- Terra-di-sotto
A Murad avevano detto di aver trovato i segni, in un cumulo di neve alto dieci piedi, cinquanta metri più
in basso del gancio d'attracco, di un qualcosa grosso abbastanza da pesare una cinquantina di chili che
era affondato lì e che forse, poi, era scivolato a valle. Gli avevano detto che avrebbero continuato a
cercare il corpo perché, be', nessuno avrebbe potuto mai sopravvivere ad una caduta del genere.
Se anche fosse sopravvissuto, c'era la neve. C'era il vento freddo, e tremila metri di montagna da
superare. Se non l'aveva ucciso la caduta, l'aveva ucciso il gelo.
Murad teneva il coltello di Elwyn in una tasca, al sicuro: l'aiutava a ricordarsi, ogni volta che la
sensazione di vuoto tornava ad assalirlo e si mescolava alla noia, e il tutto lo spingeva ad essere
violento, aggressivo, irrazionale, delle parole del pagliaccio.
Non basterebbe. Non c'era stato niente che era bastato a comprare Elwyn. Niente che era bastato,
sulla bilancia, a fare pari con la sua libertà.
Non basterebbe, e Murad aveva svuotato il palazzo. Tutti fuori, anche quelli che dopotutto non
volevano, che dentro il palazzo-giardino stavano bene, erano soddisfatti, perché Elwyn l'aveva detto,
Elwyn il pagliaccio, che come tutti i giullari aveva il dono della verità: avere qualcuno così era come
non avere nessuno. Il qualcuno di Murad si era andato a schiantare in un cumulo di neve e, non
basterebbe, Murad sapeva che non c'era niente che avrebbe potuto fare pari neanche con quello.
A Murad avevano detto che Elwyn doveva essere morto. Non poteva essere sopravvissuto. Il suo corpo doveva
stare incastrato tra una roccia e l'altra, ora, dove le sue ossa sarebbero sbiancate al sole.
Murad guardava la Terra in basso, lontana, lontanissima ora che la Città del Cielo era di nuovo in
movimento, i cavi d'attracco sganciati, la stazione di servizio abbandonata: diceva di sì a tutti ma, poi,
conosceva una verità diversa.
- - -
Il cielo era di un azzurro pallidissimo. Le nuvole spumose erano sembrate gelide quando le aveva
attraversate, camminandoci attraverso e inzuppandosi ancora di più le vesti già fradice: ma, da lì sotto,
sembravano schiuma e panna montata, lucide come la polpa luminosa del litchi.
Scendeva tra le rocce dorate che portavano a valle e gli faceva male tutto: il braccio e la schiena e la
gamba, soprattutto la gamba, che uno di quelli della stazione di servizio - uno di quelli di là
sotto - gli aveva bendato e stretto senza fare domande. A loro non importava, gli aveva detto. Se il
Celestiale lo stava cercando, be', che continuasse a cercare. A loro non importava. Non avevano visto
passare nessuno, no, avevano detto i suoi compagni alla Sorveglianza della Città del Cielo. Se venivi da
là sotto, aveva detto l'uomo, là sotto eri il benvenuto.
Scendeva tra le rocce dorate come l'ambra, come la sabbia di un mare che aveva visto solo una volta,
dall'alto, ma adesso avrebbe potuto toccarlo, forse. Andare a guardarlo da vicino. Gli avevano detto di
non andare a nord - c'era un'epidemia - e di non andare ad ovest - c'era una guerra - ma a sud, ad est,
c'era spazio. Cose da esplorare. Possibilità. Là sotto.
Là sotto sembrava arido e scuro, mentre là sopra tutto era stato verde, lucido, splendente.
Elwyn pensava al giardino nascosto e pensava a Murad, e tutto ad un tratto mescolate alle minacce e alle
quattro pareti della sua prigione arrivavano tutte le altre parole, quelle sui nomi e sulla frutta e sulle
storie, tutte le altre parole che, a guardarle da là sotto, sembravano tutto ad un tratto più
simili a quelle che erano state davvero. Le ricordava, e sedavano il dolore.
Pensava alla sua gamba spezzata, scendendo tra le rocce dorate, e sapeva che non avrebbe mai più potuto
fare quel che aveva fatto prima, camminare sui fili, correre tra i tetti, perché la sua gamba non
l'avrebbe retto più, mai più, così. Si era trattato della sua ultima esibizione.
Camminava sulla terra arida e c'era un pascolo d'erba stentata dove le capre brucavano. Un pastore sedeva
sulle rocce e le sorvegliava, molti e molti metri più in là; Elwyn alzò il viso, e il vento gli passò tra
i capelli e dietro le orecchie, sotto ai vestiti bagnati e sulla pelle umida. Anche quello sedava il
dolore. Sedava l'ansia.
In piedi sulla superficie di Terra-di-sotto, sollevò la testa e guardò verso il monte Ararat. Alta sopra
di lui muoveva ancora la Città del Cielo.
Note: E con questo è finalmente finita.
Pubblico alle quattro del mattino perché sono in piena follia da studio e non so domani se riuscirò ad
avvicinarmi ad EFP.
Un grazie, ancora, ad Eylis, per aver
indetto il concorso che ha fatto nascere questa storia.
Grazie ad abcdefghilm, perché ogni volta che
passa e mi lascia una parola mi scalda il cuore, ad Averroe per i suoi meravigliosi ed affascinanti
commenti (dovete leggerli, gente, sono meglio della storia!), a Tatan che ogni tanto si lascia commuovere e mi
elargisce frasi bellissime, a dierrevi che
ha commentato anche se l'avvertimento slash non gli andava né giù né su, a Loryblackwolf che è la fortunata proprietaria
di un personaggio del quale potete leggere qui, del quale sono perdutamente
innamorata e che prima o poi sposerò. Davvero.
Un grazie a tutti quelli che si sono fermati e che hanno letto. Due grazie anticipati a chi mi lascerà un
ultimo commento. Vi direi che farò finire bene la prossima storia scritta per un tema di Eylis (perché la fine di questa mi ha
personalmente depressa), ma forse mentirei. x°D |