Il processo

di Stephanie86
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Sarah guarda l’orologio. Sono le due del pomeriggio, passate da un paio di minuti.

Il tempo scorre, veloce e fluido. Stagioni passano lasciando qualche traccia qua e là in questo mondo. Il tempo porta con sé l’amore. Il tempo lo fa appassire. Il tempo si porta via i ricordi, a volte anche quelli più belli, quelli che si tenta a tutti i costi di conservare. Il tempo è un fiume che rompe gli argini e travolge tutto. Anche ciò che si vorrebbe salvare.

Ma il tempo con lei non ha fatto la stessa cosa. Lei ricorda tutto.

Non si sente in colpa. Sa quello che ha fatto. Sa perché si trova lì, vicino al suo avvocato, in un’aula di tribunale, circondata dal mormorio di persone che non conosce, che sono venute per vederla in faccia, per vederla da vicino, per leggere le sue espressioni, per scattare delle foto.

Non si sente in colpa. No. Ma i ricordi la tormentano. Sono i ricordi della sua vita insieme a Jo, la sua compagna. Sono ricordi che non la lasciano in pace. I ricordi che non la abbandoneranno mai.

Anche adesso ricorda. L’attesa la costringe a ricordare.

 

“Ci sei mai stata a Parigi, Sarah? Non sai quante cose mi hanno raccontato di Parigi. Potremmo andarci. Sarebbe bello”.

La dolcezza di quella voce è incredibile.

“Parigi...”, mormora Sarah.

“Non ti piace?”.

“Non lo so. La trovo banale. Ci vanno tutti”.

“Che sciocca che sei. È romantica”.

“Se lo dici tu”.

 

Non dovrebbe continuare a pensarci. Solo che non ha la forza di reprimere quei pensieri. Riemergono. Sono ricordi che sopravvivono, che la sommergono.

Il vuoto che sente dentro è troppo grande. Per quanto Sarah sappia di aver fatto solo ciò che lei ha chiesto, l’assenza di Jo è terribile. È uno schiaffo sul viso ogni mattina. È sale gettato su una ferita aperta.

Jo. Sarah l’ha sempre chiamata così. Jo. Ha sempre scritto il suo nome così.

Le sembra di sentire le sue mani sulle spalle, le braccia che circondano la sua vita... e poi i suoi occhi scuri ed intelligenti. Occhi da cerbiatta. I capelli biondi che accarezzava spesso. Le era sempre piaciuta la sensazione dei suoi capelli che scivolavano fra le dita.

 

“Perché tu e Stefano non cercate di andare d’accordo?”.

Sarah scuote la testa. “Perché è una causa persa. Tuo fratello non capisce”.

“Spero che il nostro rapporto non sia una causa persa”.

“Ma che dici, Jo...”.

“Ti amo. Lo sai, vero? Non voglio perderti solo perché Stefano, questo, non riesce a capirlo”.

“No, Jo. Tu non mi perderai. Io ti amo”.

Dolce bacio sulle labbra. Jo ha bisogno di essere rassicurata e lei lo fa volentieri.

“Dimmelo di nuovo”, chiede Jo, sorridendo.

“Ti amo, Jo. Sei la mia vita”.

 

Stefano, il fratello di Jo, è lì. Sta aspettando il verdetto, come tutti. Lui vorrebbe che la giuria la condannasse. Lui la considera un’assassina. Non ha mai accettato il fatto che sua sorella si fosse innamorata di una donna. Di una donna che, per di più, fino a pochi mesi prima, si guadagnava da vivere servendo ai tavoli di un pub e partecipando a mostre d’arte contemporanea con i suoi “stupidi quadri”.

L’accusa ha chiesto dieci anni. Dieci lunghi anni in una cella.

Ma Sarah non sta pensando a quello. Sta pensando a Jo.

Perché lei? Perché doveva capitare proprio alla donna che amava? Perché doveva capitare proprio alla sua unica ragione di vita?

 

“Cos’è successo?”.

Stefano la guarda, gli occhi lucidi di lacrime. I genitori di Jo sembrano statue di granito.

“Un incidente...”, risponde lui.

“Che incidente? Quando? Come...?”.

“L’hanno investita, Sarah. Un uomo. Credono... credono fosse ubriaco”.

