Fandom: Doctor Who/Supernatural.
Pairing/Personaggi: Eleventh Doctor, Conton,
Rory/Amy (Mr. & Mrs. Pond ♥), Castiel/Dean, Sam.
Rating: Pg-13.
Beta: Koorime
(la martire ♥).
Genere: Angst,
Comico, Introspettivo, Romantico.
Warning: Crossover, Pre-Slash, Spoiler!
Words: 8354 (fiumidiparole).
Summary: Post Doctor Who 6x02/Supernatural 6x15
– Dean e Sam stanno investigando sulla scomparsa di tre persone che non hanno
nulla in comune, tranne il fatto che nei luoghi dove sono sparite sono presenti
delle statue di angeli piangenti. Mentre indagano,
appare davanti a loro una strana cabina blu.
Note: Scritta su questo
prompt richiesto da lady_house
per il Festival del
Crossover di destiel_italia.
DISCLAIMER: Non mi appartengono,
non ci guadagno nulla ù_ù
The Appearance of What We Need
«Non battere ciglio. Se lo fai sei morto.
Non voltare mai le spalle. Non distogliere lo sguardo. E non chiudere mai gli
occhi. Buona fortuna».
29 Aprile 2011, Concordia, Kansas – America; ore 8,03 A.M.
Il cielo era azzurro, gli uccellini cinguettavano e i
bambini giocavano nelle altalene. Sembrava proprio una giornata normale, in un
parco normale, di una minuscola cittadina normale. E questo a Dean non piaceva
neanche un po’, sentiva puzza di bruciato lontano un miglio.
«Che ne pensi?» domandò, voltandosi all’indirizzo del
fratello, seduto accanto a lui, sul sedile del passeggero dell’Impala.
«E tutto molto normale»
osservò Sam con una smorfia, poco convinto quanto lui.
«Già, sembra la fottuta Pleasantville. Cos’è
quello?» domandò poi il maggiore.
«Uno stagno per le anatre?» considerò l’altro perplesso.
«E allora perché non ci sono anatre?» rintuzzò Dean.
«Non lo so» replicò Sam confuso.
«Visto? Non poi così normale» asserì
il fratello convinto, facendogli alzare gli occhi al cielo.
«Facciamo il punto della situazione, ti spiace?» sbuffò il
minore. «Qualcosa ha fatto scomparire tre persone: una
bambina, un adolescente e una ragazza di venticinque anni. Nessuna di loro
apparentemente è legata all’altra, sono di età differenti, di ceti sociali
diversi, abitano perfino lontano l’una dall’altra»
riepilogò diligentemente.
«Giusto, quindi non può trattarsi
di un serial killer, no? Deve essere qualche schifezza soprannaturale, ma non
abbiamo trovato tracce di zolfo o di attività spiritica, la luna piena non è
ancora arrivata e questo non sembra il genere di posto che un branco di vampiri
sceglierebbe».
«Mutaforma?
Skinwalker? Qualche nuova schifezza creata dalla
Madre?» propose Sam.
«Non abbiamo trovato tracce di pelle mutata, ma non potrei
giurare sull’ultima opzione» replicò guardandosi
attorno. «Questo è il parco in cui è scomparsa la bambina, vero?»
aggiunse.
«Sì. Dorothy White, sei anni. La
madre ha detto che l’ha portata qui ieri pomeriggio e l’ha lasciata a giocare
sugli scivoli, si è voltata un attimo per parlare con
un’amica e la figlia è scomparsa» confermò il minore.
Ma Dean non lo stava ascoltando, il
suo sguardo era fisso sulla statua posta nell’angolo più buio del parco: un
angelo piangente. Perché metterla in un punto così nascosto?
«Ehi» richiamò l’attenzione del fratello «non ce n’era una
del genere anche nei luoghi dove sono scomparsi il
ragazzino e l’altra tizia?»
Sam si accigliò, cercando di ricordare. Non ci aveva fatto
molto caso, ma se non sbagliava ce n’era una nella
casa abbandonata in cui David Kent ed i suoi amici si
erano intrufolati, ed una all’ingresso della chiesa dove era scomparsa Martha Pescaro, la ragazza di venticinque anni.
«Sarà un soggetto molto comune, no?
È solo un angelo» replicò poco convinto.
«Sì, avrai ragione tu» assentì il maggiore, ma sembrava
distratto. Continuava a fissare la statua come se si aspettasse di vederla
muovere da un momento all’altro.
Sam sorrise divertito. «È da un po’ che Cas non si fa vivo,
vero?» osservò, apparentemente senza motivo.
«Già, e quindi? È occupato» si accigliò Dean.
«No, niente» sviò il fratello. «Andiamo a fare colazione?»
aggiunse per distrarlo, ricevendo in cambio uno sguardo entusiasta.
*°*°*°*°*
26 Novembre 1969, Washington D.C., Virginia – America; ore 6,18 P.M.
Una musichetta noiosa ronzava nell’aria, quasi del tutto
soppressa dal borbottio seccato dei clienti. Conton
sospirò esausto, ponderando di estrarre la pistola e farsi
strada con la forza; se c’era una cosa che odiava, era la fila alla cassa del
supermercato.
Venne distratto da una bambina che
correva da una parte all’altra e gli sbatté contro le gambe, crollando a terra
di sedere, in un morbido tonfo. Aveva capelli biondi e ricci, una salopette un
po’ troppo maschile per una femminuccia, sotto una giacca troppo leggera per
quella stagione, e calzava un paio di stivaletti rossi. Non poteva avere più di
sei anni, stimò lui.
«Tutto bene, Dorothy?»
le chiese, lasciando il carrello ed infilandole le
mani sotto le ascelle per tirarla in piedi.
«Come fa a sapere il mio nome, signore?» chiese stupita la
bambina. «Lei è un mago?»
«Ti chiami davvero Dorothy?»
chiese divertito l’agente dell’F.B.I. «Sai, io lo
dicevo per via della bambina di ‘Il Mago
di Oz’, le somigli molto. Quasi mi aspettavo che
dicessi “Ho l’impressione che non siamo
più in Kansas”».
«Ma noi siamo in Kansas. Quindi tu sei il Mago di Oz?»
