicinò a
Regan, i capelli d’acqua mossi da refoli di vento freddo.
–
Tu possiedi un dono, demone
bambina. Un dono che abbrevia la distanza tra te e la Madre, ma che
allunga
quella tra te e i tuoi simili. Sai di cosa parlo, non è
vero? –
Invece
no, Regan non aveva idea
di che cosa stesse parlando. non aveva mai manifestato segni di doti
particolari e, anzi, come aveva appena rimarcato Lucius, apparentemente
non
aveva nemmeno doti ordinarie. Lucius era perplesso, ma non di certo
quanto lei,
che cercava inutilmente di identificare in sé qualche
caratteristica che
potesse somigliare a un dono. Era
difficile concentrarsi con tutte quelle voci che le risuonavano in
testa.
–
Andate, ora – li esortò
Antares. – Il sole non vi attenderà –
–
Grazie di nuovo, di tutto –
Ci
fu un debole cenno di assenso
da parte di Antares, poi una ventata gelida e impetuosa venne a
spazzare la
radura e in essa si dissolsero, come petali di pioggia, tutte le ninfe
che li
avevano circondati.
Durante
il ritorno, Lucius fece
correre Regan molto più che all’andata. La luce si
era affievolita rapidamente,
facendosi rosata e poi violacea, e ora stava pian piano scivolando
verso il blu
cobalto della sera. Sotto ai loro piedi, la scia luccicante del
sentiero
iniziava a emanare un fioco alone lunare. Quando rispuntarono fuori dai
limiti
della selva, il cielo era già abbastanza scuro da permettere
alle stelle di
stagliarvisi contro in tutto il loro splendore. La luna, piccola e
chiara,
vegliava solitaria l’ennesima notte d’inverno.
All’orizzonte,
a poco meno di un
miglio da loro, Aurin aveva già acceso lanterne e focolari e
molti comignoli
fumavano in piena attività. Il villaggio sembrava un mosaico
di lucciole nella
bassa foschia notturna.
–
Dobbiamo sbrigarci – fiatò
Lucius, trascinandosela dietro come un cagnolino disobbediente.
– Non manca
molto, ma è il tratto più pericoloso –
Regan
non capiva cosa ci potesse
essere di così pericoloso in una distesa di parti priva di
potenziali
nascondigli. La cosa più minacciosa che riusciva a
riscontrare erano versi
indistinti di animali selvatici e frullii d’ali di qualche
uccello notturno.
Respirò a pieni polmoni il profumo di erba bagnata che si
sollevava dai campi,
ma uno strattone di Lucius le impedì di goderselo.
–
Non mi dirai che sei stanca –
–
No, figurati! – esclamò lei,
sardonica, stringendosi il bavero del mantello sulla gola irritata dal
freddo.
– Abbiamo solo camminato per tutto il giorno, non vedo
perché dovrei esserlo! –
–
Abbassa la voce –
–
Altrimenti si svegliano i
fiori? –
–
Non dire sciocchezze –
Normalmente,
si disse Regan, una
battuta del genere sarebbe stata accolta con un’altra
battuta, ma Lucius era
serio e teso e i suoi occhi non facevano che schizzare in ogni
direzione,
all’erta. Era evidente che ci fosse qualcosa che non le stava
dicendo.
–
Vorrei tanto sapere che cosa
c’è là sotto di così
terrificante – bofonchiò, alterata. –
Sono dei miseri
praticelli alle porte del villaggio, non vedo come…
–
Lucius
le aveva chiuso la bocca
con una mano e la teneva stretta a sé. Regan sentiva il suo
cuore batterle
contro la schiena.
–
Zitta e ferma – le sibilò
all’orecchio.
Lei
fece per chiedergli cosa
stesse succedendo, ma si ricordò che la mano di lui la stava
ancora
ammutolendo. Decise che era meglio fare come diceva lui.
Delle
voci maschili e gravi
provenivano da un punto indefinito in direzione di Aurin, grasse risa
alticce.
Forse viandanti ritardatari.
