Les Mémoires
Blessées
Prologo
Last
Carnival
Oltre il
vetro oscurato i prati di Englelfield, inondati di pallido sole, si riducevano a
immense distese color fumo di Londra.
Sirius
detestava quel colore con tutto se stesso. Detestava con tutto se stesso anche
il gelo incantato nell’abitacolo dell’auto, e i sedili e il loro odore di
plastica, e la pelle che prudeva in punti irraggiungibili – come la pianta del
piede sinistro rinchiusa in una delle due plimsoll, ad esempio -, l’intero
Berkshire, e qualunque altra cosa avesse l’ardire di esistere sulla
faccia della Terra. Non sovvenendogli altro modo adatto a placare la sua
insofferenza - o almeno a metterla da parte, seppellirla sotto qualcos’altro,
giacché eliminarla gli era impossibile – lanciò uno sguardo su Regulus, che
giaceva sprofondato nel sedile ad un assurdo metro e mezzo di distanza: perso
in una contemplazione laconica del paesaggio, rigido contro lo schienale
gommoso, il cravattino annodato così stretto che ci si sarebbe potuto soffocare,
magari. Magari. Osservando suo fratello gli montò dentro una stanchezza
spossante che rotolò a macigni sopra l’insofferenza e lo stordì
provvidenzialmente. Era troppo lontano per riuscire a infastidire Regulus senza
spostarsi, e a Sirius non andava di spostarsi, affatto, nemmeno di un
centimetro. Fosse stata presente, sua madre gli avrebbe profeticamente sibilato
addosso che un giorno sarebbe finito annegato nella sua stessa pigrizia, ipotesi
che, peraltro, non pareva preoccuparla più di quel tanto. Si chinò con fatica
insensata a slacciare le scarpe, che finirono abbandonate sulla moquette insieme
a un paio di calzini appallottolati. Regulus lo sorprese intento a grattarsi il
piede e arricciò il naso in un’espressione vagamente disgustata.
“Ti serve
qualcosa?”.
“No”
mormorò suo fratello, ricomponendosi con nonchalance “Siamo arrivati”.
Sirius si
voltò e lo sguardo gli si riempì degli immensi confini di Englelfield House.
L’auto
scivolò lungo un paio di curve e improvvisamente furono oltre il cancello
principale. Scendendo dalla macchina Sirius si chiese se meditare un’evasione
notturna valesse la pena, in mezzo al nulla dove erano stati spediti. Regulus lo
affiancò avanzando di soppiatto, e alzò il naso sulle svettanti mura rossastre,
tutte un rincorrersi di profili squadrati e vetrate. In cima, le torrette si
assottigliavano in punte affilate. L’insieme era l’esatto contrario
di ciò che avrebbe dovuto essere una residenza estiva: una dimora atrocemente
fredda solo a guardarsi, cupa, piena di stanze vuote. Aveva smesso da tempo di
chiedersi per quale psicotica inclinazione, fra tutte quelle coltivate con
passione in famiglia, ogni residenza dei Black dovesse sfoggiare un aspetto così
ostile, ma la minacciosa imperturbabilità di Englelfield lo colpiva, era perfino
superiore alla tetraggine gotica del maniero dove zio Cygnus e zia Druella
avevano deciso di tumularsi per il resto della loro esistenza. Terrificante,
ecco cos’era.
“E’
bellissima” disse Regulus “Però la ricordavo più grande. Mamma e papà sono stati
gentili a farci tornare qui, no?”.
Suo
fratello occupava gran parte del tempo parlando a vanvera, desiderosissimo di
ascoltarsi. Tutta la sua essenza era riassunta in tredici anni di inettitudine e
idiozia, fasciate in completo elegante. Era così grottesco da lasciarlo
interdetto, di tanto in tanto.
“Gentili?”
le sue pidocchiosissime sigarette si erano perse un’altra volta nella fodera dei
blue jeans “Mamma e papà ci hanno confezionati e spediti a calci in culo nel
primo buco disponibile per andare a cavalcare draghi in Romania, per quel che ne
sappiamo. O a catturare Babbani al lazo, che ne pensi?”.