«No, siamo a D.C., ed io non sono un mago» chiarì Canton,
evitando di spiegarle che quello della celeberrima fiaba era un truffatore.
«Sono uno dei buoni, vedi?» spiegò, tirando fuori il distintivo.
«Con-ton E-ve-ret-t
De-la-wa-re III» lesse la piccola, ancora un po’
sillabante. «Che nome lungo. Allora sei un principe? I
principi hanno nomi lunghissimi e strane cifre alla fine. Ma
non hai l’aspetto di un principe» osservò petulante.
«Grazie, Dorothy, molto gentile da parte tua» ironizzò il Mago-barra-Principe. «Dov’è la tua
mamma?»
La piccola s’intristì immediatamente. «L’ho persa» sospirò
«ero al parco e poi all’improvviso mi sono ritrovata qui» spiegò e le orecchie
di Conton si drizzarono.
«Ah, ma posso chiamarla!» esclamò Dorothy, tirando fuori
dalla tasca della giacchetta uno strano aggeggio.
Lui l’aveva visto solo un’altra volta in vita sua, non molto
tempo prima. Era un videofonino –
qualunque cosa un videofonino fosse, non gli avevano
spiegato molto bene come funzionasse.
«Da dove hai detto che vieni, tesoro?» le domandò,
cominciando ad essere colpito da un sospetto.
«Kansas» sbuffò la bambina, come se avesse a che fare con un
adulto molto ottuso.
«E in che anno siamo?» continuò l’uomo.
«Nel 2011, naturalmente. Si prende
gioco di me perché sono bassa? Non è carino, sa?»
s’indispettì la piccola.
«Credimi, l’altezza è l’ultimo dei tuoi problemi, dolcezza»
asserì.
*°*°*°*°*
29 Aprile 2011, Concordia, Kansas – America; ore 8,33 A.M.
La tavola calda dove Dean e Sam si fermarono per la
colazione era allegra ed affollata. Il profumo dei
pancake si spandeva nell’aria, mentre una vecchia televisione trasmetteva il meteo
locale, preannunciando temporali improvvisi.
I due cacciatori presero un tavolo defilato sulla destra, per poter parlare in santa pace, mentre il maggiore
aspettava la propria ordinazione con l’acquolina in bocca e l’altro sorseggiava
il proprio caffè facendo qualche ricerca sul computer.
Dean guardò distrattamente le prime gocce di pioggia
imperlare la vetrina del locale, poi il suo sguardo venne
attirato da qualcos’altro. «Ehi, guarda là» richiamò il fratello, indicando la
sommità dell’edificio di fronte, su cui erano poste due statue.
«Di nuovo gli angeli piangenti» notò Sam con moderata sorpresa.
«Ecco qui, ragazzi» li interruppe la cameriera, portando le
loro ordinazioni.
«Senta, quelle statue significano
qualcosa di particolare? Ne abbiamo trovate diverse in città»
le domandò allora il più giovane.
«Quali statue?» chiese lei perplessa.
«Come quali? Quelle, no?» esclamò Dean,
riportando lo sguardo sull’edificio dirimpetto alla tavola calda.
Ma le statue erano scomparse.
«Eh?» chiese la ragazza stranita, con lo sguardo sospettoso
di chi teme di avere a che fare con due svitati.
Il maggiore dei Winchester le
rivolse il suo sorriso più affascinante. «Nulla, devo essermi sbagliato»
rispose concedendole una bella mancia per togliersela dai piedi.
La cameriera gli sfiorò la mano nel prenderla, infilandogli
tra le dita un foglietto col suo numero, prima di fluttuare via con passi
ticchettanti, ma lui aveva già perso interesse nei suoi confronti, intento a
rivolgere un’occhiata grave e significativa al fratello.
«Penso sia ora di fare una telefonata» asserì Sammy.
«E una preghiera, già che ci siamo» convenne Dean.
*°*°*°*°*
9 Maggio 1883, Kyoto – Giappone; ore 5,12 P.M.
La musica lenta e malinconica degli shamisen
fluttuava nell’aria, insieme al profumo delle varie misture di tè. Rory si guardò di nuovo attorno, ancora un po’ a disagio,
mentre sua moglie si agitava sulle punte dei piedi, accovacciata in una posa
che sembrava scomodissima.
«Dottore, quando ho detto che mi sarebbe piaciuto vedere il
Giappone di una volta, prima del terremoto…» cominciò Amy in un sibilo che preannunciava tempesta «non intendevo questo!» finì a voce più alta, attirando l’attenzione degli altri
avventori della casa da tè, che le lanciarono occhiate scioccate per i suoi
modi così barbari.
«Potrei aver confuso una cifra o due» ammise il Dottore,
aggiustandosi nervosamente il papillon ed accostandosi
al viso la propria tazza di tè. «Ah, il tè della Lanterna Verde! Non ha paragoni, te lo
assicuro» asserì prendendo un sorso. Lo risputò nella
tazza subito dopo, tirando fuori la lingua disgustato,
poco attento a non attirare di nuovo gli sguardi dei presenti. «Che schifo! Non era così che lo ricordavo»
gemette sommessamente.
«Bocca nuova, regole nuove, eh?» lo sbeffeggiò la compagna
di viaggio, ora decisamente di umore migliore.
«Se può consolarti,» bisbigliò Rory accostandosi al suo orecchio «sei molto sexy con
questo kimono».
«Sono seduta nella posizione più
scomoda dell’universo, quindi: no, non mi consola. Facile per voi maschi che state
seduti a gambe incrociate» s’imbronciò la ragazza.
«Oh, in realtà conosco almeno un
centinaio di posizioni più scomode. Su Nuovo Giappone, nel cinquantesimo
secolo…» cominciò il Dottore, però venne prontamente
tacitato da un’occhiataccia di Amelia. «Ma forse non vi interessa»
borbottò allora, aggiungendo un cucchiaino enorme di miele al proprio tè.
«Comunque, non capisco» intervenne l’infermiere. «Non
dovrebbero essere più diffidenti verso gli occidentali e vederli con cattivo
occhio?» mormorò all’indirizzo del Signore del Tempo.
