Luglio 1993. La
Gazzetta del Profeta. Una cella oscura, una notizia inaspettata ed un topo
spaventato.
“Colazione.”, esclama una voce monotona, da uomo, oltre le sbarre, mentre
una
mano scheletrica posa, sul pavimento della piccola cella, un
vassoio.
Si sente un cigolio come di un carrello poco
oleato
che viene spinto in avanti e, dopo qualche minuto, di nuovo la stessa voce
grida
la medesima parola.
Per qualche istante, nella prima segreta
visitata
dall’uomo addetto ai pasti nella prigione per maghi di Azkaban, nessuno da
segno
di aver fatto caso al suo passaggio andando a ritirare il cibo portato.
Nella cella, priva di finestre e dalle luci
soffuse, è tutto silenzioso; se si guarda oltre le inferriate alla prima
occhiata sembrerebbe che non ci sia nessuno.
La vecchia e traballante branda sembra che sia
da
secoli che non abbia l’onore di ospitare qualcuno tra le sue coltri. Le
coperte
sono divorate dalle tarme che ne hanno fatto il loro rifugio. Il materasso
ha
innumerevoli buchi da cui fuoriesce la soffice imbottitura. La polvere è
depositata a iosa.
L’unico altro mobile, oltre al letto che si
trova
nella stanza, è un armadietto alla sua sinistra. Un armadietto di due miseri
piani in legno scuro. E’ privo di una delle due ante mentre l’altra è aperta
a
rivelare che al suo interno non è contenuto nulla: nessun effetto personale
di
un qualche galeotto, nessun cimelio conquistato durante la prigionia. C’è
solo
il vuoto.
Alla destra del letto ci sono poi le latrine
che
emanano un odore tremendo; è una puzza stantia che ormai ha impregnato
completamente i muri incrostati, il soffitto lercio ed il pavimento a tratti
polveroso.
Quel posto per via dell’odore, della precarietà
e
delle temperatura gelida, che si potrebbe fronteggiare senza avere un fuoco
vicino solo con l’ausilio di un paio di maglioni pesanti addosso, sembra in
vivibile per un essere umano, è più un rifugio per topi. Tuttavia di quei
roditori in giro non se ne scorge nemmeno uno. Un tempo dovevano essere
stati
numerosi ma ,da alcune macchie di sangue ormai vecchie da mesi se non di
anni,
che impregnano il pavimento con la loro caratteristica sagoma, si deduce che
qualcuno in modo violento li debba aver massacrati tutti. Sembra che
qualcuno
abbia infierito su di loro in modo crudele, con un odio profondo,
desiderando
che i ratti sparissero tutti completamente dalla sua
vista.
Ma chi è stato? E se la cella sembra disabitata
perché il secondino ha lasciato la colazione? E se se fosse abitata, invece?
Ma
da chi? Quale uomo può resistere in quelle condizioni di vita precarie
quando
solo un animale o nemmeno quello potrebbe farcela?
Un rumore sordo echeggia nella stanza. Un
rumore
che sembra provenire dal punto maggiormente immerso dalle tenebre della
cella:
l’angolo in alto a sinistra.
L’attenzione viene subito focalizzata in quel
punto
per scoprire chi ha prodotto quello strano suono basso e, finalmente, si
scorge
una sagoma che si muove; una sagoma talmente oscura di cui però è difficile
distinguere i contorni esatti.
E’ un uomo od un animale?
Un mugugno proviene dallo strano essere. E’ un
verso stridulo che ancora non permette di capirne
l’identità.
La “creatura” comincia ad agitarsi con
frenesia,
sembra quasi che fino a quel momento sia stata addormentata, rannicchiata a
ridosso del muro e che ora, invece, abbia deciso di aprire gli occhi al
mondo
per iniziare una nuova giornata.
Improvvisamente l’ombra inizia ad avanzare per
dirigersi verso il cibo lasciato dal secondino.
Si muove con difficoltà, a gattoni.
Con ansia si attende che la creatura arrivi
sotto
il fiotto di luce soffusa, per capire con chi si ha a che fare e finalmente
ciò
accade.
La sorpresa è grande.
Quell’essere è un uomo, ma il suo aspetto ed il
suo
comportamento sono più quelli di una bestia selvatica.
Si muove a quattro zampe ed ogni pochi passi si
ferma ad annusare l’aria, come alla ricerca di un nemico invisibile. E’
molto
guardingo e segue la sua via con molta attenzione.
E’ vestito con una tunica nera, lercia e
strappata
in più punti. La pelle che s’intravede, da quei squarci, è grigio cenere,
deve
essere da anni che non vede più la luce del sole. E’ estremamente
magro, tanto
che gli si vedono sia le ossa del collo che delle mani.
Il viso scarno è circondato da una lunga chioma
nera sporca ed arruffata che gli ricade davanti agli occhi e sembra fare un
tutt’uno con la barba incolta. Poco del suo viso è visibile. La bocca è
scomparsa dietro i peli ispidi, il naso è così nero, a causa del lerciume,
che è
impossibile distinguerlo.
Gli occhi, di un intenso grigio-azzurro che
s’intravedono da dietro i capelli, sono l’unico elemento di quell’uomo che
rivela ancora la sua umanità. Il luccichio che emanano, è il luccichio della
follia ma anche della determinazione a non lasciarsi sopraffare
dall’ambiente
che lo circonda.
Raggiunge il vassoio con la colazione e
l’annusa.
Una smorfia di disappunto si dipinge sul suo volto, per poi essere
sostituita da
un’espressione vacua.
Si siede incrociando le gambe, in un gesto
fluido,
dimostrando di essere ancora capace di agire come un uomo e poi affonda le
mani
nella tazza con la brodaglia marrone che compone il suo pasto mattutino.
Dovrebbero essere dei biscotti imbevuti nel
latte
ma, in realtà, il sapore è irriconoscibile. Il latte è scaduto da mesi ed i
biscotti sono raffermi. L’uomo prende il primo biscotto zuppo e se lo porta
alla
bocca insudiciandosi dappertutto. E’ più il cibo che gli finisce tra i
capelli o
che si disperde nei suoi abiti che quello che riesce ad ingurgitare. La
stessa
operazione viene ripetuta per quattro volte prima che l’uomo si decida ad
afferrare la ciotola e portarsela alla bocca. Beve il resto della colazione
continuando a non far caso se è più la sostanza che perde che quella che
mangia.
Sembra che la colazione per lui sia soltanto un rito giornaliero, un obbligo
utile per non morire di fame.
Ed infatti è così.
Ormai è da tanto tempo che quell’uomo è
rinchiuso
in quella prigione senza avere contatti con l’esterno.
I suoi giorni non vengono più scanditi dagli
elementi atmosferici: dal sole, di giorno; dalla luna, di notte. No, i suoi
giorni vengono scanditi da riti sempre uguali. Le luci soffuse della stanza
si
attivano alle sei del mattino. La colazione viene servita alle sei e
mezza,
alle sette e trenta il secondino viene a ritirare il vassoio ed a portare
una
bacinella d’acqua per permettere ai prigionieri di lavarsi il stretto
indispensabile; il pranzo viene consegnato all’una del pomeriggio, e la cena
alle otto di sera. La luce infine, viene spenta alle undici e poi il giorno
dopo
si ricomincia tutto da capo. Non ci sono mai novità, se non
eccezionalmente.