Finalmente il pacchetto si fece trovare e riuscì a infilarsi una sigaretta tra
le labbra. Tutto stava nello scovare anche un accendino.
“Sei il
solito” replicò stizzito Regulus, sistemandosi il colletto della camicia
immacolata.
“Già,
grazie a Dio” i piedi nudi cominciavano a far male, così immobili sulla ghiaia
“Di', hai da accendere?”.
“Sai che
non fumo” rispose, ancora più inviperito, suo fratello. Perché lui rispondeva
sempre, anche quando era palesemente da acefali farlo “Appena la mamma saprà
che non hai veramente smesso, ti Schianterà”.
“E tu
sarai lì per godere, godere e golosamente godere”.
Le guance
di Regulus si imporporarono in un modo delizioso, da bambinetta, e Sirius era lì
lì per farglielo notare quando il maggiordomo e un paio di cameriere si
Materializzarono di fronte a loro.
“Signorino Sirius, signorino Regulus: benvenuti a Englefield” esordì
pomposamente il maggiordomo, ingessato nella scarsa credibilità di un frac
stantio.
Sirius
gli indirizzò un cenno, tentando di stirare un sorriso, mentre andava
interrogandosi sul perché quei disgraziati individui si sentissero obbligati a
conciarsi in quel modo. Regulus li ignorò aristocraticamente.
“Le
signorine sono nei giardini. Vi aspettano con trepidazione” proseguì il
pover’uomo, senza perdere un colpo.
Sirius
tentò di immaginarsi Bellatrix occupata ad aspettarlo con trepidazione, ipotesi
attendibile solo nei termini di un agguato teso a procurarsi il suo scalpo.
All’idea di dover interagire con la cugina maggiore gli montò dentro una nausea
violenta.
“Grazie”
disse, impietosito “Le raggiungeremo da soli”.
“Certamente. La cena è servita dopo il tramonto”.
Sirius
annuì, perso in lugubre riflessioni, e si avviò solcando le aiuole, seguito a
ruota da un trotterellante Regulus.
L’unica,
esclusiva, sola ragione che gli avrebbe permesso di non impiccarsi a un platano
entro le successive quarantotto ore e, forse, di superare indenne le vacanze
estive, era Andromeda. Sirius ne era pateticamente cosciente, al livello di
cercare con gli occhi la cugina preferita in ogni cespuglio che incontravano sul
sentiero per i giardini. Gli era mancata tantissimo, dopo l’ultima riunione
natalizia trascorsa insieme a Grimmauld Place - sempre rintanati a una sicura
distanza dal resto della famiglia, sempre seduti vicini a pranzo e a cena,
sempre occupati a chiacchierare di qualcosa che tutti gli altri puntualmente non
avrebbero capito o avrebbero aborrito, o a passeggiare a perdere tra le strade
di Londra -. Poi la mancanza si era sopita grazie a una decina di gufi che erano
andati diradandosi con il sopraggiungere a Hogwarts della primavera, e di divise
femminili mirabilmente ridotte, e tentativi di continuare a fare i loro porci e
legittimi comodi senza farsi espellere – lui, James e Remus, dato che Peter era
geneticamente incapace di compiere imprese sufficientemente suicide -; perché
davvero Sirius adorava Andromeda, ma passare i pomeriggi a scriverle
delle sue paturnie, dei suoi pensieri, era molto più facile in inverno, quando
l’intero castello soffriva, azzannato dal vento, avvolto nel candore purissimo
della neve, e di giorno i corridoi sussurravano, mentre le notti erano un unico
incubo non sempre confessabile.
*
La
colonna di luce violacea tagliò a metà il prato, accompagnata da un fischio
acutissimo, stracciando tutti i boccioli in fiore che incontrava sul suo
cammino. Bellatrix e il suo pallore brillarono di un sorriso ferino. All’ultimo,
però, lo scudo di Andromeda respinse l’incantesimo e quello schizzò indietro,
violento come era arrivato. Bellatrix non ebbe il tempo di pensare a un contro
incantesimo: si acquattò il più velocemente possibile a terra e l’incanto si
schiantò contro il faggio dietro di lei. Una pioggia di schegge e terra la
costrinse a coprirsi gli occhi con una mano.
