Nuova pagina 1
Ringraziamenti doverosi di inizio fan fiction: Innanzitutto a tutti, e intendo dire proprio tutti coloro che hanno commentato finora le mie storie; a chi commenterà questa, positivamente o negativamente non importa, basterà che la critica sia motivata; a chi a causa della mia insicurezza cronica è costretto a darmi sempre rassicurazioni; alla Rowling per aver creato Harry Potter; alle fic writerper aver in molti casi MIGLIORATO Harry Potter; a Sirius e Remus per essere sempre così carini insieme (anche se in questa fic non c'entrano niente! XD); al sole; al mare; ai begli uomini palestrati che d'estate girano a petto nudo.
A chi ha il coraggio di fuggire, perchè non sempre è la scelta più facile...
Buona lettura dalla vostra
Twinstar
CANICOLA
Canicola:
dal latino canicula, diminutivo di canis, “cane”. Antico nome della stella
Sirio, della costellazione del Cane maggiore, che tra il 24 e il 26 agosto sorge
assieme al sole dopo 70 giorni al di sotto della linea dell’orizzonte,
annunciando il periodo più caldo dell’anno. Per estensione è sinonimo di gran
caldo.
***
Come fa una giornata ad essere così lunga?
E così calda, afosa, pesante, vischiosa? E’ sera ma la stanza
è soffocante, l’aria stessa irradia l’afa tremenda del soleggiato pomeriggio
d’agosto come se le pareti ne fossero impregnate, nonostante nella stanza le
tende siano state sempre tirate. Perché a Grimmauld Place la luce del sole non
entra quasi mai, perchè tenere le finestre aperte di modo tale che tutti possano
guardare cosa succede in casa non è rispettabile.
Io non so nemmeno che significa esattamente rispettabile,
è una parola che dice sempre la mamma, ma non deve essere una bella cosa se mi
fa sudare tanto. Vorrei chiederglielo prima o poi ma mi risponderebbe che non ha
importanza cosa significa, devo esserlo e basta perché sono una Black e ce l’ho
nel sangue.
Ma io non capisco.
Uno sbadiglio.
Seduta al bel tavolo massiccio chino lo sguardo specchiandomi
nel ripiano scuro e lucido e per un attimo penso a come deve essere bella la
sensazione del legno fresco sulla pelle bollente delle braccia nude e sulle
guance rosse. Ma non posso di certo lasciarci sopra aloni di sudore, è un tavolo
antico e prezioso. Come tutto qua dentro, del resto. Mi hanno detto che una sola
delle maniglie di questa casa vale più della mia vita. Vorrei dire che trovo
assurdo questo ragionamento perché non si può paragonare un oggetto a una
persona, ma sono solo una bambina, e neanche una molto sveglia. Lo dicono gli
adulti.
Per cui sarà vero.
Uno sbuffo.
Poggio la schiena contro la sedia che scricchiola sotto il
mio peso. Spero di non romperla. Incrocio le braccia all’altezza del petto, la
testa piegata di lato con aria assorta. Un ricciolo capriccioso sfuggito a
quella assurda, elaborata costruzione di fiocchetti e fermagli che ho in testa
mi dondola davanti alle ciglia ma non faccio niente per toglierlo, a malapena me
ne accorgo.
Vorrei andare alla finestra. Tirare le tende, aprire i vetri
e lasciare che l’aria fresca della notte entri nella stanza togliendo questa
soffocante e insopportabile cappa estiva, per trovare un po’ di sollievo. Vorrei
anche aprire la porta, lasciar entrare un po’ di corrente dal corridoio e
approfittarne per andare a fare la pipì, o a prendere qualcosa da bere, o a
cercare la mamma, anche se ci sono i mostri là fuori: li sento borbottare,
imprecare nel buio.
Prima hanno gridato, mi fanno paura.
Non voglio essere presa dai mostri e non voglio farmi
sgridare per essere uscita dalla stanza quando mi è stato detto di non farlo,
così rimango ferma immobile al mio posto, faccio la brava come vogliono i grandi
anche se non ne ho voglia e sono stanca e sto sudando e mi annoio. Permetto solo
alla mente di disobbedire alla mamma, perché quella è solo mia e nessuno può
entrarci dentro: chiudo gli occhi e penso a come sarebbe bello sdraiarsi per
terra, sollevare fino a metà coscia le sottane celesti tutte pieghe e svolazzi e
sentire il pavimento fresco sotto le gambe nude. Nella fantasia non ho paura di
cosa penserebbe (o farebbe) la mamma se mi vedesse a mostrare le mutandine a
quel modo.
Il problema è che funziona solo dentro la testa: fuori ho
sempre la schiena appiccicosa, la fronte sudata e ho gli occhi asciutti e
brucianti. Vorrei non stare qui dentro ma sono una piccola fifona. E pigra, e
sciocca. Mi vergogno.
Un sospiro.
Un sospiro di troppo, forse.
Dalla poltrona situata nell’angolo opposto della stanza mia
sorella maggiore solleva lo sguardo dal libro che sta leggendo, quello di Arti
Oscure che ha trafugato dalla libreria dello zio, e mi scocca un’occhiataccia:
odia qualsiasi tipo di lamentela o piagnisteo perché li considera manifestazioni
di debolezza. Lei odia la debolezza perché è forte. E visto che io sono debole a
volte ho l’impressione che odi anche me.
I begli occhi neri come mirtilli avvampano d’ira seminascosti
dalle ciglia folte e ricurve, e le sopracciglia scure che li sormontano, sottili
e ben delineate, sono piegate leggermente all’insù, conferendole un’aria
naturalmente accigliata; il tipo di sguardo che mi fa desiderare di essere muta,
morta, di far parte di un altro universo. O di un’altra famiglia.
“Perdonami, Bella…”, pigolo in mia difesa. “Ho caldo.”