–
Maledizione! – imprecò Lucius,
stringendola ancora più forte. – Non ho abbastanza
forze per teletrasportarci
entrambi –
Senza
che la mano sinistra si
spostasse dalla sua bocca, la mano destra di Lucius si
precipitò verso l’elsa
della spada nascosta sotto il suo mantello. Non la estrasse, ma si
tenne pronto
a scattare.
–
Non c’è tempo per tornare
indietro, sono troppo vicini – Lasciò andare Regan
e la spinse alle proprie
spalle. – Resta dietro di me, qualunque cosa accada
–
–
Chi è che sta arrivando? –
Una
goccia di sudore freddo solcò
il volto esangue di Lucius.
–
Ladri di Anime –
La
nottata era tranquilla e
silenziosa. Avevano venduto bene, lì a Sonnerg; Aurin non
era stata che
l’ultima tappa del loro itinerario commerciale: avevano
venduto anime ricche di
energia ai soliti, facoltosi clienti di fiducia, bramosi di conquistare
poteri
più grandi, o le avevano scambiate con oggetti preziosi,
veleni rari, armi
utili al loro mestiere. Si sarebbero spostati a Brenner, ora, a
raccogliere
nuova merce che poi sarebbero andati a rivendere nei mercati neri di
Asante.
Erano
mercenari ed erano
profumatamente pagati perché erano in pochi a saper fare il
loro lavoro, e per
giunta così bene. Nonostante la Lega avesse la pessima
abitudine di mettere
loro i bastoni fra le ruote e fosse riuscita a catturare molti
colleghi, loro
erano sempre riusciti a sfuggire a qualunque cacciatore, persino ai
più
esperti, e le taglie sulle loro teste crescevano ogni giorno di
più.
Gerjen
sogghignò compiaciuto
degli ottimi affari conclusi, le tasche gonfie di oro sonante, mentre i
due
compagni che camminavano dietro di lui parlottavano con
l’eccesso di
volume di chi non
aveva ancora del tutto
smaltito la sbornia, residuo dai troppi boccali di vino con cui avevano
brindato quella sera.
Non
c’era anima viva nell’aperta
campagna, al di fuori di loro tre. In pochi erano abbastanza potenti
– o
abbastanza sciocchi – da osare avventurarsi oltre i confini
del villaggio dopo
il calar del sole.
Erano
circa a metà strada dal
bosco, quando i suoi sensi innaturalmente sviluppati presentirono una
vaga
presenza non molto distante. Subra e Tjerk notarono il suo stato di
allerta e
di colpo si zittirono.
Si
fermarono tutti e tre. Gerjen
acuì il suo Sesto Senso. Così il loro gergo
chiamava, pressappochisticamente,
la capacità, comune a pochi eletti, di saper rilevare
l’esatto disegno delle
anime come fossero state quadri inconfondibili da valutare a vista, a
volte
anche a distanza.
–
Sono in due, e sono demoni –
disse in un sussurro rauco. – E hanno un potenziale
straordinario –
Subra
contrasse la mascella al di
sotto della corta barba rossiccia e un ghigno avido deformò
la bocca arida di
Tjerk. Gerjen incrociò il suo sguardo cupido ma non gli
prestò attenzione. Era
di gran lunga più interessato alle due anime che avvertiva e
che, diversamente
alla reazione superficiale dei due compagni, stavano suscitando in lui
curiosità mista a allarmismo.
Si
dava il caso che avesse
riconosciuto una delle due anime: ne conosceva molto bene il
proprietario. Si
sgranchì il collo e le dita, facendo crocchiare le nocche.
Appeso al collo
portava un sottile cristallo opaco entro il quale si agitavano luci e
ombre
angosciate.
I
due demoni si erano fermati e
sembrava quasi che volessero aspettarli al varco, offrendosi come
docili prede
rassegnate. C’erano buone possibilità che la
giornata si concludesse con un
bottino inestimabile.
–
Che fortunata coincidenza –
sussurrò tra sé, esultante. Lo stesso ghigno
malvagio di Tjerk calò anche sul
suo volto, sfigurato da parte a parte da una vistosa cicatrice
irregolare.
Erano
vicini, Lucius lo sentiva.
Riusciva a distinguere una ad una le loro aure e associarle con
precisione ai
loro volti spietati. Percepiva l’ingordigia venale di Gerjen
affilarsi come un
coltello contro la pietra.