I prigionieri non possono parlare fra loro ed
incontrarsi, chi ci prova viene duramente punito. A volte le urla di qualche
nuovo galeotto arriva alle orecchie del nostro prigioniero, sono urla di
odio,
di scherno, di minaccia rivolte a tutti e nessuno, però dopo qualche mese di
prigionia, quando anche il nuovo arrivato capisce che sono inutili, che
fanno
solo perdere il respiro, passano e solo il silenzio rimane nella prigione.
La vita dei galeotti si svolge in perfetta
solitudine e silenzio nella loro piccola cella. Le uniche “vere” compagnie
che
hanno, se si possono chiamare compagnie, sono i secondini, che passano agli
orari stabiliti dicendo sempre le stesse frasi di rito e, soprattutto, i
loro
veri carcerieri, che controllano i prigionieri continuamente sia di giorno
che
di notte; ad esclusione dei pasti. Chiamarli carcerieri non sarebbe proprio
corretto, visto che non lo sono ma è difficile trovare per loro un nome
adatto.
Non sono essere umani, sono creature oscure. Il
loro vero essere nessuno, da vivo, l’ha mai visto dato che si proteggono
dietro
dei cappucci. Chi ha la sfortuna d’incontrare il loro sguardo, di essere
“baciati” da loro perde completamente la sua anima di colpo. Chi però ha la
sfortuna di viverci a stretto contatto per diverso tempo la perde lentamente
e
non si sa sinceramente cosa sia peggio. Il loro nome è
“Dementors”.
Il prigioniero comincia a ridacchiare tra sé
amaramente a quel pensiero.
Appoggia la ciotola, pulisce le mani sporche
sulla
tunica, insozzandola ancora di più, e si appoggia alle sbarre cominciando a
grattarsi i capelli, molte pagliuzze bianche e nere cadono da essi a quel
gesto.
La forfora che si sparge sul pavimento non è quantificabile, così come non
lo
sono i pidocchi morti.
L’uomo chiude gli occhi e rimane in
attesa.
Sente avvicinarsi il secondino e si sposta per
permettergli di portare via il vassoio.
Quando l’altro fa entrare la bacinella con
l’acqua,
lui se ne impossessa subito e vi immerge la testa per rinfrescarsela. Non
gli
importa della pulizia, vuole solo che il prurito passi per qualche istante.
Scuote la testa per asciugarsi velocemente i capelli e poi, si lava le mani
con
fare sbrigativo.
Alla fine, per non sprecare nemmeno un goccio
d’acqua, la beve, noncurante di averla appena usata per pulirsi la testa e
le
mani.
Riconsegna il catino al secondino e torna,
sempre
camminando a carponi, verso l’angolo sinistro della cella che usa come luogo
di
riposo. E’ da tanto che non dorme nel letto, preferisce stare accucciato a
ridosso del muro, nella più completa oscurità. Se non altro non è costretto
a
vedere i “Dementors”, che odia profondamente, passare davanti alla sua
gabbia,
può fingere che non esistono, anche se la loro presenza raggelante è troppo
ingombrante per permettergli di non subire lo stesso i loro influssi.
Sta di nuovo per accomodarsi quando la voce
monotona del secondino lo riscuote: “Oggi ho un annuncio da fare.”, dice per
attirare l’attenzione dei prigionieri.
Strano, pensa il nostro carcerato, di solito
capita
di rado che ci siano degli avvisi, almeno che… Non riesce nemmeno a finire
la
frase dentro di sé, che subito la sua supposizione trova
conferma.
Il secondino come se stesse leggendo un gobbo e
probabilmente è davvero così, in modo impersonale esclama: “E’ con grande
gioia
che vi informo che, quest’oggi, il carcere di Azkaban avrà l’onore di
accogliere
tra le sue mura il nostro amato Ministro della Magia nella sua usuale visita
semestrale. Passerà questa mattina verso le undici e i vostri responsabili
si
augurano che voi carcerati vi comporterete bene. Ogni forma di dissidio ed
ogni
azione offensiva verrà severamente punita con l’ausilio de
Dementors.”
La voce si ferma per qualche istante per poi
concludere dicendo: “Questo è tutto.”
Si sente il rumore di una porta che si apre e
che
poi si chiude sbattendo con violenza. Il secondino deve essersene andato.
Dopo qualche istante un altro cigolio
interrompe il
silenzio del carcere, è il cigolio del portone da cui entrano i Dementors.
Le
creature oscure cominciano a vagare per il carcere, sono di nuovo a caccia
dell’anima delle persone, dei loro sentimenti più belli, dei loro ricordi
più
felici, delle loro emozioni più vere.
Il nostro carcerato però sembra avere altri
pensieri per la testa in quel momento, sembra noncurante di quelle creature
che
di solito lo terrorizzano.
Nella sua mente continua a ripetersi che sono
già
passati altri sei mesi.
Si alza in piedi e, finalmente, decidendosi a
camminare a due gambe, corre verso il lato opposto della cella.
Si ferma di fronte ad un muro in cui
s’intravedono
degli strani segni.
All’inizio sono innumerevoli poi ,però,
cominciano
a diminuire, diventando sempre meno e saltuari.
Il prigioniero si siede per terra e, con le
unghie
sporche e spezzate in vari punti, scalfisce il gesso facendo un’altra tacca.
Il
sibilo fa venire la pelle d’oca.
Successivamente il carcerato comincia a contare
quelle incisioni. Tralascia le prime, conta solo quelle che sono un po’
separate
dalle altre, quelle che sono di meno. Ne conta ventiquattro ed un ghigno si
dipinge sul suo volto, razionalizzando che sono già passati dodici anni da
quando è stato portato ad Azkaban.
All’inizio imprimeva una tacca sul muro ogni
mattina, ma poi rendendosi conto che era stancante, aveva cominciato ad
inciderle solo prendendo in considerazione le visite del Ministro della
Magia.
Quello delle tacche è un metodo di cui ha
sentito
parlare da un suo amico tanti anni addietro, nella sua vita precedente. Se
non
ricorda male quel sistema lo deve aver usato un qualche naufrago,
protagonista
di un libro, in un ignota isola deserta per contare il tempo passato lontano
da
casa. A quel suo amico che conosceva piaceva leggere, lui amava i libri,
aveva
sempre qualche aneddoto da raccontargli, qualche informazione da
dargli.
Al pensiero del suo amico gli occhi del
prigioniero
si incupiscono per farsi, però, più vitali.
La luce folle sparisce per qualche attimo, ora
sta
guardando di fronte a sé con molta intensità.