«Non ora» dissentì, questi. «Siamo nel 1883, l’anno scorso Ito Hirobumi è salito al governo
come Primo Ministro, adottando numerose istituzioni occidentali – e più nello specifico britanniche – come un sistema legale e
parlamentale più moderno, nonché un nuovo esercito» spiegò, parlando così veloce da far girare la testa al
povero Rory.
«D’accordo Wikipedia,
grazie per la lezione di storia» lo fermò Pond, prima
che potesse continuare.
Il Dottore stava per replicare qualcosa, quando venne di nuovo interrotto, stavolta dal cellulare di Amy, che
iniziò a squillare.
«Come fa a prendere la linea, in questo posto?» chiese il
marito perplesso.
«Il Dottore l’ha sistemato tempo fa» spiegò spiccia Amelia.
«E non l’hai mai usato per chiamarmi, mentre viaggiavate da
soli?» replicò oltraggiato.
«Eri al tuo addio al celibato» tentò la moglie, in una
scivolosa arrampicata sugli specchi.
«Ma per te erano passati giorni!» obbiettò «Mesi!»
«Sai che anche tu stai molto bene con quel kimono?» ritentò
Amy.
«Ragazzi… ragazzi, non vorrei interrompervi, ma il cellulare sta ancora
squillando e attirando l’attenzione. Potreste finire di flirtare
più tardi?» li richiamò il Signore del Tempo, spazientito.
Quindi Amelia si decise ad aprire
la chiamata e portarsi il telefonino all’orecchio. «Pronto?
Ehilà, Conton! Come va, in quei tempi?» domandò allegra, non appena riconosciuto l’interlocutore.
«Salve, Mrs. Pond.
Abbastanza bene, ho appena preso casa con il mio
ragazzo. Il Dottore è lì con voi?» le arrivò la voce
dell’amico, attraverso lo spazio-tempo.
«Sicuro. Te lo
passo» replicò lei. «E congratulazioni per il trasloco!» aggiunse, prima di
offrire il cellulare all’alieno.
«Conton.
Everett. Delawar. III!»
esclamò il Dottore, prendendo la chiamata. «Adoro questo
nome, te l’ho mai detto? Come stai, vecchio mio?»
L’agente dell’F.B.I. si chiese
distrattamente cosa avessero tutti con il suo nome, prima di rispondere: «Ho
qualcosa per te, Dottore» e fornire all’amico una serie di coordinate.
«Vieni con noi?» domandò il Signore del Tempo.
«C’è bisogno di chiedere?» replicò e udì in sottofondo uno scalpicciò
di piedi, poi un rumore distintivo e familiare cominciò a materializzarsi
dell’aria accanto a lui, spedendogli un brivido d’eccitazione su per la
schiena.
«Certo che no!» concluse il Dottore,
il cellulare ancora attaccato all’orecchio, spalancando le porte del TARDIS di
fronte a Conton e ad una estasiata Dorothy.
*°*°*°*°*
29 Aprile 2011, Concordia, Kansas – America; ore 9,13 A.M.
Una brezza fresca arruffava l’erba del parco, ormai quasi
deserto dopo l’ingresso dei bambini a scuola. Aveva smesso di piovere e solo un
paio di anziani restavano ad occupare le panchine in
fondo, asciugando le ossa al sole primaverile.
Dean parcheggiò e scese dall’Impala, dirigendo subito i
propri passi verso il punto in cui aveva scorto la scultura.
Sparita, naturalmente.
«Che diavolo sta succedendo?!»
esclamò, seguito senza fatica dai passi lunghi del fratello. «Da quando delle
statue vanno a spasso da sole?»
«Possessione spiritica, forse?» azzardò Sam «Come quei
manichini, ricordi?» tirò fuori l’aggeggio per misurare il campo
elettromagnetico, ma non c’era alcuna traccia di attività sopranaturale in quel
punto. Proprio come nella chiesa, dove erano passati strada facendo; anche lì l’angelo
piangente era scomparso.
«No, sarebbero troppo pesanti per
degli spiriti, non credi? Un conto sono dei manichini
di plastica o una bambola gonfiabile. Perfino una macchina non è difficile da
muovere, avendo dei circuiti elettrici. Ma la pietra?» osservò il maggiore scettico.
«Hai trovato qualcosa su internet?»
«Niente. Nemmeno Bobby mi ha saputo
dire nulla di concreto. La cosa che si avvicina di più a questa follia sono le
leggende sui gargoyle»
rispose l’altro storcendo le labbra.
«Gargoyle? Come in ‘Il Gobbo di Notre Dame’?» ironizzò Dean ed il fratello scrollò le spalle, perplesso
quando lui.
«E va bene, ne ho abbastanza, ci servono un paio d’ali di un
altro tipo» concluse il maggiore, prima di prendere un respiro profondo e
chiudere gli occhi. «Castiel… abbiamo a che fare con
qualcosa di davvero bizzarro, potresti portare le tue pallide chiappe piumate
qui, per favore?» pregò a voce alta, prima di socchiudere una sola palpebra e
sbirciare attorno. Ma niente, non c’era traccia del loro angelo.
«Sarà occupato…» ragionò Sam. Fece per aggiungere qualcosa,
ma all’improvviso uno strano rumore ritmico ed
ansimante cominciò a gonfiare l’aria accanto a loro, proprio dove poche ore
prima si trovava l’angelo piangente, e uno strano vento si sollevò lì attorno,
costringendoli ad alzare le braccia per proteggersi gli occhi dalla terra
smossa.
«Ma che diavolo… ?» iniziò il maggiore dei
Winchester quando qualcosa di blu cominciò a materializzarsi in quel punto.
Una cabina blu. Un
enorme – be’, non tanto enorme,
ma era apparsa dal nulla, diamine! – cabina blu della polizia.
«Molte
bene!» esclamò una voce, quando le porte della cabina si
spalancarono per lasciar spuntare una faccia giovane e appuntita da elfo. «Oh,
abbiamo spettatori… Salve» li salutò quel ragazzo dall’aria decisamente
troppo svampita, uscendo da lì seguito immediatamente da una riccioluta bimba
bionda. «Avanti Dorothy, sbatti tre volte i tacchi e dì: “Non c’è posto migliore di casa”» istruì la bambina, mostrandole cosa fare.