Sarah vede rosso. Un lago rosso. Un abisso rosso. Le pulsano le tempie.

“Come... come sta?”, riesce a chiedere.

“Non lo sappiamo. La stanno operando”.

Poi era arrivato un medico. Un medico dall’aria stanca, con gli occhi scuri, arrossati.

Aveva spiegato loro l’entità del danno. Jo era paralizzata dal collo in giù.

“Guarirà, vero?”, chiede Sarah. “Vero che guarirà?”.

No. Non sarebbe guarita.

Era proprio quello il punto. Non sarebbe mai guarita.

 

Voci nella sua mente. Echi. Una moltitudine di echi.

Si massaggia le tempie. L’atmosfera intorno a lei si è fatta sonnacchiosa. Come durante una lezione, a scuola, sul finire di una giornata grigia e uggiosa.

Lontana, lontanissima, sente la voce del suo avvocato e una mano sulla spalla.

- Stai bene, Sarah?

No, non sta bene.

- Sì - risponde, meccanicamente.

Nemmeno il suo avvocato, per quanto bravo e gentile, può immaginare che cosa stia provando o pensando. Ma non importa. Lo sa lei. Ed è più che sufficiente. Nessuno conosceva Jo come la conosceva lei. Neanche quel saccente di suo fratello.

Nessuno...

 

“Quindi lei ammette di aver staccato le macchine?”.

Le hanno già fatto quella domanda. Un milione di volte.

“Sì”.

“Amava Giovanna Mancuso, signorina Ferri?”.

“Certo”.

“Ne è sicura?”.

“Sì”.

Prova rabbia. Collera. L’avvocato che rappresenta l’accusa è un uomo alto, brizzolato, sicuro di sé. La guarda con aria di sfida. Desidera il suo crollo.

“Allora perché l’ha uccisa?”.

“Io non l’ho uccisa. È stata lei a chiedermi di farlo”.

“Perché?”.

“Diceva che... non voleva vivere così. Che quella non era più la sua vita. Diceva... diceva che non riusciva a sopportare il suo stato”.

Confusione. Baccano.

Stefano si alza in piedi. È furioso. Piange.

“Sei una bugiarda!”, grida. “Sei solo una sporca bugiarda, Sarah! Nient’altro”.

Il giudice ordina di fare silenzio. Il martello batté sul legno. Una volta. Due.

Nessuno lo ascolta.

“Ordine! O faccio sgombrare l’aula!”.

“Voi non capite!”, grida Stefano. “Non credetele. Non dice la verità. Mia sorella...”.

“Ordine!”.

 

Sì. Lei ha staccato le macchine. Lei ha fatto quello che Jo le aveva chiesto di fare.

Non voleva. All’inizio, non voleva.

Non sopportava l’idea di vivere senza Jo.

Non sopportava neanche di vederla ridotta in quello stato, per colpa di un uomo che una sera aveva bevuto troppo.

Odia quell’uomo. Lo odia con tutto il cuore e tutta l’anima. Lo odia talmente tanto che, a volte, il suo odio la spaventa.

Devi farlo, Sarah. Solo tu puoi farlo, aveva detto Jo.

Solo lei.

Ti prego.

Quelle erano state le due parole che l’avevano maggiormente colpita. Ti prego. Quelle erano state le parole decisive.

L’aveva fatto. L’aveva aiutata.

Io ti amo, Sarah. L’ultima cosa che aveva detto, prima che la sua voce si spegnesse e i suoi occhi si chiudessero per sempre.

Anch’io ti amo, Jo.

- La corte! - annuncia una voce imperiosa.

Rumore di passi. Porte che si aprono e si chiudono. Sarah si riscuote e vede i membri della giuria che rientrano, ordinati, con le facce inespressive. Facce giovani, facce vecchie, facce barbute, facce pulite. Uomini e donne.

Entra anche il giudice e subito inforca gli occhiali.

Tutti si alzano in piedi. Anche Sarah. Si sente ancora stordita, frastornata.

- La giuria ha raggiunto il verdetto? - domanda il giudice.

Un attimo di silenzio. Breve.

L’incaricato si alza e si schiarisce la voce. Ha un foglietto bianco in mano.

- Sì, vostro onore.






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