Senza neanche degnare di una risposta il mio patetico
tentativo di difendermi sbuffa, infastidita, e scuote la testa bruna prima di
tornare alla sua occupazione. Bellatrix non ha caldo, ma anche se ce l’avesse
non lo darebbe certo a vedere, perché lei è un vera signora proprio come la
mamma, anche se ha solo due anni più di me.
Come fa a starsene seduta tutta composta da ore con quel
vecchio libro noioso in mano senza togliersi dalla faccia quell’aria di
distratta eleganza che sembra contraddistinguere tutti in famiglia a parte me? E
come riesce a non sentire il caldo avvolta in quella veste pomposa di organza
nera tutto pieghe e drappeggi, con il lungo scialle di raso color ciliegia
annodato elegantemente sulle spalle? O a non sudare con quella lunga, lucida
chioma color dell’inchiostro che le scende in morbide onde fino alla vita?
E’ bella ed elegante con una dolce naturalezza che riempie
d’orgoglio la mamma e d’invidia la sottoscritta. Nella mia infantile ingenuità
di piccolo e goffo anatroccolo lasciato nella sua ombra ho sempre pensato che
Salazar o chi per lui fosse stato davvero molto ingiusto a donare a lei tutta la
classe e a non lasciarne neanche un goccio a me.
Invece ne era rimasta più che in abbondanza per la piccola
Narcissa.
La bimba bionda che giocherella ai miei piedi sdraiata di
pancia sul bel tappeto di licantropo dello zio, la mia adorabile sorellina
minore: una creatura fragile e snella come un uccello, delicata come il fiore di
cui porta il nome. Tira le labbra sottili in un sorriso dolce e mi fissa con
quegli occhi azzurri troppo grandi che danno al suo viso disadorno un’aria
timida, quasi sgomenta; si tiene il mento appuntito tra le manine paffute e
agita i piedi nelle scarpine lucide facendo frusciare le sottane di raso al
ritmo della canzone che sta canticchiando (una nenia che le canta sempre la
mamma), la voce limpida come un tintinnio di campanelli. V’è nel suo modo di
fare una tranquilla e commovente dignità, che non si attribuirebbe mai ad una
bimba di cinque anni.
Un sorriso.
Narcissa è il mio tesoro: non piange né si lamenta mai e
riesce a sembrare carina e a suo agio anche con quell’orrida acconciatura a coda
di cavallo che le costringe la chioma lasciandole il viso disadorno e
accentuandone la forma triangolare, e con quell’orribile, pomposo vestito bianco
tutto pizzi e trine che la fa sembrare una grossa gelatina Tuttigusti+1 al latte
più che una bambina.
“Tra un po’ vengono a prenderci, dai…”, mi dice gentile prima
di tornare a canticchiare tra sé e sé, e mentre Bellatrix soffoca una risata io
vorrei sprofondare dall’imbarazzo.
Sono più grande eppure è lei a dovermi consolare.
Non ha neanche paura dei mostri là fuori.
Che vergogna…
***
Mi suda il sedere.
Tutta colpa di questa stupida imbottitura di velluto della
sedia e di questo orrendo, opprimente vestito che mia madre ha insistito per
farmi mettere nonostante dovessimo andare a casa della zia, dove siamo già state
un milione di volte, e non al ballo delle debuttanti. E’ celeste, come se non
bastasse. Io odio il celeste, e non m’importa se s’intona coi miei capelli o
quanto mi faccia risaltare meravigliosamente l’incarnato. Odio il celeste e odio
questo vestito.
I mostri nel corridoio odiano le bimbe coi vestiti celesti.
Mi suda il sedere e mi annoio.
Faccio leva con le mani sui bordi della sedia e agito i piedi
nell’aria in segno d’impazienza. Questa è la stanza dei giochi dello zio, ma non
c’è niente di divertente in giro, come fa a passarci tanto tempo, che fa tutto
il giorno qua dentro? Ho esplorato ogni centimetro della stanza e ho trovato
solo qualche libro difficile nella libreria vicino alla finestra e un sacco di
oggetti impolverati dall’aria fragile che ci è stato proibito di toccare… C’era
anche una bella bottiglia piena di tè nascosta sotto la scrivania, ma doveva
essere lì da parecchio perché aveva un odore strano e l’ho rimessa al suo posto.
Secondo me gli adulti sono sempre così incavolati perché i loro giochi sono
noiosi. Anche Bellatrix è sempre imbronciata, infatti non gioca mai con noi. Con
la coda dell’occhio la vedo coprirsi la bocca con la mano sottile in un gesto
elegante e appena accennato.
Uno sbadiglio.
Allora anche lei è umana.
Mi suda il sedere, mi annoio e ho fame.
Del resto l’ora di cena è passata da un pezzo. Secondo la
mamma una signora non deve mai far vedere che ha fame, e lo capisco, ha ragione,
e vorrei tanto obbedire, ma come si fa a spiegarlo alla pancia? Il mio stomaco
si lamenta, brontola, geme e fa tutta un’altra serie di rumori poco
rispettabili. Io tento di dissimulare l’imbarazzo, ma è difficile quando tua
sorella minore ti fissa scandalizzata; la bocca sottile contorta in una
grottesca forma a “O”, gli occhi sgranati, le guance tinte di rosa in
un’espressione di muto stupore. La massima manifestazione di sbigottimento per
lei che non ha eccessi d’alcun tipo, neppure nel gioco. Mi vergogno tanto, non
riesco a trattenermi. Non è colpa mia, non so come fare, nessuno ha insegnato
alla mia pancia a non parlare quando non si è interrogati come hanno fatto con
me e le mie sorelle.
La porta si apre con un acuto cigolio e tutte e tre ci
voltiamo in direzione dell’uscio, dal quale sta entrando il giovane elfo
domestico di famiglia che porta la nostra cena. Dovrei chiedermi come mai non ci
lasciano mangiare in sala come al solito, se allo zio non dispiacerà farci
cenare nel suo studio, oppure dove sono i nostri genitori, ma mi sta venendo
l’acquolina al solo pensiero di mettere qualcosa sotto i denti.