Uno scappellotto lo raggiunse subito alla nuca. «Ma che problema hai tu con le favole? Non usciamo tutti da
storie per bambini, sai?» lo apostrofò una ragazza dai lunghi capelli rossi,
vestita in kimono. Perché diavolo indossava un kimono,
poi?
«Le favole non sono affatto storie
per bambini, Amy» obiettò lui.
«Ha ragione, sai?» intervenne un
secondo ragazzo, anche lui in kimono e con la faccia – se possibile – ancora
più appuntita ed idiota. E un naso enorme, davvero
enorme. «Le fiabe vengono
dalle più spaventose storie popolari. Credimi, io c’ero mentre si formavano» continuò imperterrito, senza badare alla presenza dei due
cacciatori che li fissavano allibiti.
«Ragazzi, abbiamo compagnia, ve ne siete
accorti?» osservò finalmente un’ultima voce, fin troppo familiare per loro, tanto
che i due Winchester sentirono un brivido inerpicarsi su per la schiena.
«TU!» ruggì Dean, estraendo la pistola e puntandogliela in
fronte prima ancora di ragione. Quello che non si aspettava era di trovarsene
un’altra immediatamente puntata al costato.
«Io non lo farei fossi in te, dolcezza» osservò l’uomo,
premendogli più forte la canna tra le costole. «Minacciare un agente federale è
illegale».
Agente federale?, si chiese il
cacciatore perplesso. E da quando Crowley portava una
pistola? «Tu eri morto» asserì guardingo.
«Non mi risulta» rispose l’altro serafico. «Be’, forse in
questo tempo sì…» considerò poi.
«No, no. Sei vivo»
lo rassicurò la rossa.
«Amy!» la rimproverò il tizio con il papillon. Un papillon, sul serio?
«Ops… spoiler, vero?» ridacchiò lei.
All’improvviso, però, una mano familiare si posò sulla spalla
del cacciatore, trattenendolo. «Non è lui, Dean» gli sussurrò all’orecchio una
voce rassicurante apparsa dal nulla – l’ennesima.
Ma almeno stavolta era una voce amica.
«Ce ne hai messo di tempo, Cas! E come
sarebbe a dire non è lui?» replicò l’interpellato, senza perdere d’occhio l’uomo che
teneva sotto mira.
«È umano, Dean» confermò il suo angelo, sorvolando sul
rimprovero.
«Da dove diamine è arrivato?» esclamò qualcuno, forse il
tipo col nasone.
«Avrà un manipolatore vortex» osservò l’altro ragazzo. Dean non si soffermò nemmeno a chiedersi
di che diavolo parlasse.
«Certo che sono umano. Ho la faccia da alieno, forse?» replicò il sosia di Crowley.
«Posso anche dimostrarvelo» asserì rinfoderando con attenzione la pistola, facendo
prima mostra di aver reinserito la sicura, ed estraendo il distintivo dalla
tasca interna della giacca.
«Agente Canton Everett
Delawar III» lesse «Che razza di nome è?» era
quasi più assurdo di quelli che usavano loro. «Un
momento… qui c’è scritto che sei nato nel 1922! Mi prendi per il culo?!»
«Più tardi, magari» ironizzò Conton.
«Si chiamano viaggi nel tempo,
figliolo» lo canzonò ancora.
«Dunque cosa sarebbe, esattamente?
Il povero bastardo che Crowley ha posseduto?» domandò Dean all’indirizzo di Castiel.
«Non credo. Un antenato, forse» intervenne suo fratello. «Hai figli?» chiese al diretto
interessato.
«No, e dubito che ne avrò mai» lì rassicurò Conton con un sorriso – fin troppo familiare, Cristo! – che
la diceva lunga.
Intanto il tizio con il papillon si mise in punta di piedi
per cercare di guardare negli occhi Sam, poi gli girò attorno, come se lo stesse studiando, e gli puntò addosso una strana
bacchetta metallica con la punta luminosa, che emise un basso ronzio.
«Interessante, molto interessante» borbottò tra sé, sotto lo
sguardo stranito del minore dei Winchester, che si
sentì una specie di fenomeno da baraccone –
e non era lui quello uscito da una cabina blu, insomma!
«Che cosa, Dottore?» l’interrogò
l’amica.
«Questi due» spiegò lui, indicando i due cacciatori con la
sua bacchetta ronzante «Hanno qualcosa che non va. Lo
spazio si annoda attorno a loro, sono punti fissi nel tempo, e non ho mai visto
persone che sono punti fissi. Gli eventi sono punti fissi, i luoghi sono punti
fissi, non le persone. Se li
spostassimo, la realtà crollerebbe» asserì parlando
così veloce che occorse loro quasi un minuto intero per comprendere cosa
accidenti avesse detto.
«Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando» replicò
Sam.
«Avete sventato qualche catastrofe o salvato qualche vita?»
chiese spiccio il Dottore.
Dean sbuffò un accenno di risata, abbassando la pistola,
anche se non la rimise nella fondina. «Solo qualche?»
ironizzò.
«Chi siete voi?» chiese allora il tizio con il papillon.
«Dovremo essere noi a fare questa domanda» replicò
accigliato il maggiore dei Winchester, ma il fratello
richiamò la sua attenzione.
«Dean, è la bambina che era scomparsa» gli fece notare,
indicando la piccola che dal basso si godeva la scena come se stesse guardando
uno show televisivo.
«Siete stati voi a prenderla?» domandò allora l’altro
cacciatore, ma a dire il vero suonava più come un’accusa, facendo per sollevare
di nuovo l’arma.
«No, l’abbiamo solo riportata indietro, idiota!» rispose la
rossa «Non avreste dovuto nemmeno accorgervi che era
scomparsa, dovevamo riportarla indietro a pochi secondi da quando era sparita»
chiarì, voltandosi poi verso l’amico con sguardo accusatore. «Sei arrivato di
nuovo in ritardo, non è vero?»
«Ops…» bisbigliò l’interpellato, guardando a destra e a
sinistra con l’aria di un topo in trappola, prima di infilare di nuovo in tasca
la sua bacchetta. «Bene, passiamo al motivo per cui
Dorothy è stata spedita nel 1969, okay? Avete per caso visto in giro degli angeli
piangenti?» domandò ai due cacciatori, che subito si scambiarono
uno sguardo sorpreso.