Narcissa,
abbandonata su un telo al margine della radura, emise un gridolino di
disapprovazione.
“Non
usare i tuoi nuovi giochetti con me, Bella!” esclamò ad alta voce Andromeda,
ritta dall’altra parte.
Bella si
sollevò e restituì uno sguardo furente alla sorella, che pareva malignamente
deliziata, ma in quel modo dolce, tipicamente suo.
“Ti sei
fatta male?” le chiese, sincera.
Seguì un
istante di onesto disorientamento. Erano mesi che qualcuno non si preoccupava
seriamente del suo stato, tantomeno nei duelli. In tutto quel tempo passato a
cibarsi di bestialità, a sfiancarsi fino allo svenimento pur di apprendere,
aveva dimenticato Andromeda. Una parte di lei, quella parte che non
esisteva per nessuno, fremette.
Aveva
avuto qualcos’altro da fare, qualcosa di più importante da fare, mormorò una
voce, da qualche parte.
Sua
sorella si era cristallizzata nell’attesa di una risposta. Aveva i capelli
scompigliati, le guance infuocate e degli stupidi abiti Babbani indosso. Odiava
quei vestiti. Glieli aveva bruciati, glieli aveva strappati a mani nude, fatti
Evanescere, ma erano ritornati comunque. Eppure, in qualche modo distorto, a
Bella pareva sempre di incontrare se stessa in uno specchio, quando guardava
negli occhi Andromeda. Come fosse una distorsione, un crudele effetto ottico.
Come fosse un’altra lei, a volte.
“No”
ringhiò, tornando in posizione.
Il
sorriso di Andromeda scivolò nella strafottenza, mentre la imitava con
un’eleganza invidiabile.
“Quel
vestito ridicolo ti impedisce i movimenti. Dovresti mettere un paio dei miei
pantaloni”.
Si lanciò
all’attacco.
Andromeda
schivò il colpo e l’incantesimo rase al suolo un cespuglio selvatico.
“Quando
vedrà come hai ridotto il suo adorato boschetto, Mr. Rogers ti avvelenerà il
porridge” la canzonò, il respiro accelerato, girandole intorno.
“Chiudi
quella bocca, dannazione!”.
Un altro
incantesimo a vuoto. Andromeda era troppo brava a parare i colpi e, nonostante
il rigoroso esercizio dell’ultimo periodo, Bella si scoprì in difficoltà. La
frustrazione soverchiò ogni altro pensiero compiuto, appannandole la vista.
Sua
sorella contrattaccò, un lampo di intensa luce rossa le si precipitò contro, ma
Bellatrix lo deviò altrove con un lieve scatto del polso.
“Vuoi
Schiantarmi, Dromeda?! Non siamo a lezione di Incantesimi”.
“Hai
Schiantato Cissy!”.
Bella
lanciò uno sguardo alla sorella minore e la scoprì tramortita.
“Tecnicamente, l’hai Schiantata tu. E poi non la tollero, continua a starnazzare
da quando abbiamo cominciato”.
Una
scrollata di spalle e il volto di Andromeda si dipinse di un’espressione
confusa, tra l’indignato e il divertito, che la rendeva buffa.
“In
guardia” la incalzò Bella, subendo la forza involontaria di un sorriso
incresparle le labbra.
Sua
sorella scosse la testa.
“Sei
impossibile”.
Sei
impossibile. Impossibile, Bella. Le piaceva, come lo diceva.
Le era
mancata? Le era mancata così tanto?
La
bacchetta tremò fra le dita. Dimenticò l’incantesimo che le serviva.
Andromeda
si distrasse, rapita da qualcosa che stava oltre le sue spalle.
“Expelliarmus”
sussurrò, incerta.