Un sbuffo.
Mia sorella maggiore non dice una parola, ma è ovvio che
anche lei aveva una gran fame e che sta accogliendo l’arrivo del cibo con una
gioia tale che dimentica persino di manifestare il suo scontento per l’arrivo
del giovane Kreacher. Bellatrix lo odia perché non sopporta l’incapacità, in
special modo negli elfi domestici e secondo lei Kreacher ha cominciato a
prendersi troppe libertà perché la zia è troppo buona e non è stata in grado di
educarlo a dovere.
Secondo lei il mondo è pieno di persone troppo buone.
Bellatrix rimane al suo posto.
Narcissa salta in piedi contenta e si va subito a sedere a
tavola.
Io invece resto a fissare quella creaturina che arranca a
fatica in direzione del tavolo con quel vassoio enorme contenente le nostre
cene: tre bei piatti di zuppa calda, pane, una bottiglia d’acqua fresca, tre bei
bicchieroni di succo di zucca e un dolce dall’aspetto appetitoso, e ha tutto
un’aria tremendamente deliziosa. E’ decisamente troppo per lui, non ce la farà
mai da solo. So che non si dovrebbe dare confidenza agli elfi domestici perché
sono inferiori, ma a dare una mano non farei nulla di male, no? Mamma dice che
una signora rispettabile deve essere sempre gentile e cordiale con tutti.
Tutti comprende anche Kreacher, così mi alzo in piedi e corro
nella sua direzione. Mi fermo davanti a lui e gentilmente metto le mani sul
bordo del vassoio, sgravandolo di un po’ di quel fardello. E’ veramente pesante,
come ha fatto finora a trascinarlo tutto da solo?
“Lascia che t’aiuti, Kreacher.”, sorrido, ma vengo
ricompensata da uno sguardo di puro disprezzo, simile a quello con cui lo
fissano di solito gli adulti. Le sopracciglia si aggrottano fino a ridurre gli
occhietti acquosi a due fessure, labbra si piegano ancora di più verso il basso,
tirandosi dietro il naso arcuato, lasciando scoperchiati i dentacci gialli in
una smorfia disgustata. Ricorda un sacco la nonna.
Mi scosta le mani dal vassoio con un gesto infastidito e
continua a camminare con passo incerto verso il tavolo, che si è già premurato
d’imbandire lussuosamente con un rapido gesto delle dita mentre io non guardavo.
“La signorina Andromeda non dovrebbe dare tanta confidenza
agli elfi domestici…”, borbotta con quel tono di servilismo che sa di fasullo.
Mi dà l’idea che non mi ritenga degna nemmeno di leccargli le scarpe. “Forse la
signorina dovrebbe chiedere alla signora madre di insegnarle ciò che si conviene
con una buona dose di frustate…”
Mortificata come sono non riesco nemmeno a scusarmi. Non
capisco perché mi ha risposto così, io volevo solo essere gentile… Sono davvero
lenta di comprendonio come dice sempre la mamma…
Un sospiro.
Alle mie spalle.
“Sarai tu a ricevere la tua dose di frustate educative se
continuerai a rivolgerti in questo modo ai membri della famiglia, piccola
patetica creatura.”
E’ Bellatrix a prendere le mie difese, in maniera del tutto
inaspettata, con voce calma e perentoria così simile a quella della mamma, lo
sguardo collerico, quasi demoniaco, e io capisco che forse Kreacher se l’è presa
con me e col mio gesto perché gli piace essere trattato in tutt’altro modo, dal
momento che alle parole offensive di mia sorella risponde con un inchino servile
e profondendosi in mille scuse prima di finire di sistemare la tavola in tutta
fretta e di defilarsi talmente rapido che sembra smaterializzarsi.
In silenzio mi sbrigo ad andare da Narcissa per aiutarla a
legarsi il tovagliolo attorno al collo di modo tale che non si sporchi, mentre
mia sorella minore se la ride tutta contenta e fa i complimenti a Bellatrix, che
nel frattempo ha posato il libro sulla poltrona e s’è seduta a tavola senza
ricambiare quell’allegria. Narcissa è molto dolce, nella sua ingenuità è felice
che il mio onore sia stato difeso da mia sorella e che quell’elfo domestico
antipatico abbia avuto il fatto suo. E’ ancora così giovane ed innocente, del
resto, e non capisce che è mortificante per noi farsi aiutare, anche se da un
membro della famiglia.
Mi siedo a tavola a capo chino, le guance rosse.
Bellatrix è furiosa. Con Kreacher e anche con me. Lo so.
Non riesco nemmeno a ringraziarla anche se vorrei, perché so
che non ha difeso me, ma l’onore di famiglia che un essere inferiore stava
mettendo in discussione col suo comportamento indisponente. Ormai ho otto anni e
sarebbe ora di cominciare a vedermela da sola per piccolezze di questo tipo, me
lo dicono sempre tutti. Ma sono fatta tutta sbagliata, non ci riesco. Lancio uno
sguardo timoroso verso Bellatrix e noto con stupore che anche lei mi sta
guardando, mentre mangia la sua zuppa.
Un sorriso.
Dolce, gentile, affabile.
“Se ti fai mettere i piedi in testa persino dagli elfi
domestici farai poca strada, Medina…”, mi dice con affetto, e io mi limito ad
annuire mentre maschero il groppo che ho in gola con una cucchiaiata abbondante
di cibo. Mi ha parlato come si fa a una stupida, una ritardata o, peggio, come a
una persona che senti non avere nessuna possibilità di soddisfare le tue
aspettative. Fa’ male, avrei preferito che mi sgridasse, che mi insultasse o che
mi frustasse come suggeriva prima Kreacher.