Sarebbero
stati lì entro pochi
minuti, se non li avevano già sentiti. Non c’era
alternativa: sarebbe stato
costretto ad affrontarli, e uno contro tre, anche se di notevole
abilità, era
uno scontro decisamente iniquo e Regan purtroppo non era in grado di
aiutarlo.
–
Lucius – bisbigliò Regan contro
il suo collo, agitata. – Mi potresti almeno dire se devo
avere paura? –
–
Se tu potessi provare
un’adeguata paura per ciò che sta per accadere, ti
direi di sì, ma forse è
meglio che tu continui a crogiolarti nella tua beata ignoranza
–
Regan
avrebbe avuto tutta l’intenzione
di replicare per le rime, ma qualcosa le disse che il silenzio avrebbe
giovato
di più alla situazione.
Erano
avvolti da una lievissima
nebbiolina che sembrava provenire dal respiro della terra, sollevandosi
da essa
senza appesantirsi di umidità. Passi e voci che prima erano
stati solo rumori
attutiti ora erano lì, in agguato, pronti a colpire.
I
tre uomini materializzarono
davanti a lui e Regan come fossero spuntati dal nulla, e forse era
proprio
così. Era più facile, per loro, compiere magie
che richiedevano grandi sforzi:
loro sfruttavano l’energia delle anime che trafugavano per
alimentare certi
onerosi dispendi. Le usavano anche per combattere. Lucius avrebbe avuto
ben
scarne possibilità anche contro uno solo di loro.
–
Guarda, guarda, guarda – tubò
la voce cruda e arrogante di Gerjen. Era esattamente come lo ricordava
Lucius:
grosso, alto, di aspetto selvatico e feroce. – Chi si rivede
dopo tanto tempo…
– Il suo sorriso carico di sprezzo era quanto di
più lontano dall’umana pietà
di potesse figurare. – Luciferus –
Scandì
quel nome con estrema
lentezza, traendone tanta perversa soddisfazione quanto era il fastidio
che
provocò a Lucius.
Era
più di un decennio che non
veniva chiamato così e non gli era affatto mancato.
–
Gerjen – replicò, mettendoci altrettanto
sprezzo. Regan, alle sue spalle, non si muoveva di un millimetro, le
mani
aggrappate alla sue spalle.
–
Noto che non hai perso il tuo
istinto per i tesori più inestimabili –
commentò l’uomo, allungando a Regan
un’occhiata che rasentava il famelico.
Lui
sapeva. Lui sentiva.
Proprio come Lucius.
E
Lucius, per la prima volta dopo
un tempo che ora gli pareva infinito, aveva paura. Non per
sé, per la propria
incolumità, ma per quella di qualcuno altro.
–
Di cosa diavolo sta parlando? –
farfugliò Regan sul suo collo.
–
Lei non è affar vostro – li
avvertì Lucius, ignorando la domanda e rispondendole al
contempo. La presa
delle dita di Regan si rinsaldarono sulle sue spalle.
–
Non insegnarmi a fare il mio
lavoro, ragazzino – ringhiò Gerjen, e dietro di
lui Tjerk e Subra si
approntarono ad attaccare. – È sempre stata una
tua pessima abitudine e faresti
meglio ad abbandonarla, prima che irriti la persona sbagliata
–
Lucius
sfoderò un sorrisino
modesto.
–
Sai com’è, certi vizi sono come
l’erba cattiva: non muoiono mai –
–
Un po’ come te, vero? –
gracchiò Tjerk, rancoroso. Era grande e grosso,
più di quanto Lucius
ricordasse, capelli lunghi e sporchi a grondargli attorno alla faccia
volgare.
–
Ci puoi scommettere –
Stava
sudando freddo. La sua
mente viaggiava alla velocità della luce, annaspando
disperatamente alla
ricerca di qualche soluzione, di una via di fugo, un appiglio qualsiasi
che
potesse cavarli da quel vicolo cieco, ma non ne trovò. Se
almeno avesse potuto
mettere in salvo Regan…
–
Allora – riprese Gerjen,
querulo, avvicinandosi. – Chi è questa deliziosa
fanciulla? –
Si
mise a ronzare attorno a loro,
e quando la sua manica sfiorò i capelli di Regan, Lucius la
sentì irrigidirsi.