Si viene quasi inghiottiti dalla intensità che
vi
si legge dentro e, senza accorgersene per qualche istante, si ritrova a
viaggiare tra i propri conturbanti pensieri. E’ impossibile distinguere, tra
i
suoi pensieri ,delle immagini ben nitide, i suoi ricordi sono confusi e si
accavallano l’uno all’altro. Ci sono solo dei volti ricorrenti, quello di un
ragazzo dai capelli castani, arruffati e strani occhiali tondi che sorride
in
modo furbo. Quello di una ragazza dai capelli rossi dall’aria forte e
decisa.
Quello di un ragazzo dai capelli castani ed occhi d’ambra che guarda
qualcuno,
non si capisce chi, in modo dolce. Quello di un ragazzo tozzo dai capelli
biondi
ed occhi di un azzurro slavato che si guarda intorno con fare disperato come
a
cercare una soluzione.
Improvvisamente così come si è stati
inghiottiti da
quel caos di sensazioni e ricordi, si viene rigettati.
Il prigioniero, con violenza, prova ad
allontanare
da sé la marea di ricordi che gli affollano la mente, ma non ci riesce.
Scuote
il capo per non farsi sopraffare da tutto ciò che il passato porta con sé:
momenti sereni ma soprattutto episodi dolorosi.
Si guarda in giro disperatamente per trovare un
qualche oggetto che possa catturare la sua attenzione e che gli impedisca di
pensare ma è inutile.
Il suo sguardo si posa sulle chiazze di sangue
lasciate dai topi ed una grande rabbia s’impadronisce di lui. Il suo odio
per
quei roditori deve essere enorme, è come se fossero la principale
causa della
sua disperazione, della sua situazione.
Batte con forza i pugni a terra diverse volte
fino
a quando le sue mani non cominciano a sanguinare.
In trance guarda il liquido rosso che scorre
senza
fare niente per tamponarlo.
Nel sangue gli sembra per qualche istante di
vedere
il riflesso del suo viso, non sa se è davvero così ma ciò che vede non gli
piace.
Di fronte a lui c’è un uomo irriconoscibile:
scarno, lurido, mostruoso.
Si passa le mani sulla tunica per pulirle dal
sangue, le ferite erano superficiali dato che hanno già smesso di sanguinare
ed
a tastoni l’uomo si tocca il viso.
La barba ispida gli punge le mani, sente la
presenza di rughe nella sua pelle e si accorge di essere diventato veramente
magro. Lui è davvero scarno, lurido e mostruoso.
Senza che possa farne a meno, ripensa ancora
una
volta al suo amico che amava i libri e si ritrova a rivolgersi a lui nei
suoi
pensieri in modo assurdo, gli dice che non è vero che l’oscurità del carcere
mantiene la pelle giovane, dato che lui è diventato vecchio.
Ma d’altra parte non c’è nemmeno un prete,
nella
cella vicina alla sua, che tenti di mettersi in contatto per lasciargli le
coordinate del luogo dove si trova un tesoro. Il ricordo di uno dei libri
preferiti del suo amico, di cui non si ricorda il titolo, gli è rimasto
indelebile dentro. All’epoca, quando l’altro gli aveva raccontato la trama,
lui
annoiato aveva finto che non gli interessasse ed ora, invece, se la
ricordava
benissimo. La vita è strana: ti fa venire in mente le cose più buffe nei
momenti
più incredibili.
Il prigioniero sospira ed amaramente è
costretto ad
ammettere che, mentre il carcerato del romanzo era stato messo in galera
seppur
innocente e forse era quello il motivo per cui il suo aspetto aveva
mantenuto la
giovinezza diventando etereo, lui invece è stato imprigionato perché
colpevole.
Forse non colpevole di ciò che l’hanno accusato per rinchiuderlo, ma
comunque
colpevole di essere stato la causa della morte del suo migliore amico e di
sua
moglie.
Tutte le sofferenze del carcere, quella
schifosa
vita che è costretto ad affrontare, lui se le merita. È la giusta
punizione per
ciò che ha fatto. È la sua forma di espiazione.
Ad un tratto si accorge che calde lacrime
stanno
solcando le sue guance. Era da anni che non piangeva più.
I ricordi fanno male, a volte pensa che sarebbe
davvero bello lasciarsi andare, permettere ai Dementors di prosciugarlo
della
sua anima, ma poi si riscuote subito. Prima di morire, lui ha un’altra
missione
da compiere, deve sopravvivere per quella.
Si accuccia per terra prendendosi la testa tra
le
mani. Si obbliga a non pensare più. In condizioni normali andrebbe
nell’angolo
più oscuro della cella e si trasformerebbe in un cane, visto che è un
animagus
anche se nessuno lo sa, ma quel giorno non può. C’è la visita del ministro
della
magia e nessuno deve scoprire la sua segreta capacità, è solo, infatti,
grazie
alla sua facoltà di mutare il suo corpo in quello di un animale che è
riuscito a
sopravvivere per dodici anni in quell’inferno. Quando si trasforma le sue
capacità mentali si riducono, i suoi pensieri diventano più elementari ed i
Dementors non riescono ad angosciarlo come fanno invece quando è un uomo.
Il prigioniero sospira, chiudendo gli occhi.
Deve
trovare un altro modo per non permettere ai ricordi di affliggerlo.
Comincia a canticchiare una ninna nanna, la
stessa
che la donna dai capelli rossi dei suoi ricordi cantava ad un bambino.
Con quella nenia nella mente si appisola sul
nudo
pavimento in posizione fetale.
E’ così che alcune ore dopo, i secondini,
seguiti
dal Ministro della Magia, lo trovano quando entrano nella cella.
Senza troppi complimenti, i nuovi arrivati, per
fargli aprire gli occhi, gli rovesciano addosso dell'acqua gelida apparsa
dal
nulla grazie ad un colpo di bacchetta.
Il risveglio dell'uomo è brusco. Si mette
seduto di
scatto e si guarda in giro spiritato. Chi ha osato svegliarlo in quel modo?
Stava così bene nel mondo del sonno. Era nero come la pece e gli permetteva
di
riposarsi senza avere brutte idee per la testa.
Quando i suoi occhi si posano sul ministro
della
magia un ghigno gli si dipinge sul volto ricordandosi della sua
visita.
Il ministro della magia è un uomo corpulento
dall'aria bonaria. Non è molto intelligente e quando parla straparla. Il suo
nome è Fudge. In quel momento sta guardando il carcerato con sufficienza.
"Allora come sono passati questi sei mesi?", dice con la sua voce
stridula.
Il prigioniero non risponde, non è abituato a
farlo. Considera l'uomo che ha davanti un pallone gonfiato, incapace di fare
qualsiasi cosa senza l'aiuto di Dumbledore, il preside di Hogwarts fin dai
tempi
in cui lui aveva frequentato quella scuola.
Non ottenendo risposta, Fudge come ad ogni sua
visita, sorride all'uomo in modo fintamente comprensivo, mentre si siede
sulla
seggiola portata nella cella, per l'occorrenza, dai secondini. Ha con sé un
giornale e comincia a passarselo nervosamente di mano in mano. I secondini
hanno
estratto le bacchette rivolgendole verso il prigioniero, pronti ad
intervenire
in caso di aggressione. Aggressione che però non si è mai verificata
negli anni
passati, fino a quel giorno.