L’incantesimo andò inaspettatamente a segno. La bacchetta di sua sorella rotolò
sul prato e lei la richiamò subito a sé.
“Ho
vinto!” si lasciò sfuggire, stringendo il trofeo nella mano destra.
Ma
Andromeda non stava ascoltando.
“Sirius!”.
Quando
comprese, Bellatrix si voltò lentamente, una collera vorace nel petto.
Sirius.
*
“Quindi è
questo che fate, voglio dire, quando siete fra voi?”.
Andromeda
gli rispose con un sorriso e gli si incastrò fra le braccia, sfiorandogli la
guancia con un bacio fresco. Oltre il suo abbraccio c’era Bellatrix, un
irrequieto e vibrante buco nero aperto sul verde vivo dei giardini. Aveva un
viso così bianco, di un’immobilità surreale. Estraneo.
Sirius
aveva un solo ricordo piacevole, di Bella, e non era nemmeno certo che non fosse
uno scherzo della memoria. Ad ogni modo, nella sua mente, era rimasta l’impronta
di qualcosa. In un giorno impossibile della sua infanzia, Bellatrix gli aveva
accarezzato i capelli, nella solitudine polverosa di Grimmauld Place. E
pensandoci, anche se se ne asteneva per puro senso di coerenza verso se stesso e
verso l’astio che provava per quella creatura sprezzante che era diventata la
cugina maggiore, Sirius avrebbe potuto giurare di aver solo sognato quel
ricordo. Di esserselo inventato. Era certo, invece, che non sarebbe mai stato
capace d’inventare nessuna delle infinite sfumature d’odio intessute nello
sguardo con cui Bella lo trapassò. Se avesse posseduto zanne al posto degli
occhi lo avrebbe masticato e mandato giù. Tutt’un tratto la tensione rinchiusa
in quel corpo si fece troppo ingombrante, e fu costretto a rivolgere
l’attenzione altrove.
Andromeda
e il suo profumo.
Narcissa
abbandonata in una posizione innaturale sul prato.
“Tua
sorella non sta bene?”.
“Quale
delle due?”.
Regulus,
dopo aver lanciato un’occhiata adorante e timorosa a Bellatrix, si avvicinò a
Narcissa, osservandola con cautela dall’alto.
“E’
Schiantata” osservò, laconico.
Andromeda
si lasciò sfuggire una risatina innocente e appellò la sua bacchetta, che sfuggì
alle dita di Bella. Sirius notò il lampo di furia che la fece trasalire e
avvertì la necessità di allontanarsi il più velocemente possibile. Quando
entrambi si trovavano a dover sopportare un’eccessiva prossimità l’unico
risultato era sempre e solo la collisione violenta, e non aveva le forze per
affrontare l’ennesima lite all’arma bianca. Non in quel momento.
Successivamente, forse, quando anche le urla di Bella sarebbero apparse un
allettante diversivo, nel rigurgitante nulla di Englefield.
“Innerva”
mormorò Dromeda, e Cissy parve tornare confusamente alla vita.
“Regulus?” pigolò, storcendo un poco la bocca.
“Togliti
da lì, abbi pietà” suggerì distrattamente Sirius al fratello “Non so davvero
cosa fare, con lui, ha così poco buon senso”.
Andromeda
reagì con uno dei suoi sguardi indefinibili. Di solito non erano mai sguardi
ostili, ma nemmeno totalmente condiscendenti. D’avvertimento, ecco. A volte lei
si metteva in testa di dover difendere l’indifendibile, che in quel caso era
rappresentato dalla goffissima figura di Regulus.
“Hai da
accendere?” le chiese, placido.
La fiamma
fiorì sulla sua bacchetta senza ulteriore spreco di parole.
“Walburga
non aveva giurato di mozzarti la testa, l’ultima volta?” .
“Beh,
capirai. Lo dice ogni giorno anche a Kreacher e lui gode di ottima salute”.
“Ma
magari al muro, poi, inchioderà la tua”.
La voce
di Bellatrix era, in effetti, impossibile da confondere con qualunque altra.
Sirius le
restituì un sorriso glaciale.