E’ esigente di solito, Bellatrix; con me, con noi, molto,
forse più di nostra madre, ma non ci chiede di sforzarci per migliorare più di
quanto non faccia lei stessa per cui non la si può biasimare e non le si può
dare della cattiva. Vuole solo che ci impegniamo come lei per diventare delle
vere Black, che abbiamo la vita felice che sognano tutte le ragazze, me per
prima. Di solito mi avrebbe fatto una ramanzina chilometrica per farmi mettere
giudizio. Ora quella dolcezza mi dice che ha perso ogni speranza con la
sottoscritta.
Mia sorella si è arresa.
Non è giusto…
Ci provo ad essere una persona migliore.
Ma non è abbastanza. Non è mai abbastanza…
***
La cosa peggiore non è quando non puoi uscire da una stanza
perché sei in castigo, ma quando non puoi uscire anche se non sei in castigo.
Però c’è anche la possibilità che adesso siamo in castigo tutte e tre e io non
lo sappia, come quella volta in cui dopo aver fatto a botte con Bellatrix (lo
facevamo spesso quando eravamo più piccole) mi ero rifugiata in camera per farmi
sgonfiare di nascosto dalla nostra elfa domestica l’occhio nero che mi aveva
fatto mia sorella prima che mi vedessero i miei, e poi ero rimasta lì tutto il
giorno a sbollire la rabbia: solo quando a sera era venuta la mamma a dirmi che
ora se ero pentita di averle fatto male potevo scendere a cenare mi ero resa
conto di essere stata in punizione l’intero pomeriggio.
Chissà che ore sono.
Considerando che persino Bella s’è stancata di star ferma a
leggere e s’è messa a guardare fuori dalla finestra direi che ci aggiriamo
intorno alle tre di mercoledì prossimo. Lancio un’occhiata a mia sorella:
chinata un po’ in avanti, i gomiti poggiati sul cornicione, il viso tra le mani,
contempla pigramente il cielo notturno.
Non ci sono stelle, o quasi. Come sempre, in città.
Colpa di tutte quelle stupide luci babbane, secondo
lei. Ama quella notte che i Babbani profanano in maniera vergognosa e a suo
avviso qualcuno dovrebbe lanciare un bell’incantesimo per spegnere tutto di modo che il buio torni ad essere tale: lo farebbe davvero se avesse l’età per
possedere una bacchetta. Io vorrei dirle che è un ragionamento un po’ egoistico,
il suo; è da pazzi anche solo pensare di lasciare l’intera città allo scuro
perché lei possa intravedere la sua adorata costellazione di Orione, ma dal modo
in cui batte per terra la punta della scarpa capisco che non è il caso di
lasciasi scappare un fiato.
Meglio lasciarla in pace, ci tengo alla vita.
Per il momento è tranquilla, s’è accontentata di spegnere le
candele lasciando la stanza quasi al buio. Le luci esterne proiettano ombre
lunghe e nere, che invece di spaventarmi mi rilassano. La stanza è più fresca,
si sta bene ora, se l’avessi saputo avrei chiesto prima a Bella di farlo. Anche
i mostri del corridoio hanno smesso di lamentarsi da un po’.
Uno sbadiglio.
“I morti non si annoiano, Cissy…”, mormora Bellatrix con tono
monocorde, come fosse persa nel suo mondo, senza voltarsi.
Uno sbuffo.
Narcissa sdraiata sul solito tappeto aggrotta le sopracciglia
sottili e volta appena la testa in direzione della finestra e, non vista, tira
fuori la lingua e fa una smorfia solo accennata alla figura di spalle di nostra
sorella per poi tornare a fissare il soffitto con sguardo vitreo, perché i morti
non si muovono e di sicuro non rispondono al sarcasmo delle sorelle maggiori. E’
il suo gioco preferito fingere di essere morta, di solito lo fa quando viene
punita, per passare il tempo in camera: non ho mai capito cosa ci trovi di tanto
divertente nello stendersi di schiena da qualche parte e a stare immobile.
Sinceramente, mi preoccupa un po’. A mamma non dispiace che si diverta così
perché almeno sta’ tranquilla invece di correre da tutte le parti come facevo io
alla sua età.
Resto immobile a sentire rumori che possono appartenere solo
al buio, perché alla luce del sole o di una candela non ci si fa’ mai caso. Il
battito leggero del mio cuore, il respiro leggero di Narcissa, il ticchettio
della scarpa di Bellatrix sul pavimento di legno, i familiari scricchiolii della
vecchia casa degli zii.
Poi… Passi lungo il corridoio.
Colpi brevi, leggeri alla porta. Silenzio.
Improvvisamente quel buio confortevole è diventato spaventoso
e il primo pensiero è che i mostri nel corridoio hanno taciuto solo per farmi
tranquillizzare ma che in realtà non se ne sono mai andati e ora, protetti dalle
tenebre, mangeranno me e le mie ignare sorelle come biscotti.
Combatto l’impulso di correre a proteggere la piccola
Narcissa abbracciandola con forza perché lei non gradirebbe. La mia povera
sorellina odia ogni forma di contatto fisico non necessario e non imposto dalla
rigida etichetta di famiglia. L’abbraccerei solo per una squallida ed illusoria
sicurezza personale, sarei io a cercare protezione da mia sorella minore, il che
sarebbe vergognoso. Diventerei ufficialmente la barzelletta di casa.
Anche perché i miei timori sono ridicoli.
E’ stupido, è stupido.
I mostri dei corridoi non esistono, sono solo le fantasie di
una bambina fifona e tarda, è stupido averne paura, e anche le bambine che
parlano di mostri sono stupide. Perché a noi Black è permesso avere paura, basta
non darlo a vedere. Un cigolio. La porta si sta aprendo. Mi copro gli occhi con
le mani e chino la testa, tremando.
Non sono i mostri, è immaginazione.
Però l’immaginazione è una forza potente, Bellatrix una volta
mi ha raccontato la storia di una bambina che faceva diventare veri i suoi
incubi, forse anche io sono così, forse i mostri dei corridoi non esistevano e
li ho creati io.
No, è stupido…
Stupido! Stupido!