Il prigioniero continua a guardare il ministro
con
una smorfia. E' chiaro a tutti che non ha una bella opinione di lui ed
infatti
Fudge gli serve solo perché è l'unico contatto che ha con l'esterno;
altrimenti
lo manderebbe volentieri a quel paese.
Il carcerato sa benissimo che se anche lui non
parla, l'altro lo farà e ciò che gli dirà gli farà capire come il mondo al
di
fuori di Azkaban va avanti.
Il ministro è un uomo più portato per il
compromesso che per prendere delle decisioni importanti. Per mantenere la
falsa
calma che in quel momento c'è nel mondo della magia, sarebbe capace anche di
negare il negabile. Inoltre, come ministro, ha anche il brutto vizio di
parlare
troppo. Quando arriva in un luogo, sia che qualcuno gli ponga domande, sia
che
non lo faccia, lui dice sempre ciò che gli passa per la testa.
Era stato durante la sua visita al carcere di
tre
anni prima che, dopotutto, il prigioniero aveva scoperto che il suo
figlioccio
aveva cominciato a frequentare Hogwarts. Fudge se l'era fatto scappare
mentre gli
rinfacciava le sue accuse. Gli aveva detto che i suoi reati erano troppi per
nominarli tutti ma che, ormai lì ad Azkaban, non avrebbe più potuto nuocere
a
nessuno e soprattutto non avrebbe potuto nuocere al bambino che era
sopravvissuto dato che ora era a Hogwarts sotto il controllo di Dumbledore.
Il
bambino che era sopravvissuto non poteva che essere Harry Potter, il suo
figlioccio. Lui aveva finto che il discorso non gli interessasse, tanto
anche
sapere dov’era il ragazzo, non l’avrebbe aiutato a sconfiggere i suoi sensi
di
colpa e l'altro nemmeno si era accorto di ciò che aveva detto, continuando a
sproloquiare per nulla. Se fosse stato davvero un delinquente
quell’informazione
gli sarebbe stata molto utile, una volta che fosse riuscito ad evadere, per
raggiungere il giovane ed ucciderlo, ma Fudge era stupido e non aveva
nemmeno
capito l’errore che aveva commesso.
Un altro modo poi, per il carcerato di ottenere
informazioni dall’esterno sempre grazie al ministro, è il giornale che
l’uomo
mai si dimentica di portare con sé. Il giornale è sempre la Gazzetta del
Profeta
ed i suoi titoli sono così enormi che il prigioniero riesce sempre a
leggiucchiarne qualcuno.
Fudge comincia a passarglielo sotto il naso
agitandolo mentre, come al solito, gli cita le sue colpe in una filippica
che
durerà almeno mezz’ora.
Facendo finta di essere annoiato, l’uomo, con
sguardo vigile, concentra la sua attenzione sul giornale.
Il primo titolo è poco interessante, parla solo
di
un incidente verificatosi nel nord dell’Inghilterra, alcuni babbani sono
stati
aggrediti da dei vampiri e gli Auror sono intervenuti a salvarli.
Il secondo titolo è già più interessante;
almeno
parla di persone che il carcerato conosceva prima di finire ad Azkaban. Sono
suoi lontani parenti: i Weasley. Hanno vinto un viaggio in Egitto e ci sono
andati con tutta la famiglia. Buon per loro, non hanno mai navigato nell’oro
e
quel viaggio deve essere stato un toccasana, pensa l’uomo.
La sua attenzione, poi, viene attirata dalla
foto a
corredo dell’articolo. Certo che Arthur ne ha avuti di figli, considera,
cominciando a contarli: uno, due, tre, quattro, cinque, sei… Quando il suo
sguardo finisce su un ragazzino di tredici anni molto alto per la sua età,
dai
capelli rossi, che saluta con una mano, si accorge di una cosa. Il giovane
ha
sulla spalla un topo. Il prigioniero, vedendo il roditore, dimentica
all’improvviso la sua volontà di essere riservato.
Quel topo assomiglia a… Non finisce il
pensiero, si
sporge di più per guardare meglio la foto.
Fudge continua a parlare e non vuole saperne di
tenere fermo il giornale in una posizione.
Lui però ha bisogno di controllare meglio
quella
foto, deve bloccare la mano con cui l’uomo davanti a lui la tiene. Di scatto
è
sul ministro.
Lo assale quasi senza pensarci, vede solo la
foto.
Fa cadere dalla sedia Fudge e gli è subito
sopra.
Con violenza, prima che l’altro si renda conto
di
ciò che è successo, gli strappa il giornale dalle mani.
I secondini intervengono con tempestività.
Lo allontanano dal ministro con un incantesimo
e lo
fanno sbattere contro il muro. L’uomo prova dolore ma l’eccitazione per
quello
che ha scoperto, rende dolce anche il malessere fisico.
Continua a guardare la foto ed ormai è certo di
aver visto bene. Non può sbagliarsi. Legge l’articolo velocemente e trova
ciò
che gli interessa.
Fudge viene scortato dalle guardie fuori
dalla
cella e le sbarre vengono immediatamente richiuse dietro di lui.
Il prigioniero comincia a ridere in modo
sguaiato.
Fra una risata e l’altra urla: “E’ a Hogwarts.
E’ a Hogwarts.”
Quasi non sente i secondini che lo minacciano
di
fargli incontrare quella sera stessa i Dementors visto ciò che ha osato fare
al
ministro.
Tanto lui quella sera non sarà più ad Azkaban,
no
finalmente ha capito che la sua espiazione non passa più per la prigionia.
Alle prime luci della sera, prima che i
secondini
possano far diventare realtà le loro minacce, l’uomo si trasforma in cane.
Magro
com’è riesce a passare attraverso le sbarre e abilmente evita i Dementors
che
vagano per i corridoi.
Si trasforma in uomo solo per aprire la porta
che
lo porterà nella sezione del carcere in cui si trovano i secondini e poi
ritorna
a mutarsi in cane.
E’ molto fortunato perché, gli addetti alla
prigione ancora galvanizzati dalla visita del ministro, sono tutti rintanati
nelle loro stanze. Non incontra nessuno, i secondini hanno troppa fiducia
nei
Dementors per pensare che qualcuno possa scappare, e riesce ad uscire
all’aperto senza grosse difficoltà.
E’ già lontano quando il secondino che avrebbe
dovuto introdurre il Dementors nella sua cella, per torturarlo con la sua
presenza senza “baciarlo”, da l’allarme della sua fuga.
Il prigioniero evaso, mentre cammina per le
strade
deserte, ha solo un pensiero fisso in testa: andare a Hogwarts.
La sua espiazione infatti ora si chiama
Vendetta.
***
Sono le prime luci dell’alba e, nelle strade
deserte della piccola cittadina nel sud della Scozia, un uomo cammina con
fare
spedito lungo le vie deserte.
E’ un signore di cui è difficile capire l’età.