Girò in tondo su sé stesso, seguendo i passi di
Gerjen, tenendo Regan al sicuro
alle proprie spalle. C’erano tutte le premesse
perché la situazione prendesse
una bruttissima piega.
–
Come ho già detto, non è affar
vostro –
–
Oh, un vero peccato – tubò
Gerjen, con una nota afflitta nella voce ruvida. – Contavo di
fare amicizia –
Pronunciò
le ultime due parole
dopo una breve pausa, così mellifluo che suonò
grottesco.
Regan
urlò e all’improvviso
Lucius non sentì più il contatto con il calore
del suo corpo. Tjerk la
stringeva con un braccio possente e nella mano libera gli ardeva una
palla di
fuoco.
–
No! –
Lucius
sfoderò la spada appena in
tempo per deviare la palla di fuoco, che andò a schiantarsi
da qualche parte
dietro di lui. In meno di un battito di ciglia, altre due spade si
levarono in
aria, dandogli addosso. Nel tumulto, un gufo emise un fischio acuto e
si
dileguò in fretta e furia, scomparendo nel nero della notte.
–
Lasciami, brutto bestione! –
stava strillando Regan, dibattendosi furiosa.
Distratto
dalle sue lamentele,
Lucius si scostò appena in tempo per evitare un fendente a
tradimento da parte
di Subra. La lama dello spadone gli saettò accanto,
radendogli il fianco senza
però riuscire a ferirlo. Schivò un secondo
affondo e poi un terzo; parò a
fatica un montante e balzò di lato, tentando un assalto che
Gerjen evitò abilmente.
Alle sua spalle, Subra si avventò in un rovescio agguerrito;
si voltò appena in
tempo per parare e respingerlo, e intanto Gerjen si apprestava ad
attaccarlo di
nuovo. Lucius si abbassò, scampando per miracolo a un colpo
che quasi già si
era sentito nella carne. Con un fendente rapido riuscì a
ferire Subra al
braccio destro, ma questi parve accorgersene appena. Per sottrarsi alla
rimonta
dell’offeso fece un movimento troppo brusco e azzardato: una
stilettata sferzante
al fianco gli rivelò che la ferita gli si era riaperta.
Maledizione.
Strinse
i denti, ansante. Il
fianco gli pulsava ferocemente, bollente come il sangue che stava
perdendo,
sottraendogli forze che già scarseggiavano.
Non
aveva tempo di perdersi in
duelli: doveva riuscire a sottrarre Regan alla morsa di Tjerk prima che
fosse
tardi. Poteva contare sul fatto che difficilmente sarebbe riuscito a
teletrasportarsi con lei, dati i chiari segni di ubriachezza che ancora
manifestava, ma questo non gli avrebbe impedito di farle del male.
Conosceva la
prassi: sarebbe stato Gerjen a prenderle l’anima, se fossero
riusciti a
portarla via, perché l’anima di Regan, per giunta
intatta da ogni peccato,
aveva un valore altissimo e Gerjen non avrebbe mai permesso che uno dei
suoi
scagnozzi rischiasse di rovinarla. Questo, tuttavia, non significava
necessariamente che non avrebbe permesso a Tjerk di ucciderla, prima.
Cercò di
raggiungerlo, ma Gerjen e Subra gli sbarrarono la strada.
Regan
emise un singulto
strozzato. Con la coda dell’occhio, Lucius notò
che il braccio tozzo e potente
del Ladro le circondava la gola in una morsa serrata.
Doveva
trovare in fretta una
soluzione. Il sangue gli pulsava con violenza nelle orecchie, assordate
da un
fischio sordo che lo stava torturando. La testa gli doleva e,
nonostante non
fosse disposto ad ammetterlo nemmeno con sé stesso, le mani
gli tremavano,
sudando freddo, tanto che si chiedeva se loro lo avessero notato. Si
sforzò di
rinsaldare la presa sull’elsa della spada e impose al proprio
corpo di
ritrovare la concentrazione.
Non
poteva permettere che
prendessero Regan.