“Non
avevate travasato dei ferocissimi pesci rossi nella vasca della fontana, quattro
estati fa?”.
“Sì…”
rispose Andromeda, presa alla sprovvista.
“E sono
ancora vivi?”.
“Credo di
sì”.
“Ecco,
andiamo a trovarli” concluse, allontanandosi tra i faggi rimasti integri.
“Perché
devi fare così?”.
“Così
cosa?”.
Andromeda
inarcò le sopracciglia: lampante sintomo di irritazione. Sirius sbuffò,
soffiando fuori il fumo tutto in una volta.
“Dromeda,
sei seria?”.
“Sono
terribilmente seria! Potreste provare a convivere nello stesso spazio senza
azzannarvi l’un l’altro. Come conoscenti, o come le persone che si incontrano
tutte le mattine in ascensore, o come due cugini sani di mente”.
“Ok. Non
sei seria”.
“Da
quanto non vi vedevate?”.
“Dall’ultima volta che l’ho incontrata in ascensore”.
“Sirius”.
Accelerò
il passo sull’erba curata, lasciandola indietro.
Era stato
ad Hogsmeade, prima di Natale. Di quel pomeriggio al Testa di Porco ricordava
l’odore alcolico e fetido di un ubriaco che gli era finito addosso, la
discussione serrata tra Remus e James, Peter che continuava a pestargli i piedi
e… Bella. L’aveva riconosciuta dalla risata. Gli altri non si erano
accorti di nulla, lui, invece, aveva setacciato i dintorni con lo sguardo, fino
a puntare gli occhi su un cappuccio nero. Lei gli dava le spalle, si stava
alzando da un tavolaccio in fondo alla fumosa oscurità del pub: salutava gli
amici. Due brutte facce conosciute di vista, quel genere di persone che solo
Bellatrix avrebbe potuto trovare piacevoli. Una ciocca morbida era scivolata
fuori dalla prigione della sua cappa, srotolandosi lungo la schiena, mentre si
dirigeva verso l’uscita. Sirius le era sfuggito nascondendosi dietro alla mole
di un bestione peloso che gli stava vicino. L’aveva seguita senza un vero
perché, dopo. Era sgusciato oltre la porta, nell’aria gelida di dicembre, aveva
cancellato con cura le sue orme sul sentiero. Lei aveva passeggiato per qualche
metro, nera come i carboni spenti. Poi, improvvisamente, si era voltata, e
l’aveva colto con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Ed era sparita, lasciando
dietro di sé il candore abbacinante della neve.
“Non me
lo ricordo”.
“Allora è
passato tantissimo tempo. Siete così infantili da darmi la nausea, non avete
nessun motivo per detestarvi con tanto accanimento”.
Andromeda
lo raggiunse, riportandolo al presente con un pizzicotto sul braccio.
Sirius
studiò quegli occhi buoni, chiedendosi se il coraggio di disilluderli non fosse
altro che pura cattiveria.
“Io
ho tutti i buoni motivi di questo mondo. Ti ricordo che durante le ultime
vacanze natalizie passate insieme ha tentato di cavarmi gli occhi. Con impegno”.
“Stai
esagerando”.
“Va bene,
allora diciamo – ribadendo l’ovvio, concedimelo - che io e Bella abbiamo punti
di vista diametralmente opposti. Differenti modi di vedere le cose, se ti piace
di più. Così è abbastanza diplomatico, mi pare”.
“E’
diplomatico ma non ha nessun senso. Io e Bella la pensiamo diversamente quasi su
tutto, ma ci vogliamo bene. Sa essere molto dolce, se vuole”.
“Potrei
vomitare”.
Andromeda
gli affibbiò uno spintone energico e Sirius fu costretto a trotterellare di
qualche passo in avanti. Quando giunsero in prossimità della fontana, sua cugina
lo prese per mano, guidandolo lungo il bordo di marmo rosato.
“Dove
sono andati a ficcarsi?” chiese al vento, cercando i pesci.