«Tu che ne sai?» chiese allora Sam, ma la sua voce venne surclassata da un’altra.
«Gli angeli non piangono» affermò Castiel orgogliosamente,
rimasto per tutto il tempo zitto ed immobile accanto a
Dean, tanto che gli altri si erano quasi dimenticati di lui.
«No, hai ragione, non lo fanno» confermò il Dottore
raggiungendolo in due lunghe falcate. «Non per davvero… Non ho mai visto occhi
tanto antichi» mormorò, fissando quelle iridi di un blu impossibile. Solo i
suoi, quando si guardava allo specchio. «Chi sei?»
«Sono un angelo del Signore» dichiarò lui con fierezza.
«Un angelo?»
chiese l’altro, pungolandolo con la sua bacchetta, tirata di nuovo fuori con
rapidità magistrale. «Impossibile, in novecentootto anni di vita non ho mai
visto un vero angelo, solo cose che
lo sembrano».
«Ci sono cose più antiche di te, Theta» replicò Castiel, in un
sussurro udibile solo a lui, che lo fece irrigidire da capo a piedi.
Il Dottore lo guardò con aria seria e grave, quasi
impaurito, poi sollevò le mani per avvicinarle alle sue tempie. «Permetti?»
domandò, sfiorando quei punti e, quando l’altro acconsentì con un cenno del
capo, chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, pochi attimi dopo, fece due passi indietro
con aria terrorizzata, andando a sbattere contro Conton.
«Tutto bene?» gli domandò questi, e allora lui si stirò i lembi
della giacca e si aggiustò il papillon, cercando di riprendere un minimo di
contegno.
«Cosa si fa in questi casi?» domandò a Castiel. «Ci si inginocchia e si chiede perdono per i propri peccati?»
«Dio manca da Settimo
Cielo da un bel po’ di tempo, amico» intervenne allora Dean. «Lui è solo
Cas» continuò, ricevendo un’occhiata non troppo felice del suo angelo per quel
“solo Cas”. «E noi siamo Dean e Sam
Winchester» fece le presentazioni. «Sembra che stiamo indagando sulla stessa
cosa».
«Bene!» esclamò l’interpellato. «Io sono il Dottore, loro
sono i Pond: Amy e Rory, e
lui è Canton» ricambiò la cortesia.
«Ma chi siete voi?» chiese quindi Sam. «Siete
usciti da una cabina blu, in cinque.
E tu hai detto di avere novecentootto
anni» sottolineò.
«Viaggiatori del tempo» spiegò il Dottore. «Amelia e Rory sono vostri
contemporanei. Conton viene dal 1969 – l’anno dello
sbarco sulla luna! – ed è stato lui a trovare Dorothy, ma non viaggia con noi
molto spesso».
«E tu?» domandò ancora Sam.
«Io sono l’ultimo di una razza chiamata Signori del Tempo, proveniente
dal pianeta Gallifrey» rivelò con voce grave ed una certa teatralità.
«Sì, sì. Ora smettila di vantarti» intervenne Amy, dandogli una leggera spallata. «Piuttosto,
hai parlato di angeli piangenti, Dottore».
«Gli angeli non…» cominciò Castiel.
«Non quel tipo di angeli, amico» lo interruppe Dean.
«Non sarebbe il caso di andare a prendere River?» continuò Mrs. Pond.
«No, no. Decisamente
no» l’ammonì l’amico.
«Hai paura di qualcosa?» insinuò lei.
«No, Amy. Okay, magari un po’, sì»
ammise «Ma il problema è che il nostro passato è il suo futuro, quindi se la
portassimo con noi e le rivelassimo ciò che già sappiamo sugli angeli…» spiegò.
«Spoiler!» cantilenò la ragazza come faceva sempre la Professoressa Song.
«Esatto» confermò il Dottore.
«Quindi, cosa sapete sugli angeli
piangenti? Che diavolo sono quelle statue?» li
richiamò Dean.
«Non sono statue. Solo un secondo…» replicò il Dottore, prendendo la chiave del TARDIS da una
tasca e chiudendolo con il tipico beap-beap della chiusura centralizzata di una macchina,
prima di farlo scomparire. «Sfasato di un secondo nel futuro, o quei cattivoni degli angeli cercheranno ancora di rubarmelo»
spiegò.
«Ma cosa sono gli angeli piangenti?» chiese per l’ennesima volta Sam,
prima che suo fratello potesse saltare al collo di quel tizio e soffocarlo con
il suo stesso papillon. «Hai detto che non sono statue».
«Infatti, non lo sono. Gli angeli
piangenti sono con ogni probabilità le creature più pericolose ed antiche dell’universo; esistono da sempre. E questo
perché hanno la difesa migliore. Sono quantisticamente
bloccate: possono muoversi molto velocemente se inosservate, ma si pietrificano
se vengono viste. Non dipende da loro, è la loro
biologia, quando vengono viste da una qualunque
creatura vivente diventano letteralmente
di sasso» spiegò «E non si può uccidere la pietra. La difesa suprema,
impenetrabile. Non si coprono gli occhi perché piangono, ma perché non possono
guardarsi nemmeno tra loro. Creature davvero tristi gli angeli piangenti».
«Ma cosa vogliono?» chiese allora Conton.
«Quello che vogliamo tutti:
sopravvivere. Si cibano di energia, più precisamente del tempo sottratto alle
persone che spediscono altrove. Più una persona è giovane,»
spiegò osservando Dorothy «più tempo le portano via. Ecco perché ho dovuto
nascondere la mia nave, è piena di energia e, se la ottenessero, sarebbe una
catastrofe».
«Aspetta un attimo… quella è una nave? Una nave spaziale?!» esclamò Dean.
«Certo!» confermò il Dottore, quasi oltraggiato che avessero
potuto pensare il contrario.
«Ehm… scusate,» li interruppe una
vocina e Dorothy tirò una manica di Sam per attirare la sua attenzione «posso
tornare a casa, adesso?»
«Oh, giusto. Dovremmo inventarci
una storia, non possiamo certo lasciarti dire che hai viaggiato nel tempo» osservò, studiando la piccina.