Poi le luci si accendono, lo so perché anche se ho gli occhi
chiusi sento il calore delle fiamme sulle guance e il naso, e il suono di una
voce fin conosciuta mi dà il coraggio di sollevare un po’ la testa. Narcissa è
rimasta stesa sul tappeto, a fissare con sguardo assente i granelli di polvere
che le danzano davanti agli occhi. Del resto i morti non si muovono. Bellatrix
continua a darmi le spalle e a fissare il cielo con un’estasi disincantata.
E davanti a me il volto sereno e sorridente di mio padre.
“… Papà…”, sussurro, e ricaccio dentro il groppo che ho in
gola e le lacrime che mi fanno pizzicare gli occhi. Ho avuto paura del mio papà,
ora sì che mi sento una cretina.
Salto giù dalla sedia rovesciandola a terra con discreto
fragore e corro tutta felice verso quell’uomo alto e bello che tende le braccia
davanti a me. E’ un abbraccio veloce, impacciato, quasi uno scontro di petto che
si conclude con la tradizionale pacca sulle spalle di due amici di vecchia data
che si incontrano casualmente in un pub. Fa un po’ male, fa sempre male perché
mi dà l’idea di essere rifiutata, che il mio papà si vergogni di me, ma so che è
giusto che faccia così: la mamma dice sempre che non devo abituarmi ad insulse
affettuosità se no mi rammollisco.
Mi separo da lui e mi metto al suo fianco, fissandogli la
mano e mi sento avvampare le guance dalla vergogna quando vengo assalita
dall’impulso quasi doloroso di stringergliela. E’ una ridicola debolezza che non
posso permettermi. Non è un comportamento rispettabile.
Per fortuna papà non se ne accorge mai.
“Certo che fa caldo qui dentro…”, mormora sbuffando e
facendosi aria con una mano. “Kreacher non ha rinfrescato un po’ la stanza
quand’è venuto a portarvi la cena?” L’espressione delle nostre facce è così
esplicativa che preferisce saggiamente cambiare argomento.
“Perché stavate al buio?”, domanda con innocente curiosità.
Narcissa si stringe nelle spalle.
I morti non rispondono.
Bellatrix piroetta elegantemente nella nostra direzione. “Ma
per vedere le stelle, padre…”, replica serafica con un sorriso annoiato, di
circostanza, dipinto sulle belle labbra rosso sangue. “Sono meravigliose
stasera.” Come faccia a dirlo resta un mistero, perché lancio un’occhiata fuori
dalla finestra e, luce o non luce, non si vede assolutamente niente. Ci sono un
sacco di palazzi davanti alla casa dello zio.
Papà invece sorride.
E’ abituato alle nostre piccole stranezze femminili,
come le chiama lui, le trova divertenti e lui ama le cose divertenti. Mette le
mani sui fianchi e assume un’aria di collera bonaria, storcendo il naso proprio
come faccio sempre io quando mi chiamano Medina.
“Almeno quando non c’è vostra madre potresti anche chiamarmi
papà come fanno le tue sorelle, no?”
Bellatrix scuote la bella testa bruna facendo ondeggiare
graziosamente i capelli e ride coprendosi i denti bianchi con una mano. E’
affettata ed elegante, sembra la mamma quando chiacchiera con le amiche ad un tè
pomeridiano.
“Non è educato, padre, non mi permetterei mai. Del resto…” Fa
un rapido cenno con la testa nella mia direzione, mentre lo sguardo nero si fa
duro, cupo. “… La nostra Medina, qui, ha già avuto una reazione più che
accalorata al tuo arrivo.”, aggiunge con una nota di crudele sarcasmo che mi
ferisce. Non mi sembra così sbagliato essere felici di vedere il proprio papà.
Che ho fatto di male stavolta a parte rovesciare una vecchia
sedia?
Un sospiro.
Narcissa “risorge” e senza dire una parola va verso il
tavolo. Solleva la sedia con uno sforzo non indifferente, perché è una sedia
massiccia, forse troppo pesante per una bimba così piccola e gracile, ma la
rimette al suo posto prima che possa farmi avanti per rimediare al mio ennesimo
disastro.
Non degna Bellatrix d’uno sguardo.
Non guarda papà che le sta facendo i complimenti.
Si volta verso di me e sorride mostrandomi tutta orgogliosa
una fila di dentini bianchi.
Anche lei, come me, ha notato il tono sottilmente astioso
nella voce di nostra sorella, quel finto servilismo di facciata che fa
somigliare Bellatrix a quel puzzone arrostisci-bambine di Kreacher in maniera
inquietante. Sempre come me ne è infastidita e ha deciso di uscire dal rigor
mortis solo per evitare un litigio inutile tra me e lei che si sarebbe
concluso con le grida della mamma. Solo che crede che quel sarcasmo sia rivolto
a me, è convinta di aver difeso me. Nella sua ingenuità non ha capito che è
tutto per il nostro caro papà.
Bellatrix non lo sopporta.
“Andromeda è sempre un po’ irruente, lo sai…”, ride
scompigliandomi i capelli con una carezza ruvida ma a malapena me ne accorgo.
“E’ vero, ma è adorabile così com’è.”, cinguetta lei.
Rimango stupita e sconvolta dall’atteggiamento di mia
sorella, ogni volta.
Non si tratta solo di non sopportarlo, ha proprio un rifiuto
nei suoi confronti, ma con lui finge perché deve mostrare devozione
filiale, come una Black che si rispetti: una volta ho provato a chiederle il
motivo di tanto astio e mi sono sentita rispondere che non avrebbe mai detto
nulla a un’adepta di quell’uomo.
Ovviamente non ho capito.
“Andiamo a casa, papà?”, pigola Narcissa, che gli ha stretto
le manine sul bordo della veste e sta tirando con forza verso il basso per
attirare la sua attenzione: piega la testolina bionda all’indietro lasciando che
la chioma bionda brilli alla luce calda delle candele, e lo fissa con un
adorabile musetto imbronciato da cucciolo, che in genere le fa ottenere tutto
quello che vuole, mentre si alza in punta di piedi e chiede di essere presa in
braccio. Se lo chiedessi io mi verrebbe negato.