Sirius
superò con gli occhi la statua discinta che si ergeva nel centro, e li trovò:
pancia all’aria nell’acqua limpida. Si inchiodarono a guardarli per qualche
istante, poi Dromeda tentò di rianimarli pungendoli sul ventre con la bacchetta,
senza nessun risultato. I pesci andarono a sbattere uno contro l’altro, gonfi
come palloncini, e presero a vagare nella fontana.
“Sai che
hai ragione? Bella sa proprio essere molto dolce, a volte”.
Lei non
ebbe la forza di discolparla.
“Sta
male” mormorò, sedendosi sul marmo.
Sirius la
imitò.
“Io lo
dico da sempre”.
Dromeda
gli lanciò uno sguardo estremamente serio.
“E’
tornata ieri da non so dove, ma prima di venire qui è stata da mamma e papà”
disse “Le hanno combinato il matrimonio”.
Quelle
parole gli scatenarono uno smottamento interno piuttosto strano.
“E chi è
il fortunato?”.
“Rodolphus Lestrange”.
“Ottima
scelta. Qualcuno gli ha già detto che Bella lo farà fuori dopo
l’accoppiamento?”.
Andromeda
gli rivolse un sorriso malinconico che non seppe interpretare, di nuovo.
“Mi offro
come volontario”.
“Sirius”.
“E dai,
Dromeda”.
Lei
scosse la testa, prima di posargliela sulla spalla con un sospiro d’abbandono.
“Tra
quanto pensi che succederà?” domandò, sovrappensiero.
“Che?”scrutò quel poco che del suo viso riusciva a vedere.
“Tra
quanto mamma deciderà che anche io devo portare avanti la dinastia, costi quel
che costi, e sfornare almeno un paio di figli sangue puro” la risposta fu un
sussurro; le dita sul dorso della sua mano tracciarono un disegno chimerico “Io
non sono come Bella. Lei è pronta a tutto pur di fare la cosa giusta, si
sacrificherà senza emettere un fiato”.
“Tua
sorella non farà la cosa giusta”.
“Secondo
lei, lo è. Secondo tutti, lo è” un attimo d’esitazione “Ma dovevi sentirla,
stanotte. Piangeva e urlava come una bambina. Io so che vorrebbe essere felice,
e che si odia, per questo”.
“Questo?”.
Lei
sollevò lo sguardo sulle finestre di Englefield e, quando rispose, la sua voce
non aveva niente della consueta delicatezza.
“Per la
sua debolezza, Sirius. Ci hanno insegnato che i Black non possono essere deboli.
I Black hanno il sangue puro, e il sangue puro è forte. Indistruttibile”.
*
Aveva
incantato il soffitto e giaceva distesa sul letto troppo grande, a guardare i
putti guerreggiare furiosamente tra loro, pestandosi le forme pingui a vicenda.
Ogni tanto, qualcuno riusciva a spiccare il volo con le sue ridicole ali.
Vittima del torpore, si sollevò lentamente a sedere. Era esausta. Discese dal
letto, senza sapere esattamente cosa fare né perché, e vagò per gli angoli della
stanza, resi indefiniti dall’oscurità azzurrina che era scesa insieme al
crepuscolo. Fuori, i giardini gemevano di richiami notturni e l’aria era
fragrante, densa. Dentro, la luce si spegneva poco a poco e tutto languiva.
Improvvisamente, incontrò il suo riflesso nello specchio. Sempre più spesso, le
capitava di riconoscersi a fatica, come se la cognizione di se stessa avesse
cominciato a sfuggirle. Accadeva anche di notte, quando si svegliava di
soprassalto e non capiva a chi appartenessero quelle braccia che vedeva
abbandonate sulle lenzuola, o dove finissero le gambe che parevano allungarsi
all’infinito sotto le coperte. Succedeva senza preavviso. La mente era lì,
lucida, senza alcuna identità, e il corpo apparteneva a qualcun altro. Allungò
la mano sinistra e la posò sulla superficie gelida e spettrale, ripercorrendo i
tratti che vedeva imprigionati nel suo interno, irraggiungibili. Non ricordava
più quando il viso aveva cominciato a scavarsi, quando aveva smesso di essere
morbido e aveva iniziato a cedere dietro la spinta degli zigomi, che si erano
trasformati in spigoli, e nemmeno come avessero fatto i suoi occhi a diventare
così grandi. Nel sollevare il braccio la manica dell’abito era scivolata
indietro, fino ad accomodarsi nell’incavo del gomito, lasciando scoperta la
carne pallida. Lo sguardo si incagliò sulla pelle incorrotta, liscia, che
foderava l’interno dell’avambraccio.