«Perché no?» domandò lei.
«Perché penserebbero che non hai
tutte le rotelle apposto, Riccioli d’Oro.
Lo so per esperienza» intervenne Amy, chinandosi di fronte a lei ed accarezzandole i capelli chiari.
«Allora dirò che non ricordo nulla.
Racconterò che l’Agente Conton mi ha trovata al supermercato e mi ha riportata a casa» decise
saggiamente la piccola, mostrando una spiccata intelligenza.
«Ottima idea, Dorothy. E questo
resterà il nostro piccolo segreto, eh?» propose Mrs. Pond facendole l’occhiolino ed offrendole il mignolo per
giurare.
«Possiamo accompagnarti Dean ed io.
Siamo già stati a casa dei tuoi genitori» sorrise Sam.
«In qualità di cosa?» chiese Conton con un sogghigno.
«Ehm… agenti dell’FBI» rispose il
cacciatore.
«O gli standard sono molto cambiati, o voi non siete affatto miei colleghi» asserì questi, inarcando un
sopracciglio. «Gridate truffa da
tutti i pori».
«Senti chi parla, M.I.B.» sbuffò Dean, ricevendo in cambio uno sguardo perplesso.
«Bene, allora voi accompagnerete Dorothy e noi inizieremo a
cercare gli angeli» stabilì il Dottore. «A proposito, avete idea di quanti
siano?» li interrogò poi.
«Calma, cowboy. Noi non lavoriamo
con gli estranei. A Hugo, Victor e Laverne ci
pensiamo noi» obbiettò il maggiore dei Winchester.
«Gli angeli piangenti non si
possono affrontare a colpi di pistola. Nessun’arma può scalfirli» asserì il
Signore del Tempo con voce ferma e dura, invadendo il suo spazio personale in
un modo che gli era spiacevolmente familiare, finché non poté puntare nei suoi quegli
occhi chiarissimi ed antichi, incastonati in un volto
troppo giovane. «Non puoi guardarli negli occhi e non
puoi battere ciglio. Se lo fai, sei morto. Non puoi voltargli le spalle. Non
puoi distogliere lo sguardo. E non puoi mai – mai, per nessun motivo – sbattere le palpebre»
spiegò, scandendo bene le parole. «Pensi di poterli affrontare da solo, Dean Winchester?»
Il cacciatore deglutì a fatica, trovando quasi assurdo
venire trattato come un moccioso da un tizio con quella faccia da ragazzino. «Ma noi abbiamo un’arma segreta» ghignò, poi.
«Arma segreta? Quale arma
segreta?» chiese il Dottore scettico.
«Qualcuno che non ha bisogno di sbattere le palpebre» spiegò
Dean, voltandosi all’indirizzo di Castiel. «Angeli piangenti
Vs. angelo del Signore. Secondo te chi l’avrà vinta?»
«Oh, brillante!» esclamò l’alieno entusiasta. «Bene, allora, che stiamo aspettando? Andiamo!» sorrise,
facendo riapparire il TARDIS ed aprendo le porte con
uno schiocco di dita.
«Col cavolo! Non lascio qui la mia
bambina!» sbottò il maggiore dei Winchester.
«Quale bambina?»
replicò perplesso il Signore del Tempo.
«La mia macchina» chiarì Dean indicando l’Impala.
«Oh, ma è bellissima!»
gli occhi del Dottore s’illuminarono e corse incontro all’automobile. «Una Chevrolet Impala! Del… vediamo un po’…» controllò leccandosi un indice e passandolo sulla
carrozzeria.
«Ehi!» gridò il ragazzo oltraggiato.
«…1967? Alla fine degli anni ’50
erano molto di moda. “Un’automobile di
prestigio alla portata del cittadino medio americano”»
l’altro recitò il motto commerciale come se niente fosse. «Ti
inviterei a portarla dentro, ma poi la mia bambina potrebbe offendersi» si scusò.
«Portarla dentro? In quella cabina?» ribatté Dean scettico.
«Ehi, non usare quel tono. Lei è molto sensibile»
lo rimproverò il Dottore.
«E va bene, va bene. Lascia solo
che parcheggi meglio la macchina. Ma tu…» asserì, puntandogli un indice contro
«… leccala di nuovo e io ti infilo il papillon su per
il tuo culo alieno, chiaro?»
Sam alzò gli occhi al cielo e Amy borbottò qualcosa che
somigliava sospettosamente a: «Uomini e macchine.
Attraverso il tempo e lo spazio non cambiano mai».
«Avranno qualcosa da compensare» le bisbigliò Conton a bassa voce.
«Probabile» convenne Rory.
«Tecnicamente non
l’ho leccata» obbiettò il Signore del Tempo, ma decise che fosse più saggio lasciar perdere, quando il cacciatore si accigliò e gli
rivolse un’occhiata decisamente cupa. «Ti verranno le rughe, sai?» aggiunse
allora, indicandosi la fronte, in corrispondenza del punto in cui quella
dell’altro si aggrottava, e Dean ringhiò. «Molto
bene, andiamo?» concluse, fuggendo con discrezione dentro il TARDIS.
Gli altri lo seguirono dappresso e i
Winchester si fermarono non appena misero un piede all’interno.
«Uoh! Mi
prendi per il culo?» ansò Dean a bocca aperta e Sam
boccheggiò.
«È… è…» smozzicò.
«Sì, è più grande
all’interno che all’esterno» li anticipò il Dottore. «Rory, chiudi la porta. Ci pensi tu, a loro?»
«Perché sempre io?» replicò questi oltraggiato.
«Sei l’ultimo arrivato» gli ricordò Amy.
«Veramente è Canton» precisò il marito.
«In realtà, è Dorothy» concluse quest’ultimo.
Castiel era l’unico tranquillo, si guardava attorno con aria
curiosa ed inespressiva; al Signore del Tempo non
piacque molto.
«Avete finito?» sbuffò. «Dorothy, il pulsantone
blu» le indico poi. «Reggetevi!» ordinò infine, e la nave si mise in moto,
sballottandoli qua e là.
Indifferenti – e ormai abituati – Amy e Rory
si diressero verso l’enorme guardaroba per cambiarsi, mentre gli altri si aggrappavano
alla prima cosa a portata di mano e il Dottore e la bambina saltellavano
attorno ai comandi.