Ha i
capelli castani che iniziano ad imbiancare alla radice e qualche ruga
comincia a
nascere ai bordi della bocca e degli occhi ma, nel complesso, i suoi
lineamenti
sono giovanili. Ha alcune cicatrici che gli solcano il viso che però non
riescono a rovinarne la gradevolezza. I suoi occhi sono di un bel colore
ambrato
ed ispirano tranquillità, tuttavia se si osservano con attenzione non si può
non
notare la vena malinconica che li travaglia.
I suoi vestiti, un completo verde formato da
giacca
e pantaloni, hanno visto di sicuro tempi migliori. Sono rattoppati in più
punti
ed il colore ha perso la sua brillantezza originale diventando pallido.
Devono
di sicuro essere stati acquistati molti anni prima.
Alla prima occhiata si può già dedurre che quel
tizio non naviga di sicuro nell’oro.
Il suo aspetto infatti è sì piacevole e pulito
ma,
nel contempo, trasandato.
Svolta in un angolo ed entra in un piccolo
edificio
che porta l’insegna “Pensione Mamma Rose”. E’ una piccolo fabbricato
fatiscente,
i cui muri esterni sono imbrattati da strani disegni, le finestre sono
sbilenche
ed il tetto è in buona parte scoperchiato.
Sembra impossibile che qualcuno ci possa
vivere,
eppure è così.
L’uomo, nel piccolo atrio, incontra una
vecchietta
seduta alla reception. “Buongiorno Mamma Rose.”, la saluta con una voce
dolce ma
nel contempo decisa.
“Buongiorno.”, risponde la donna per poi
chiedere:
“Sei appena tornato dal lavoro?”
“Sì.”
“Com’è andata stanotte?”
“Abbastanza bene.”
“Sono felice per te, deve essere dura lavorare
di
notte.”
“Non tanto, ho fatto lavori peggiori del
guardiano
notturno.”
“Capisco.”, il tono di voce della vecchietta è
partecipe. Fa una piccola pausa prima di informarsi dicendo: “Per quanto
tempo
hai detto che ti serve ancora la stanza?” Porge le chiavi all’uomo che le
prende
rispondendo: “Grazie. Lavoro per un’altra settimana per cui dopo sarò
costretto
a trasferirmi altrove.”
“Mi dispiace. Sentirò la tua mancanza, sei uno
dei
pochi avventori della mia pensione che paga regolarmente e soprattutto parla
con
me civilmente.”
“Purtroppo il lavoro di guardiano durava solo
tre
mesi, ora dovrò cercarmi qualcos’altro.”
“Come sei costretto a vivere è deplorevole, sei
una
persona così per bene, è ingiusto che tu debba lavorare una tantum, vivere
in
posti come questo, buoni solo per dei reietti come lo sono anch’io, e non
possa
avere una vita facile e serena.”
“Sono un licantropo mamma Rose e la vita non è
mai
giusta per i licantropi, ma non mi lamento, potrebbe andare
peggio.”
“Lo so, dopotutto anch’io sono un licantropo, e
so
cosa significhi vivere in questa società che ci condanna solo per il nostro
stato. E’ già tanto se sono riuscita ad aprire questa attività che mi
permetta
di tirare avanti fino a quando non morirò. Non guadagno molto, il giusto per
vivere, altrimenti ti assumerei volentieri io qui come aiutante, infatti,
non
potrò mai dimenticarmi cosa hai fatto per me la settimana scorsa, se non
fossi
intervenuto, quel Troll di sicuro mi avrebbe devastato completamente la
pensione. Grazie ancora.”
“Si figuri. Chiunque sarebbe intervenuto al mio
posto, mi domando solo chi possa aver portato qui un
Troll.”
“Non ne ho le prove ma deve essere stato il
pensionato della stanza vicina alla tua. Il giorno dopo, infatti, è sparito
senza pagarmi l’affitto.”
“Mi dispiace.”
“Non devi. Nella mia pensione capitano di
continuo
questi inconvenienti. E’ uno dei problemi nel non chiedere informazioni a
chi si
ferma a dormire qui, potrebbero essere dei delinquenti, ma d’altra parte
solo
chi ha un qualche motivo per nascondersi o qualche problema come te, viene
qui.
Non è un posto eccezionale e poi io sono quello che sono, un licantropo da
temere.”
L’uomo vorrebbe continuare a parlare con la
donna,
ma uno sbadiglio gli blocca le parole sul nascere.
Si porta la mano alla bocca per nasconderlo e
quando l’allontana la vecchietta lo guarda dolcemente e gli dice: “E’ meglio
se
vai a dormire. Dopo il turno notturno è naturale essere stanchi. Se vorrai
parlare ancora con me, mi trovi qui nel pomeriggio, come al
solito.”
“Penso che tu abbia ragione, è meglio se vado a
coricarmi per qualche ora. Ci vediamo nel pomeriggio.”
Detto questo l’uomo percorre in tutta la sua
lunghezza la sala d’entrata per dirigersi verso le scale. Le sale fino al
secondo piano dove si trova la sua camera.
Percorre il piccolo corridoio e si ferma
davanti ad
una porta in legno massiccio il cui colore una volta era marrone scuro ed
ora è
castano slavato. C’è un numero scritto in rosso su di essa, ovvero il
201.
Nel frattempo, l’uomo sta ripensando ad alcuni
pezzi della sua conversazione con Mamma Rose. La vita è davvero ingiusta e
non
solo per i licantropi, infatti se fosse stata giusta, lui in quel momento,
non
sarebbe stato lì ma con i suoi amici dei tempi delle scuola a ridere e
divertirsi. Una smorfia attraversa il viso dell’uomo, mentre scuote la testa
per
ricacciare indietro quel pensiero.
Non deve pensare più al passato, fa troppo
soffrire, deve concentrarsi sul presente.
Quel
giorno per quel signore è una giornata strana, è da ore che prova una brutta
sensazione che gli opprime la bocca dello stomaco e periodicamente il suo
pensiero va al passato senza che possa fare niente per impedirselo.
Perché?
Si obbliga a non pensarci; non è il caso di
farlo
lì fuori nel corridoio.
L’uomo apre la porta e la richiude dietro di sé
entrando nel piccolo appartamento immerso nelle tenebre.
Sussurra una parola e subito la luce si accende
rivelandone l’interno.
Il locale è composto da tre stanze: una cucina
che
fa anche da salotto, un letto ed un bagno.
L’appartamento è arredato in modo sobrio e nei
tre
mesi in cui l’avventore ci è rimasto, ha apportato poche modifiche.
L’uomo sembra voler far rimanere la sua vita
nell’anonimato, forse per motivi di segretezza, forse per essere pronto ad
andarsene in ogni momento, forse per abitudine.
Quell’uomo deve essere abituato a cambiare
città e
casa più volte all’anno ed ovunque vada tenta sempre di fare amicizia il
meno
possibile.
Nessuno è mai andato a trovarlo da quando vive
lì e
solo Mamma Rose è riuscita a farlo sbottonare e farlo parlare un po’
di sé. Il
fatto che fosse anche lei un licantropo, ha aiutato la loro intesa, ma non è
solo per quello.