Ma papà acconsente subito, perché nessuno riesce a dire di no
a Narcissa.
Secondo Bellatrix è piena di capricci e diventerà una
viziata.
“Ancora no, Cissy, prima andiamo tutti a salutare la zia che
è nella sua stanza.”, risponde paziente papà aprendo la porta con una mano e
invitandoci ad uscire. Bellatrix esce per prima, incedendo con una maestosa
pudicizia che mi intimorisce al punto da indurmi a spalmarmi contro il muro,
dopo aver dato una bella occhiata al corridoio buio in cerca dei miei mostri.
“Sarebbe scortese andarsene senza salutare…”
Silenzio.
Un sorriso.
“Hai ragione.”, replica alla fine.
Ma non lo pensa davvero, Narcissa.
E’ stanca, ha sonno, e vuole andare a casa.
Crede che il papà abbia torto, ma preferisce dire una bugia.
Nessuno dice mai la verità, qui a Grimmauld Place, perché non
è rispettabile.
E io, protetta dalla fitta penombra del corridoio scuro,
aggrotto le sopracciglia perché odio le bugie e le falsità, mentre essere un
Black è un po’ come fare una finta magia babbana. Devi far sì che il pubblico
continui a guardare l’occhio mentre è la mano a fare la magia, che si lasci
accecare dalla luce di modo tale che non si avveda dell’ombra che si allunga ai
nostri piedi.
***
E’ mamma ad accoglierci nella pallida penombra del corridoio,
davanti alla camera della zia e naturalmente io non trovo niente di meglio da
fare che inciampare stupidamente nei miei stessi piedi per il nervosismo,
rischiando di rovinare a terra: per fortuna ci pensa Bellatrix a prevenire una
brutta caduta, ma la mamma non mi risparmia comunque un duro sguardo di biasimo
anche se non mi fa la predica.
Non sembra essere nella sua forma migliore.
Sotto agli occhi ha due grosse occhiaie scure e quella massa
di perfetti riccioli rossi è talmente stretta nella rete per capelli che non ne
sfugge nemmeno uno: un’acconciatura simile a quella della nonna nel quadro che
abbiamo a casa. Del resto anche il suo vestito ricorda uno di quelli della
nonna: semplice, di un grigio scuro piuttosto brutto. Sembra una vecchia stanca.
Stanca e nervosa per cui meglio non contrariarla.
Mi scuso per la mia disattenzione.
Ci fa entrare solo dopo averci fatto promettere di fare le
brave, perché la zia non sta bene: quando apre la porta ci precede per
annunciare il nostro arrivo e Bellatrix la segue a ruota, imitandone l’incedere
aggraziato al punto da sembrare la sua ombra. Pare che la stia prendendo in giro
ma non è così. Bellatrix vuole davvero essere elegante e raffinata come nostra
madre, anche se pensa che quella rigida, desueta etichetta le faccia scappare
dalle dita un sacco di divertimento. Secondo Bellatrix la vita è troppo breve
per farsi sfuggire tante cose piacevoli. Però ha anche le idee chiare sul
proprio futuro: da grande vuole sposarsi con un ottimo partito, e sappiamo bene
che apparire fragile e modesta fino al giorno delle nozze è l’unico modo che ha
per farlo.
Non sappiamo perchè funzioni in questa maniera.
E’ così e basta.
Osservo con la coda nell’occhio papà mettere a terra
Narcissa, che sgambetta come un fantasmino biondo accanto a nostra sorella, e
poi prendere posto sulla poltrona accanto alla finestra, mentre io resto ferma
immobile sull’uscio, con le gambe che mi tremano, nelle narici un odore strano,
di caldo e viziato ma diverso da quello a cui c’eravamo abituate nello studio
dello zio, che non m’è mai sembrato tanto accogliente come in questo momento.
Chissà se posso tornare là…
Non so perché siamo qui.
Sono nervosa.
Quando noi siamo malate non riceviamo mica visite in camera,
non è rispettabile per delle signorine. E poi non sono mai stata in
camera della zia. E‘ un enorme locale con il soffitto altissimo, adibito a
camera da letto e a spazioso salotto, ingombro di mobili, divani, sedie e tavoli
dall’aria costosa. Davanti a me un massiccio letto a baldacchino con quattro
grifoni dorati appollaiati in cima ai pilastri. In un angolo della stanza un
grosso camino di marmo nero, sostenuto da colonne che somigliano a spaventosi
serpenti: sopra svetta un quadro dalla cornice finemente lavorata. La tela è
vuota, il suo abitatore (o abitatrice?) deve essere andato a fare una
passeggiata da qualche parte. Ci andrei volentieri anch’io. A sinistra una
grande porta finestra coperta da pesanti tende color indaco.
Mi avvicino un pochino.
Che ci faccio qui?
La zia è seduta sul letto, avvolta fino in grembo da coperte
lilla dall’aria morbidissima e poggiata su un ammasso di enormi cuscini. China
graziosamente la testa di lato, lascia che i lunghi capelli d’inchiostro cadano
lungo i fianchi come seta fine facendo contrasto con la bianca pelle di
magnolia, e ci fissa con quegli splendidi occhi grigio chiaro con pallide
striature verdi, quelli che le ho sempre invidiato.
Non mi sento a mio agio, voglio
andarmene.
La zia è un po’ pallida, probabilmente è il caldo a farla
star male, infatti ha le guance rosse e il respiro un po’ affannoso. Si può
sapere perché non apre le finestre? Può farlo, lei è grande, può usare la magia,
nessuno la sgriderà: e poi è notte fonda e lo zio non c’è, papà ha detto che è
uscito. Non mi stupisce. Lo zio esce sempre e lascia sempre la zia sola a casa.