Atterrarono dopo pochi minuti e Dean si precipitò
letteralmente fuori, abbastanza verde in faccia.
«Qualcosa non va?» chiese Canton, mentre Sam batteva
gentilmente una mano sulla spalla del fratello e Castiel
si chinava per vedere meglio il volto del ragazzo, piegato in due per la
nausea.
«Soffre il mal d’aereo» spiegò il minore dei
Winchester.
«Non è vero!» obbiettò l’altro, ma il tono gli uscì
semi-soffocato.
«Ha paura» spiegò allora in labiale il più piccolo,
all’indirizzo dell’angente federale, mentre il loro angelo sfiorava la fronte
di Dean per aiutarlo a riprendersi.
«Ci siamo davvero spostati» notò infine Sam. Si trovavano
davanti a casa dei White, i genitori di della bambina scomparsa.
Dorothy si slanciò verso la porta, picchiandovi i pugni
contro con impazienza, e lui la seguì, suonando il campanello. Sorrise quando Mrs. White aprì la porta e strinse la piccola tra le
braccia, ringraziandolo tra le lacrime di sollievo.
Era bello riuscire a sistemare qualcosa per il verso giusto,
una volta ogni tanto.
*°*°*°*°*
29 Aprile 2011, Concordia, Kansas – America; ore 10,22 A.M.
La casa era un vecchia villa
fatiscente risalente al diciannovesimo secolo, originariamente proprietà di
ricchi possidenti, era stata trasformata in albergo negli anni ’20 del nuovo
secolo, quando i padroni avevano perso tutto, ed era infine stata chiusa a
seguito di un’epidemia di febbre gialla.
I ragazzini s’intrufolavano spesso all’interno per delle
prove di coraggio, visto che la si credeva infestata;
si raccontava che vi fossero sparite delle persone all’interno, senza lasciare
traccia. In realtà la voce era stata sparsa dopo gli anni ’40 per tenere
lontano i curiosi, dato che l’edificio era già allora
pericolante, ma Sam aveva visto un angelo piangente vicino all’ingresso.
Ora la statua non era più in quel punto, però qualcosa diceva loro che quelle creature avevano fatto della casa la
loro base segreta.
«Quanti dovrebbero essere?» gli domandò Rory.
«Ne abbiamo visti tre finora, in diversi punti della città,
anche se all’inizio qui ce n’era solo uno» rispose lui.
Dean, invece, era concentrato su un altro tipo di angelo,
che scrutava senza espressione le finestre impolverate della villa. «Stai
bene?» gli chiese.
Castiel si voltò a guardarlo, inclinando il capo nella sua
innocente posa usuale. «Sì. Perché?»
rispose perplesso.
«Non abbiamo avuto modo di parlare, l’ultima volta» osservò
il ragazzo. Ricordava ancora quella bizzarra imitazione che lui e Sam avevano
incontrato nella dimensione parallela in cui li aveva spediti Balthazar e poi
la fuggevole comparsa del loro amico, quando Raphael aveva tentato di
attaccarli. «Come vanno le cose lassù, fra le nuvole?» aggiunse allora.
L’angelo chinò il capo. «È complicato» rispose
semplicemente.
Dean si chiese se Cas avesse davvero il tempo si stare lì
con loro, se non lo stessero trattenendo con questioni troppo futili. «Ehi,
siamo qui se ti serve aiuto per spiumare qualche culo,
lo sai, vero?» si limitò a dire e Castiel gli rivolse un pallido accenno di
sorriso, ma non replicò. Il cacciatore avrebbe voluto essere in grado di fare
qualcosa di più.
«D’accordo, andiamo!» li incitò il Dottore, sfregandosi le
mani. «Ricordate: se li incontrate, non guardateli
dritto negli occhi, ma non perdeteli di vista. Guardateli ovunque, ma non negli
occhi».
«Cosa succede se lo facciamo?» lo
interrogò Conton.
«Ti entrano nella testa» spiegò Amelia «E non è piacevole,
credimi» concluse rabbrividendo.
«Hai un piano?» chiese Rory al
Signore del Tempo, accigliandosi al suo silenzio. «Tu hai un piano, vero?»
«Certo. Entriamo e troviamo gli
angeli piangenti» rispose l’interpellato.
«E poi?» rintuzzò Mr. Pond.
«A quello non ci ho ancora pensato» ammise l’alieno
sfuggendo il suo sguardo.
«Splendido» concluse l’altro.
«Adoro questo piano» ghignò Dean, abituato a gettarsi nelle
situazioni senza ragionare troppo. «Andiamo a fare il culo
a quei sassi ambulanti!»
La villa aveva una planimetria molto vasta, costruita su tre
livelli: pianterreno, primo piano e mansarda. I
Winchester l’avevano visitata la sera prima, per cercare tracce del ragazzino
scomparso – o di qualunque cosa l’avesse preso – ed avevano già appurato
quant’era grande. Quindi, con una certa esitazione,
decisero di dividersi per esplorarla più in fretta.
«Rory, Amy, voi con me» decise
subito il Dottore, segretamente preoccupato per l’amica. Quella faccenda della
gravidanza non gli era ancora chiara, inoltre per Pond affrontare gli angeli era stato un incubo e non aveva
nessuna intenzione di lasciarla di nuovo sola, anche se ora c’era l’ultimo centurione con lei. «Voi due»
chiamò poi i due cacciatori «fate molta attenzione.
Siete punti fissi nel tempo e sbattervi da un’altra parte sarebbe l’equivalente
di un vero e proprio banchetto, per gli angeli piangenti»
li avvisò.
«Io vado al piano superiore» dichiarò Dean incurante, osservando
la scalinata in marmo che un tempo doveva essere stata
magnificente.
«Vengo con te» si offrì Conton.
«No, vado io» lo contraddì Sam, deciso a non dividersi dal fratello, ma
questi dissentì subito.
«No, Sammy, è meglio non stare assieme.
Sarebbe come portare un’insegna al neon che recita “Mangiami”. Tu vai con Cas» ordinò, poi si rivolse all’amico. «Non perderlo di vista»
lo pregò, ricevendo un rassicurante cenno del capo.