La vecchietta sembra aver visto molte cose
brutte
del mondo, le stesse cose brutte che ha visto l’uomo.
La donna sembra aver perso molte persone care
durante gli anni della sua vita, e lo stesso è anche per quel signore.
L’uomo sospira rendendosi conto che la sua
mente
sta vagando di nuovo verso pensieri pericolosi e per l’ennesima volta, quel
giorno, si ritrova ad allontanare quei ricordi dolorosi tentando di pensare
ad
altro.
L’entrata dell’appartamento da subito sulla
cucina
– salotto e l’uomo si guarda intorno per trovare qualche appiglio che faccia
concentrare la sua mente su qualcosa di più sereno.
Il cucinino è formato da un piccolo lavello, un
piccolo fornello ed un piccolo frigorifero. E’ tutto piccolo in quella casa,
oltre che essere quasi completamente vuota. L’uomo sorride a quel pensiero.
Nel
lavello non ci sono posate e piatti, nel fornello non ci sono pentole e nel
frigo non c’è quasi per nulla del cibo ma, d’altra parte, i soldi che il
signore
ricava dal suo lavoro sono ben pochi, il giusto per comprarsi da mangiare
giorno
per giorno.
Anche il divano nel salotto è piccolo e così
pure
la scrivania.
A differenza però degli altri mobili, la
scrivania
è colma di carte e libri. Libri di difesa contro le arti oscure più che
altro.
Un tempo l’uomo possedeva anche molti romanzi e
tanti dischi e se li portava sempre dietro, perché amava leggere ed amava la
musica, ma era da anni ormai che quei libri e quei dischi giacevano tutti
impolverati nella vecchia casa appartenuta ai suoi genitori.
E’ da quando ha scoperto che nei libri non ci
sono
tutte le soluzioni ai problemi del mondo, è da quando è stato tradito
perdendo
tutti gli affetti più cari che, lui, ha smesso di credere nelle favole ed ha
cominciato a vivere come fa ora.
Nessun contatto con l’esterno se non è
strettamente
indispensabile e nessuna passione bruciante per non venirne fuori
carbonizzati,
sono queste le regole della sua vita. Meno illusioni e più fatti concreti.
L’uomo si dirige verso la scrivania e ne guarda
il
contenuto attentamente.
Forse per cacciare quei brutti pensieri che gli
affollano la mente, invece che dormire, potrebbe continuare la ricerca che
sta
facendo sul “patronus”, l’unico metodo per proteggersi contro certe creature
oscure e per comunicare. Gli piace fare alcuni saggi durante il suo tempo
libero
per diletto, lo fanno rilassare.
Ad un tratto la sua attenzione però viene
catturata
da un libro: l’unico romanzo che si è sempre portato con sé, durante i suoi
viaggi. C’è molto legato per il suo significato di fondo.
Quel libro è stato scritto da uno dei più
grandi
creatori di pensiero della storia, è alla base di un credo che, durante il
settecento, aveva prodotto delle grosse rivoluzioni nel mondo babbano.
E’ la storia di un uomo che, per vivere felice
con
la sua donna, compie un viaggio di formazione che lo porterà a vivere
innumerevoli avventure, a volte surreali. Quando alla fine del romanzo
Candido,
il protagonista del romanzo, riesce a sposare la sua bella, si rende
conto però
che la vita coniugale non è come credeva e comincia a rimpiangere il viaggio
stesso che l’aveva condotto fino a quel punto. E’ un libro che parla del
crollo
delle illusioni.
L’uomo lo porta con sé, pensa amaramente, come
monito. E’ stato un suo amico a regalarglielo e quello stesso amico è stato
anche l’artefice del crollo del suo mondo di illusioni in cui amicizia ed
amore
erano le cose più importanti, più importanti anche del suo essere licantropo
che
lo costringeva a scontrarsi contro un mondo ostile. Quel suo amico lo ha
buttato
nella dura realtà, una realtà che non gli piace ma in cui è costretto a
vivere.
Improvvisamente preso da un raptus di rabbia
l’uomo
afferra il libro e lo getta nel cestino con violenza.
Vorrebbe farlo sparire da sé, quel giorno i
ricordi
sono troppo opprimenti e lui non vuole più pensare a quel periodo che lo fa
soffrire.
Poi però l’uomo torna in sé, riprende i suoi
modi
calmi e posati, recupera il libro da dove l’ha buttato e lo rimette sulla
scrivania, solo che lo nasconde sotto gli altri tomi.
Quel romanzo è un monito e lui non può
gettarlo.
Lo aiuta a ricordarsi della sua stupidità
giovanile
e gli permette di avere una vita adulta, più equilibrata.
Si passa una mano tra i capelli nervosamente e
rendendosi conto che lavorare alla sua ricerca gli è impossibile in quel
momento, l’uomo si decide ad andare in camera.
Forse, una bella doccia rilassante e qualche
ora di
sonno, lo aiuteranno a frenare i ricordi che in quelle ore non vogliono
sapersene di starsene fermi nell’angolo più remoto della sua coscienza.
L’uomo si dirige in camera. La stanza è
composta
solo da un letto, un piccolo comodino e un armadio. Apre le ante
dell’armadio e
tira fuori un nuovo completo giacca - pantalone che è ancora più vecchio di
quello che il signore ha indosso.
A casa, il signore infatti, usa abiti ancora
più
consunti, quello che porta, in confronto, lo si potrebbe definire nuovo. Ha
solo
due abiti in condizioni ragionevoli e li alterna nel lavoro settimana per
settimana.
Comincia a spogliarsi e con cura piega la
camicia
ed il vestito appena tolti in modo da poterli usare anche quella sera.
L’uomo rimane in canottiera e mutande e si
dirige
verso il comodino, apre il cassetto e ne estrae un cambio
dell’intimo.
Poi finalmente si decide ad andare in
bagno.
Il bagno è una stanzetta molto piccola, c’è
soltanto un water, un lavandino e la doccia.
L’uomo abbassa il coperchio del water e vi
appoggia
i vestiti.
Con abili gesti finisce di spogliarsi buttando
gli
indumenti intimi in un contenitore dove ci sono i panni sporchi. Li laverà
più
tardi con la magia.
Rimasto nudo l’uomo si posiziona sotto il getto
dell’acqua della doccia.
Del suo corpo ci sono due cose che rimangono
subito
impresse: una è l’estrema magrezza, così estrema che gli si vedono le
costole;
l’altra sono le cicatrici. Il suo corpo è devastato dalle cicatrici, devono
essere dei ricordi delle sue trasformazioni in licantropo.
Il signore comincia a lavarsi, passa le mani
sul
suo corpo con movimenti regolari e tonificanti.
Si massaggia le spalle, le gambe ed il torace e
sente lo stress della giornata andarsene con le gocce d’acqua che scivolano
dal
suo corpo per finire successivamente nello sfiato di scarico.
Mentre si lava l’uomo comincia a pensare alla
notte
di lavoro.
E’ un pensiero piacevole, visto che non lo fa
pensare al passato.