Il rumore
attutito di una risata la fece sobbalzare. Istintivamente, coprì il braccio e lo
premette forte contro il petto, mentre rivolgeva il capo nella direzione dalla
quale il rumore era arrivato. Vide ombre intermittenti tranciare la fessura di
luce dorata che si stendeva sul pavimento, ai piedi della porta, e di nuovo
quella risata, seguita da alcune frasi concitate, si insinuò oltre l’uscio.
Forse attratta da quell’inaspettata esplosione di vita, si materializzò nel
corridoio esterno. In fondo, sul ciglio delle scale, Sirius si allontanava con
Andromeda abbarbicata in spalla. Continuavano a sghignazzare, probabilmente
senza nessun motivo valido per farlo. Dopo pochi istanti, quando entrambi erano
già scomparsi oltre la rampa, sentì sua sorella strillare, poi distinse i tonfi
di corpi che cadono. Si materializzò due metri più avanti e si sporse appena,
spinta da un’insanabile curiosità. Sirius e Dromeda se ne stavano aggrovigliati
sugli ultimi scalini, piegati dal ridere, troppo occupati a darsi la colpa
vicendevolmente per accorgersi di lei. Erano sempre stati così, tutti e due. Non
erano cresciuti mai. Non erano cambiati mai. Si ritrasse, mentre loro si
risollevavano a fatica, sbilanciandosi l’un l’altro, e lanciò uno sguardo dietro
di sé. La porta della sua camera prometteva un’altra notte senza fine, ma, per
quanto fosse pronta a combatterla, l’idea di sprofondare immediatamente in
quell’oblio le parve insopportabile. Pensò alla cena, pensò che non avrebbe
toccato cibo. Discese il primo scalino. Pensò che avrebbe avuto minor tempo a
disposizione per attendere il mattino dopo.
*
NdA: E’ la prima,
prima in assoluto, fan fiction che scrivo su Harry Potter. Lo dico
giusto per proteggermi da eventuali lapidazioni: abbiate pietà di me e della mia
inesperienza, insomma. Spero di non lanciarmi in strafalcioni eccessivi, nel
caso accadesse, gradirei che qualche anima pia mi fermasse prima del baratro, e,
se possibile, che lo facesse in modo carino. Se non carino, almeno educato.
Tengo a specificare che sono davvero poco pratica di OOC e crismi vari, quindi,
anche in questo… abbiate tanta pietà. Essendo la mia prima esperienza nel fandom,
mi farebbe piacere ricevere dritte, avvertimenti, suggerimenti e quant’altro,
quindi, se ne avete il tempo e la voglia, fatevi avanti perché ho un disperato
bisogno di istruzioni. *Faccio almeno un po’ pena?*
Tengo a comunicare
che questa storia è stata concepita per partecipare ad un contest dal quale poi
mi sono ritirata per difficoltà varie (a parte l’impossibilità di consegnare
entro la data stabilita, la storia si è allungata troppo per riuscire a
rispettare i parametri imposti dal bando). Il contest in questione è “Enjoy the
pain, pureblood”, pubblicato sul forum di EFP, sezione Harry Potter (http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9596322).
Direi che non c’è nient’altro da aggiungere. Spero avrete voglia di farmi sapere
cosa ne pensate di questo prologo, insomma se è il caso di andare avanti o di
darmi alla cucina tailandese.
Nel frattempo,
tanto per essere ottimista, mettiamoci un “alla prossima” e non pensiamoci più.
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