Ormai la coltre
notturna era scesa a celare quel crudo spettacolo. Il velo di tenebra
copriva già la terra ferita e viscida di sangue, mascherando
quel suo cremisi mortifero. Nel buio, occhi spalancati, braccia tese,
gemiti spezzati, corpi laceri. Quando le lune avessero lasciato il
posto al chiarore del giorno, allora sarebbe stato il momento di
scendere nella piana e raccattare i macabri frammenti di esistenze
misere. Gli scontri si erano protratti fin oltre il tramonto, ogni
minimo raggio di sole era stato strappato a quell’ingrato
compito. Sarebbe toccato all’alba assistere a quella tremenda
cerimonia, prima che tutto si ripetesse, ancora una volta: nemici si
sarebbero trascinati in quel luogo di morte come fantasmi, sarebbero
arrancati uno accanto all’altro, spogli di armi ed armature,
avrebbero raccolto i fiori della battaglia e della morte. Dopo i roghi
rituali, con il sole a picco sulle loro teste come la lama di un boia,
avrebbero combattuto su un tappeto di cenere, mentre il vento avrebbe
sparso su di loro una strana neve grigia, i resti di ciò che
rimaneva di alleati e rivali. Kahrain sembrava non vedere quella
tragedia che lui stesso aveva creato, forse il suo era un piacere
sadico e perverso. Da due anni continuava così, due anni di
inutili spargimenti di sangue, di fame, di incubi. Due anni di guerra.
«Per quanto ancora dovrà durare?»
Guardava senza vedere la desolazione dei massacri e degli scontri
passati; per l’occhio della mente erano ben chiari e
distinti. Nella sua testa rimbombava il clangore delle lame, come i
ruggiti, le urla, un fragore assordante impossibile da attutire. La
brezza notturna spazzava verso l’accampamento
l’odore malsano e nauseante dell’inferno. Lo
stomaco gli si strinse, temeva che non avrebbe retto ancora a lungo.
«Vorrei che finisse questa sera stessa, Eastar».
Si voltò e lo vide, illuminato dal bagliore fioco di un
braciere. Appariva molto diverso da come l’aveva conosciuto:
gli ultimi mesi lo avevano logorato senza alcuna compassione. Non era
che il pallido riflesso di ciò che era stato,
l’ombra evanescente del secondo principe di Ethelon. Se prima
era magro, ora era diventato scheletrico. L’ultima volta che
lo aveva visto senza la camicia aveva potuto contargli le costole sotto
la pelle. Il viso era sciupato, smunto, la barba ispida cresceva
incolta sulle sue guance. Del leggero velo d’oro che ornava
le sue palpebre in giorni migliori non era rimasta traccia: al suo
posto, un alone violaceo sottolineava gli occhi e gli conferiva
un’aria inquietante. I capelli troppo lunghi e scompigliati
erano lucidi per l’unto, sporchi di terra, incrostati di
sangue. Non indossava più le sue tipiche vesti dorate, thobe
lunghi fino alle caviglie svolazzanti e leggeri, di seta morbida
ricamata da mani abilissime. Non profumava più delle rose
che gli erano tanto care, né di incenso. Ogni vezzo da
nobile aveva lasciato il posto alla trascuratezza di un soldato rude e
sgraziato. Tuttavia, non poteva fare a meno di esserne affascinato.
Lasciò che lo abbracciasse, e il suo mantello a ruota intera
riparasse entrambi dal vento gelido che iniziava a soffiare. Si
scambiarono un bacio fugace, conoscendo l’inadeguatezza del
loro gesto in una situazione simile, ma entrambi sapevano che era
necessario ricordarsi il loro affetto reciproco appena ne avevano la
possibilità, per non impazzire e perdersi in una spirale di
dolore. Dovevano sentirsi vicini, uniti. Temevano che presto si
sarebbero dovuti separare per sempre. «Vieni,
su…». Si fece condurre nella tenda di Mahiens, in
silenzio, e gettò un ultimo sguardo al campo di battaglia
prima di scomparire dietro alla cortina di tessuto. Si sedette sul
tappeto di pelliccia, e trascinò con sé il
compagno. «Ho paura». Si strinse a lui, afferrando
l’orlo della tunica. Il respiro si fece più
pesante, la gola bruciava terribilmente. «Portami via,
Mahiens. Portami via». Mentre il mondo svaniva sotto un velo
opaco di lacrime, sentì una mano gentile accarezzargli la
schiena. Affondò il viso nel suo petto e prese a
singhiozzare.
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