Il suo lavoro consiste nel fare il guardiano
notturno, deve accertarsi che degli animali magici, che presto verranno
portati
a Diagon Alley per essere venduti agli studenti che andranno a Hogwarts, non
fuggano durante la notte.
Visto che quelle bestie sono estremamente
intelligenti, l’uomo deve essere vigile. Quegli animali sono stati catturati
di
recente, le pensano tutte per recuperare la loro libertà visto che ancora
non è
stato fatto loro l’incantesimo di fedeltà ai maghi che li rende soggetti
alla
loro influenza. L’incantesimo gli verrà impresso la prossima settimana dal
mago
incaricato dal ministero e così il lavoro dell’uomo finirà.
Il suo contratto prevede che se uno di quegli
animali dovesse sparire, lui deve risarcirlo e dove li troverebbe i soldi
visto
la situazione misera in cui versa? Rischierebbe di finire in galera come
insolvente per cui deve essere guardingo.
Quel lavoro a dirla tutta è poco remunerativo
perché prevede orari assurdi che in pochi si adatterebbero a fare e perché è
pericoloso, quegli animali pur di scappare non esitano ad attaccare chi li
ha in
custodia, è un lavoro da disperati e quindi il ricavo è basso, nonostante
quegli
animali a Diagon Alley verranno venduti ad alto prezzo.
L’uomo guarda intensamente la sua mano destra,
c’è
una piccola cicatrice sul palmo, è quasi impercettibile segno che sta per
sparire ma c’è ancora.
E’ il ricordo lasciatogli da uno di quegli
animali
che ha tentato la fuga quindici giorni prima. Si tratta di qualcosa di
simile ad
un “gatto” dal pelo fulvo e gli occhi vispi. Non sarebbe proprio un “gatto”
visto che gli animali magici sono diversi da quelli babbani ma,
dall’aspetto,
sembrerebbe proprio un micio. E’ sempre un felino.
Mentre l’uomo faceva il solito controllo delle
gabbie di ronda il “gatto”, che era riuscito ad aprire con le unghie la sua
cella, lo aveva assalito attaccandolo alla testa, lui era riuscito ad
impedirgli
di raggiungere il bersaglio, proteggendosi con la mano. Era rimasto ferito
ed
istintivamente l’uomo aveva tirato fuori la bacchetta ed aveva scagliato
l’incantesimo di fedeltà sull’animale.
Non avrebbe dovuto farlo, ma era stato l’unico
modo
per calmare la bestia che quel giorno era particolarmente agitata.
Il “gatto” sembrava fuori di testa, pur di non
tornare in gabbia si sarebbe anche ucciso. Era questo che l’uomo aveva letto
nei
suoi occhi istintivamente ed era per questo che lui aveva fatto
l’incantesimo
per impedirgli di aggredire ancora qualcun altro o di lasciarsi
morire.
Nessuno sapeva di quell’episodio, e sperava che
il
mago del ministero non si accorgesse che il “gatto” aveva già impressa
quella
magia su di sé, tanto di solito quello stregone faceva un sortilegio
complessivo
per tutte le bestie giusto per non renderle troppo soggette alla sua
influenza.
Se qualcuno avesse scoperto che l’uomo aveva
fatto
quell’incantesimo sarebbe finito nei guai, infatti solo pochi maghi per
motivi
di sicurezza, sono autorizzati a farlo e lui non è fra questi.
L’incantesimo di fedeltà infatti è un
incantesimo
molto complesso che lega il mago e l’animale in modo profondo, anche se poi
quest’ultimo può legarsi anche ad un’altra persona che ne diventa il
padrone. E’
come un marchio di fabbrica, un modo per sapere chi incolpare se un animale
magico aggredisce il suo proprietario. Nessuno può manomettere l’incantesimo
di
fedeltà e su ogni animale ce ne può essere solo uno che rimanda al mago che
l’ha
scagliato. Se qualcuno avesse sondato il sortilegio sul “gatto” subito
avrebbe
capito chi era stato a farlo, mettendolo nei guai.
Il “gatto” comunque ora è docile e con il
signore è
anche affettuoso; se la faceva franca con il mago del ministero, era
apposto.
L’animale non avrebbe mai fatto del male a nessuno, ne era sicuro e così
nessuno
avrebbe avuto motivo di analizzare la bestia.
Dopo avergli fatto il sortilegio, infatti, ogni
volta che l’uomo entra nella stanza per controllarlo il “gatto” è sempre
calmo e
comincia a miagolare, per non smetterla fino a quando non lo coccola ed
accarezza, solo quando lo vede.
Il micio è simpatico e vispo.
L’uomo con le dita accarezza quella piccola
cicatrice e sorride al pensiero di quel gatto. Anche lui ormai ci è
affezionato
e questo anche se a lui i gatti di solito non piacciono, li detesta perché
sono
sempre pronti a leccare in posti dove non dovrebbero. Sono irritanti. Li ha
sempre trovati ostici come animali ed in parte ciò deve essere dovuto al suo
istinto canino da lupo mannaro.
Tuttavia con quel “gatto” è diverso, forse è
perché
è magico, forse è per via dell’incantesimo che li unisce l’uno all’altro,
forse
è perché da sempre ha sentito una certa sintonia tra loro nonostante
l’aggressione, forse è perché è talmente tanto solo che ormai, qualunque
creatura gli dia il suo affetto, lui non può che corrisponderla.
L’uomo sospira pensando che gli spiace un po’
separarsi dal “gatto” la prossima settimana quando il suo lavoro sarà
finito, ma
è inevitabile. Non può tenerlo con sé, non ha i soldi per comprarlo. Spera
solo
che il gatto trovi un buon padrone.
Presto, poi, il gatto l’avrebbe dimenticato e
lui
avrebbe dimenticato il gatto nello stesso modo in cui quella cicatrice che
l’animale gli aveva fatto, fra pochi giorni, non ci sarebbe stata più e per
fortuna che quella cicatrice sarebbe svanita, visto tutte quelle che
ha, una in
più non dovrebbe fare la differenza, ma nonostante quello il signore non
riesce
a pensare alle sue cicatrici in modo sereno.
No, perché lui le ha sempre ritenute orribili,
no
perché gli ricordano la persona che invece le ha sempre trovate sexy. La
persona
a cui piaceva toccarle e… Ferma i suoi pensieri e blocca le sue mani che
avevano
cominciato a vagare sul suo corpo in modo troppo intimo.
Fa dei profondi respiri per ritrovare
l’equilibrio,
ancora una volta il passato è venuto a galla e nel modo più
doloroso.
Quella giornata è appena iniziata e già non ne
può
più.
Possibile che non ci sia niente che riesca a
distrarlo?
Sospetta che nemmeno dormire faccia al caso
suo,
chissà cosa il suo subconscio potrebbe fargli sognare.
Sente un piccolo grido acuto provenire dalla
camera; è arrivato un gufo.
Si rende conto che è l’ora giusta in cui di
solito
arriva La Gazzetta del Profeta, quel giornale è l’unico capriccio che si
permette con i suoi soldi, deve pur tenersi aggiornato in ciò che accade nel
mondo, no?