Forse è per questo che non sorride mai, e le labbra hanno preso una brutta forma
all’ingiù, ed è sempre triste e severa più della mamma: però questo io proprio
non lo capisco, lo zio a me mette paura perché grida sempre e sembra non amare i
bambini. Sono contenta quando non c’è.
Sono contenta quando non c’è
nessuno in giro.
“Vieni avanti, Andromeda, non essere maleducata.”, ordina
perentoria la mamma destandomi da quei pensieri: l’espressione è dura quando
incontra il mio viso mortificato, le labbra strette, le mascelle contratte.
Salto come una molla e mi affretto ad obbedire.
Papà, Bellatrix e Narcissa hanno sempre un comportamento
disinvolto in presenza della mamma, mentre a me basta entrare nel suo campo
visivo per entrare nel panico più totale. Non so perché ma mi mette a disagio.
Eppure non è che nutra per me una particolare antipatia. E’ solo colpa mia se mi
riprende più di quanto non faccia con le mie sorelle; perché sono pigra,
svogliata e incapace, e non sono mai all’altezza delle aspettative di famiglia.
Sono Andromeda, la figlia di mezzo senza qualità.
D’altronde Black non si nasce, ci si coltiva.
O almeno, così dice Bellatrix.
Corro senza intoppi fino al letto, poi però mi ricordo che
mamma non vuole che corriamo in giro per casa: penso al suo sguardo severo e
inciampo di nuovo nei piedi, finendo lunga distesa sulle coperte e mi arriva
alle narici un odore acre, forte ma non sgradevole: per poco non finisco addosso
a quel fagottino che, mi accorgo solo ora, la zia stringe amorevolmente tra le
braccia. Le consuete parole di scuse per la mia immane imbranataggine muoiono in
gola quando, rialzando la testa, mi trovo faccia a faccia con qualcosa di
piccolo e pallido.
Un visino avvolto in una copertina bianca.
E sei tu…
Sei proprio tu quel cosino carinissimo il quale, spaventato a
morte dall’improvviso attacco, non può far altro che salutarmi e rendermi
consapevole del suo arrivo sulla terra forandomi i timpani con un urlo disumano.
Mentre la mamma mi afferra per un braccio allontanandomi in malo modo dal letto
e guatandomi con uno sguardo omicida, la zia si affretta subito a farti
dondolare avanti e indietro e a me viene da ridere della sua goffaggine: sembra
che stia cercando di far oscillare una barca più che tranquillizzare un neonato.
Dopo qualche secondo già s’è arresa e si volta a fissare
implorante la mamma. “Euriale, non so cosa fare…”
“Ti aiuto io!”, grido allungando le braccia per afferrarti,
ma la zia ti allontana bruscamente, causando un’altra ondata di pianto
disperato. Non ci sa proprio fare con i bambini, d’altronde è normale, non
ricordo che ci abbia accudite nemmeno una volta. Prima che la mamma cominci a
sgridarmi dandomi della maleducata, mostro i palmi delle mani alla zia. “Non
devi preoccuparti, zia, guarda. Sono pulite.”, sorrido fiera. “E poi sono brava,
non lo faccio cadere. Per piacere, zia, lasciamelo tenere solo un pochino.”
Cerco di essere il più convincente possibile ma lei non
riesce proprio a fidarsi della piccola, incapace Andromeda e fissa incerta sia
la mamma che il papà, mentre tu continui a piangere disperato, con la faccia
tutta rossa e la bocca aperta come quella di un rospo.
Voglio prenderlo in braccio…
“Accontentala, che ti costa?”
E’ papà che parla.
“Alphard…”, replica la mamma, per niente contenta della sua
intromissione in questa faccenda. “Non mi sembra il caso, è piccola… E’
Andromeda…”, specifica, come se il mio stesso nome fosse prova d’incapacità. “E
se lo facesse cadere?”
Non lo faccio cadere!
Papà sorride e scuote la testa. “Euriale, sii seria… Ha
tenuto Narcissa in braccio un sacco di volte e non mi pare le abbia mai fatto
sbattere la testa contro la ringhiera delle scale o l’abbia mai ficcata in un
calderone. Per una volta le potremmo pure dar fiducia…”
E alla fine vengo accontentata anche se mamma e zia non sono
ancora molto convinte della cosa, perché quando papà si mette in testa una cosa
riesce sempre a spuntarla a modo suo. Mi vieni posato tra le braccia con una
delicatezza forse eccessiva: l’ha detto anche papà, ho sempre tenuto in braccio
Narcissa e non m’è mai caduta, perché con il mio cuginetto dovrebbe essere
diverso?
Comincio a ninnarti dolcemente.
Ruoto il busto piano piano, prima a sinistra poi a destra,
poi ti coccolo un po’ e faccio delle facce buffe, proprio come facevo con
Narcissa qualche anno fa. Lei però non hai mai urlato fino a farsi diventare la
faccia così rossa: si vedono anche un sacco di vene e capillari violacei, sarà
normale?
Non sei molto carino, oggettivamente parlando: sei piccolo e
morbido, profumi di latte, però non hai capelli in testa, sei tutto rosso in
faccia, senza denti e tutto pieno di rughe come un vecchietto. E ti adoro come
non ho mai adorato niente in vita mia.
Se smettessi di guardare quelle piccole labbra rosse e tese e
volgessi gli occhi in direzione delle mie sorelle non vedrei nei loro sguardi lo
stesso palpito d’amore incondizionato ed istintivo che, sono certa, c’è nel mio.
Perché sei l’ultimo arrivato, sei un intruso e sei fastidioso, e dovrai
guadagnarti il loro rispetto e quello dell’intera famiglia col sudore della
fronte. Perché essere Black significa che nulla è dovuto, neppure l’amore di
mamma e papà.
“Chi ha scelto il nome, Euridice?”, domanda mio padre.
Sento un rumore di tende
tirate, la finestra che si apre appena, e subito nella stanza entra, forse per
la prima volta in settimane, l'aria fresca e piacevole della notte. Dev'essere
stato papà. Mi affretto a stringerti attorno al viso la copertina per non farti
prendere freddo.