Il
sangue gli stava inzuppando la
casacca, lo sentiva denso e appiccicoso contro la pelle, rapidamente
reso
gelido dall’alito freddo della notte, ma fortunatamente il
mantello lo copriva,
celando ai suoi avversari una debolezza che gli sarebbe potuta costare
cara.
–
Gerjen – disse tranquillo,
deglutendo a fatica nella gola secca. Fece di tutto per mitigare la
tensione
che si sentiva addosso, in ogni muscolo, in ogni vena. La vista gli si
stava
appannando. – Di’ al tuo cagnolino di lasciare
andare la ragazza –
–
Osi darmi ordini, ragazzino? –
ruggì l’altro, la faccia contorta dal disgusto.
Una luce folle gli saettava
negli occhi di un azzurro sbiadito.
Regan
si agitò disperata dietro
alla presa di Tjerk, che la strattonò con più
violenza per farla calmare.
–
Sta’ buona, dolcezza. Tra poco
ce ne andiamo – sghignazzò con la sua cadenza
rozza.
–
La piccolina viene con noi,
Luciferus – ribadì Gerjen in un sussurro
gutturale. Con un assalto improvviso,
scattò in avanti e, approfittando della momentanea
distrazione, lo disarmò. La
spada di Lucius cadde a terra con un tonfo sordo; quella del Ladro
finì puntata
contro la sua giugulare.
Gerjen
sogghignò con perversa,
spietata soddisfazione.
–
Tu invece te ne andrai all’altro
mondo –
–
Io dico di no – disse una voce
che non apparteneva a nessuno di loro.
Scattarono
tutti sull’attenti,
guardandosi intorno in cerca della fonte da cui era provenuta quella
voce.
Qualche passo indietro a loro, immersa nelle nebbie, c’era
una figura alta e
argentea che si stava facendo avanti. Aveva appena iniziato a farsi
distinguibile, che svanì nel nulla.
–
Che cosa diavolo era quello? –
si interrogò Subra, sospettoso.
E
allora Lucius capì.
Approfittò
del diversivo per
scartare i due avversari e fiondarsi su Tjerk. Fortunatamente Regan
ebbe la
prontezza di reagire per tempo: alla cieca, sollevò una mano
e la avventò sul
volto del suo sequestratore, il quale ululò di dolore. Regan
era riuscita a
ferirgli un occhio. Lui, però, aveva a stento allentato la
presa.
–
Che cosa credi di fare,
moccioso? – gridò Gerjen.
Lucius
non ebbe il tempo di
difendersi: la lama della spada dell’uomo, rapida come un
dardo, scattò verso
il centro del suo addome con tutta la potenza di una rabbia lunga anni.
Lucius
chiuse gli occhi,
preparandosi a un impatto straziante che non avvenne. Quando li
riaprì, Gerjen,
sbalordito, se ne stava lì, con la spada ferma a
mezz’aria, come pietrificato,
e come lui anche i suoi due scagnozzi. Nel medesimo istante, qualcuno
si
materializzò alle spalle di Lucius, schiena contro schiena.
–
Ti spiace se mi unisco alle
danze? – disse la stessa voce armoniosa di poco prima.
Lucius
si sentì invadere da un
caldo fiotto di speranza.
–
Credo di non essere mai stato così felice di
vederti, Shin. –
L’altro
rise. Aveva le mani
aperte, protese in avanti, come se stesse sorreggendo una parete
invisibile.
–
Prendi Regan e andiamocene –
disse a Lucius. – Non li terrò a bada ancora per
molto. –
–
Ammazzateli! – berciò lei,
mentre Lucius la districava dal braccio di Tjerk, i cui occhi,
perfettamente
presenti, lo fissavano con disgusto e rancore.
–
Vorrei fosse così semplice,
cerbiattina – tagliò corto Lucius. – Su,
muoviamoci. –
La
trascinò fino a Shin, senza
lasciarle modo di dire altro, né di rendersi conto di cosa
stesse capitando.
Lesto come un fulmine, Shin abbassò le mani e lì
afferrò entrambi per i
fianchi.
Gerjen,
Subra e Tjerk
riacquisirono mobilità e le loro spade sferzarono il vuoto.
Davanti a loro non
era rimasto altro che il sentiero deserto.
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