Forse l’arrivo di quel giornale è
provvidenziale,
se legge le notizie dettagliatamente per un po’ non penserà a
nient’altro.
Si avvolge con un asciugamano, si asciuga, si
riveste e va in camera fiducioso di aver trovato la soluzione a tutti i suoi
problemi.
Quando raggiunge il gufo ed afferra il
giornale,
però, deve subito ricredersi.
Immediatamente capisce che i suoi problemi non
sono
finiti, anzi sono solo all’inizio.
La foto sul giornale in prima pagina, che lo
guarda
biecamente con un ghigno sadico muovendosi dalla posizione frontale a quella
di
profilo periodicamente, gli fa raggelare il sangue nelle
vene.
Lui quell’uomo raffigurato lo riconoscerebbe
tra un
milione anche se, dall’ultima volta che l’ha visto, è molto cambiato.
E’ più magro, più sudicio, più trasandato, più
vecchio.
Con frenesia, mentre il gufo se ne va, legge il
titolo sopra quella foto. L’uomo divora tutti gli articoli della prima
pagina
della Gazzetta del Profeta in un batter d’occhio.
La sua espressione è indecifrabile.
Quando l’uomo finisce di leggere il giornale,
lo
lascia cadere sul pavimento.
Finalmente ha capito il motivo per cui quel
giorno
aveva quel brutto presentimento, il motivo per cui il passato continuava a
venire a galla, il suo sesto senso voleva prepararlo a quella notizia.
Si prende la testa tra le mani ancora incredulo
che
Sirius Black sia riuscito a fuggire davvero.
Non è possibile.
Dopo tutto quello che ha fatto in passato, come
ha
potuto Sirius scappare? Non ci può credere.
Continua a ripetersi che è impossibile.
Ma poi i suoi occhi si posano di nuovo sul
giornale
a terra e capisce che è successo veramente.
Il dolore che prova nell’aver appreso quella
notizia non è quantificabile.
Ma in lui non c’è solo dolore, c’è anche
qualcos’altro che ancora non riesce a spiegarsi.
Cade all’indietro sul letto e si obbliga a non
pensare più a niente; anche se a fatica. E’ troppo scosso, rischierebbe di
impazzire se analizzasse la situazione nel dettaglio.
La sua mente è invasa da pensieri
incoerenti.
Pensieri che non hanno un filo conduttore e a
cui è
difficile dare un senso.
Gli occhi dell’uomo sono sbarrati davanti a sé,
sono vitrei, privi di vita.
Passano diverse ore e solo un attimo prima di
trovare riposo nel sonno, le sue iridi riprendono vigore, trasmettendo una
strana determinazione.
Sembra che finalmente, quel signore, abbia
trovato
di nuovo il bandolo della matassa dei suoi pensieri e sentimenti ed è per
questo
che, finalmente libero, può chiudere le palpebre e, spossato dal turno di
notte
e dalla notizia, addormentarsi. E quell’uomo ha davvero trovato, prima di
cadere
nelle braccia di Morfeo, cosa lo perseguitava oltre il dolore. Era la
rabbia.
Ha capito che finalmente gli si è parata
davanti
una grande occasione per dare un senso alla sua vita.
Non può più fare niente per le persone che
amava e
che sono morte a causa di Sirius Black ma, può fare molte cose ora, per
fermarlo.
Non gli importa se morirà nell’intento. Per
dodici
anni ha vissuto una vita fasulla in perfetta solitudine per non soffrire
più.
Ora però ha l’occasione di farla pagare a chi
l’ha
fatto soffrire.
Il senso della sua vita d’ora in poi si
chiamerà
Vendetta.
***
Un ritmico squittio è l’unico rumore che si
sente
quella mattina in quella casa in cui usualmente regna il frastuono più
assordante, il caos più totale.
Gli abitanti sono appena tornati da un viaggio
e
sono tutti a letto.
I bagagli sono ancora fermi all’entrata in
perfetto
ordine.
Ogni angolo del salotto e della cucina è ancora
pulito.
Nonostante i cinque figli dei sette che vivono
ancora a tempo pieno durante le vacanze estive nella casa, uno più
scalmanato
dell’altro, non c’è quasi nulla fuori posto.
Quando ieri l’intera famiglia è tornata
dall’Egitto, l’unico pensiero ricorrente è stato il
dormire.
Erano troppo stanchi per fare ogni cosa, hanno
lasciato i bagagli dov’erano, si sono rifugiati nelle loro stanze, si sono
buttati sui loro letti e nel giro di pochi istanti stavano già dormendo.
Sembra essere solo lo squittio, che si fa
sempre
più assordante, fuori posto in quel silenzio quasi surreale per la casa a
cui
appartiene.
Ma chi è che produce quel rumore?
In salotto non c’è nessuno, ed in
cucina?
C’è un topo grigio e raggrinzito sopra il
tavolo.
Ha dormito in mezzo ai bagagli per tutta la
notte
ed al mattino presto, quando si è svegliato, è andato in cucina a cercare
qualcosa da mangiare.
La sua ricerca è durato diverso tempo ma a
sorpresa, visto che la signora di casa ha fatto delle rigorose pulizie,
prima di
partire per il viaggio, non ha trovato niente.
E’ strano che in quella casa non si trovino
delle
briciole sul pavimento o degli avanzi sopra il tavolo. La donna di casa
adora
cucinare, è sempre dedita a quell’attività, ma quel giorno purtroppo sta
dormendo anche lei.
Il topo, rassegnato, si è accucciato sopra il
tavolo in attesa del risveglio dei suoi padroni.
Ad un tratto un gufo è arrivato entrando dalle
finestre sempre aperte. Il topo spaventato visto che sa che quel tipo
d’uccello
ama mangiare i roditori, tutto tremolante ha tentato di farsi piccolo,
piccolo
per nascondersi alla sua vista.
Il gufo però non essendo venuto per lui, non
l’ha
degnato di uno sguardo. Era venuto solo per consegnare un giornale.
Con grazia il grosso uccello ha depositato il
giornale sul tavolo e poi è sparito da dove era entrato.
Il topo si è avvicinato guardingo al
giornale per
guardarlo ed è ciò che ha visto che ha prodotto il suo squittio.
Il topo, dopo la prima occhiata al giornale, ha
cominciato subito a tremare come preda dei fremiti della febbre, la fame è
stata
improvvisamente dimenticata mentre i suoi occhi non riuscivano a smettere di
fissare l’uomo con il ghigno nella foto in prima pagina.
Ed anche ora che sono passati diversi minuti il
roditore continua a squittire e tremare.
I suoi occhi azzurri, slavati, incredibilmente
umani, sono lucidi e trasmettono molta ansia.
E’ come se, quel topo, si aspettasse che l’uomo
della foto, possa smaterializzarsi da un momento all’altro davanti a lui
nella
sua versione “reale” per fargli del male.
E’ come se sappia che gli
capiterà qualcosa di pericoloso e doloroso a causa dell’uomo apparso sul
giornale e che quel qualcosa non può che chiamarsi Vendetta.
***
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