Se ti ammalassi darebbero
tutti la colpa a me.
Se alzassi gli occhi dal tuo visino vedrei la zia posare per
un istante i begli occhi colmi di gratitudine al papà, per poi rivolgerli alla
notte. ”Antares.”, replica. “E’ un nome importante, dice, e l’erede dei Black
deve incutere timore e reverenza a partire dalle piccole cose…” Lei però non
sembra molto convinta.
“Antares, eh?”, le fa eco papà, e sono certa che ora sta
annuendo con aria comprensiva, perchè lui e la zia si capiscono sempre su tutto.
“Ha sempre avuto lo stesso buon gusto di nostro padre per queste cose, del
resto, perché il nome dovrebbe fare eccezione? Voglio dire, Sirius…” Quando dice
il nome al bambino la sua voce trema un po’, sono sicura che sta facendo una
smorfiaccia per trattenere le risa. “Altro che timore e reverenza, a scuola lo
prenderà in giro anche il gatto del custode.”
Se sollevassi lo sguardo sono certa che vedrei le labbra
della zia piegate quasi impercettibilmente in uno dei suoi rari, bellissimi
sorrisi segreti. Sono quasi sempre per papà, perché fa delle battute spiritose,
ci fa ridere tutti. Tranne la mamma. Ma non m’interessa di loro, adesso.
Ci sei solo tu.
“Sirius…”, ripeto a me stessa, e le parole mi si posano sulla
lingua dense e dolci come il miele più buono.
Sirius Black.
Finalmente hai un nome, mi ero stufata di chiamarti “cosino”.
Non so quanto ti potrebbe importare della mia opinione anche se fossi abbastanza
grande da capirmi ma, nome importante o meno, io lo trovo molto carino. Più
carino di Andromeda, se non altro.
“Fai ufficialmente parte della famiglia, adesso…”, sussurro
gentile, ma tu non sembri molto entusiasta della cosa perché cominci a strillare
più forte fino a farti scoppiare i polmoni e io raddoppio i miei sforzi per
calmarti.
“Va tutto bene, Sirius, non piangere…”, mormoro cantilenando
un po’, proprio come facevo con Narcissa quando mi guardava dalla sua culla, la
notte. Quella strana bambina non riusciva mai a dormire, ma non ha mai pianto o
versato una lacrima per far accorrere la mamma. Io però le dicevo comunque di
non piangere per darle il coraggio che si sforzava di avere. Quando ancora
cercava i miei abbracci e aveva paura dei mostri sotto al letto.
“Va tutto bene…”, ripeto, ma non ne sono convinta.
Ho in braccio il piccolo erede dei Black, il futuro
capofamiglia. E’ un titolo importante, fa paura se ci penso.
Ho paura, infatti.
Ma non di farti cadere.
Sento che qualcosa non va, che non è come dovrebbe essere.
Che non va affatto tutto bene e che ti sto mentendo, e tu ti stai calmando
perchè credi alle mie bugie, perché sei ancora piccolo e non sai cosa t’aspetta
veramente qui.
Perderai molte cose, nel corso degli anni.
L’innocenza, per prima: non per colpa tua che sei così
carino, né dell’educazione che t’impartiranno, che sarà mille volte più rigida
della mia e altrettante volte più severa perché sei l’erede della famiglia Black
e devi portare lustro alla famiglia: sarà il sangue che ti scorre puro e caldo
nelle vene a fare di te ciò che sei destinato ad essere.
Poi, la fanciullezza: ai Black non è permesso rimanere
bambini a lungo. Penso a Bellatrix, bella e fiera come la stella guerriera di
cui reca il nome, che ha solo due anni più di me eppure è già una donna; penso
alla piccola, coraggiosa Narcissa che non ha paura del buio e dei mostri e non
vuole mai essere abbracciata; penso a me stessa che queste cose le voglio ma non
mi sono concesse perché sono sbagliate.
E poi penso a te, che assieme all’infanzia perderai anche le
sue piccole gioie, un abbraccio amorevole, un dolce bacio sulla guancia, le
coperte rimboccate prima di andare a letto la sera… Ti verranno negate persino
le sciocche, innocenti paure infantili… Ma non temere, piccolino, perché non
avrai il tempo di sentirne la mancanza, chiuso nell’oscurità di una casa in cui
non entra mai il sole.
… Così perderai te stesso.
Controlleranno ogni tuo gesto, ogni tua parola, ogni tuo
respiro. Ti faranno credere che non hai bisogno di cose sciocche come una
carezza, un bacio o l'amore e che la sola cosa che ti renderà felice sarà
portare onore alla famiglia. Diventerai ciò che loro vogliono tu sia.
E ti faranno credere di essere tu quello sbagliato se non ti
adeguerai.
Proprio come hanno fatto con
me…
Perchè io non sono sbagliata.
Il bambino piano piano si è calmato, spossato da tanto
pianto, e alla fine apre gli occhi. Li vedo per la prima volta: ha le iridi più
azzurre che abbia mai visto, anche più di quelle di Cissy, che sono chiarissime,
quasi grigie. Sono occhi meravigliosi, anelli sottili di cielo intorno alle
pupille nere ancora incapaci di mettere a fuoco le immagini, nascosti dietro
ciglia lunghe e nere.
Uno sbadiglio.
Uno sbuffo.
Un sospiro.
Un sorriso.
Il più bello del mondo.
E io gli sorrido di rimando, intenerita.
Una creatura che sa sorridere così può ancora essere salvata
dalle tenebre di questa casa.
“Andrà tutto bene, Sirius, te lo prometto… A costo di fuggire
da qui e portarti via con me.”, mormoro con un filo di voce
abbracciandolo forte forte, e mentre fuori albeggia e i primi timidi raggi di
sole fanno capolino all’orizzonte assieme alla fulgida stella di cui porti il
nome, per la prima volta in vita mia credo in me stessa e nelle mie stesse
parole.
|