Sta attento,
sembravano tuttavia supplicarlo quegli occhi blu.
«Ehi, sono un osso duro, moccioso» asserì Dean sorridendo.
«E se anche dovessi fare un viaggetto altrove, tu mi
sentiresti comunque, no?»
«Verrei a prenderti anche all’inizio dei tempi» asserì il
suo angelo.
«Allora a noi resta la mansarda» concluse
Sam, interrompendo il loro intenso scambio di sguardi. Forse fu una sua impressione,
ma gli parve che Conton stesse scuotendo il capo con
aria di compatimento e, quando gli rivolse un’occhiata perplessa, l’agente
federale sogghignò, scuotendo una mano come per scacciare una mosca, prima di
seguire Dean su per le scale.
Castiel e Sam fecero lo stesso, continuando a salire quando
loro si fermarono al primo piano. Il maggiore dei
Winchester non smise d’osservare il fratello ed il loro angelo finché non sparirono
dalla vista, ricevendo una nuova intesa occhiata dall’amico ed un sorriso
rassicurante dell’altro cacciatore.
«Destra o sinistra?» lo riscosse l’agente federale e lui
scrollò le spalle, indifferente.
Entrarono nella prima porta in fondo al corridoio,
esplorando le camere una per una. Trovarono tracce di attività recente, lattine
di birra e sigarette lasciate dai ragazzini e graffiti sui muri, oltre a reti
sgangherate e divani sfondati. Su tutto regnava un pesante strato di polvere e
le finestre erano così luride che la luce del sole vi passava a malapena
attraverso, gettando sull’ambiente una penombra costante.
Ad un certo punto, lo sguardo di
Dean venne attirato da alcune vecchie litografie appese alle pareti. «Ehi,
guarda qua» richiamò l’altro uomo. «È David Kent, il
ragazzino scomparso in questa casa due giorni fa!» esclamò allibito.
«Sei sicuro?» domandò Conton
sorpreso.
Il cacciatore annuì. La foto, essendo antica e macchiata
d’umidità, non era molto chiara, ma ritraeva un ragazzino dai capelli scuri
vestito da stalliere, accanto a quella che doveva essere la figlia dei
proprietari della villa ed i suoi fratelli maggiori.
«Quel tuo amico, il Dottore – il
Dottore chi, poi? – può viaggiare nel
tempo, giusto? Voglio dire, quel trabiccolo su cui siamo saliti va avanti e indietro,
vero? Allora potrebbe andare a riprenderlo» osservò.
«Non credo sia il caso» replicò l’agente federale,
indicandogli una cornice poco più distante, in cui David, un po’ più vecchio,
era vestito in abito da cerimonia e portava al braccio
la ragazza della foto precedente, vestita di bianco. «Si è rifatto una vita,
nel passato».
Dean pensò ai Kent,
i genitori del ragazzino, con cui aveva parlato la sera prima, distrutti e
pallidi come fantasmi. Non avrebbero mai più visto il figlio e non avrebbero
mai saputo quanto era stato felice. «Muoviamoci» incitò l’altro, stringendo la
mascella, deciso più che mai a far fuori quelle fottute statue.
Conton lo seguì in silenzio
nell’esplorazione dell’ennesima stanza e notò lo sguardo che il cacciatore
lanciò verso la tromba delle scale, quando la superarono per dirigersi
dall’altra parte del corridoio.
«Il tuo ragazzo è davvero carino» osservò allora.
Ma l’altro gli rivolse
un’occhiata stranita. E anche piuttosto scioccata.
«Chi?!» esclamò allibito.
«Occhioni Blu. Non è il tuo ragazzo?» specifico
l’agente federale, come se fosse ovvio. Poi si dipinse in viso un espressione costernata. «Mi era sembrato... ma mi sarò
sbagliato» concluse, proseguendo con indifferenza, come se non avesse insinuato
alcun che.
«È un amico»
chiarì Dean «Solo un amico» specificò accigliato.
«Okay» rispose serafico l’uomo, con sommo
disinteresse. Il cacciatore rimase zitto, ma lo fissò di traverso, diffidente, quindi
– dopo qualche secondo – l’altro gli rivolse un sorrisetto e continuò: «È tutto okay, Mr. Winchester. Noi... come si dice, di
questi tempi? Giochiamo nella stessa squadra».
«Sì, l’avevo capito» replicò l’interpellato. «Ma no, amico, non giochiamo
nella stessa squadra» spiegò, rifilandogli un’altra occhiata di traverso.
«Okay» ripeté quello, con la medesima aria incurante.
Dean si agitò innervosito. Non aveva nulla contro gli
omosessuali – gli piaceva pensare di essere una persona di mentalità aperta,
specie verso le lesbiche, erano così sexy! – o più nello specifico contro quel
tizio, anche se era il sosia di Crowley. L’aveva tenuto
d’occhio e gli sembrava un tipo pacato, che sapeva il
fatto suo; uno a posto, insomma. E non si sentiva a disagio in sua presenza,
che era molto più di quanto potesse dire della maggior parte degli sconosciuti.
Ma questo non cambiava il fatto che l’Agente C avesse preso un grosso granchio.
«Non che ci sia nulla di male» si sentì quindi in
dovere di specificare «ma, non nuoto su quella sponda del fiume, tutto qui». Lui
era etero e felice di esserlo, grazie tante.
«D’accordo» rispose l’uomo, aprendo un’altra porta,
senza nemmeno badare troppo a lui.
«Mi stai facendo fesso e
contento?» chiese il cacciatore, dopo una breve pausa, sentendosi preso in
giro.
«Non mi permetterei mai» rispose educato Conton e, se possibile, lui si sentì ancor più preso per il
culo.
«Non sarà che sei interessato
a Cas?» domandò sgranando gli occhi verdi, colpito da un’illuminazione
improvvisa.
L’agente si voltò a guardarlo con un sopracciglio inarcato.
«Il tuo cervellino etero funziona in modo interessante, Mr. Winchester»
ironizzò. Poi, vedendo che il ragazzo non era soddisfatto, aggiunse: «Sono
felicemente fidanzato» e si accorse benissimo del piccolo sospiro
di sollievo che l’altro rilasciò. Sorrise non visto.
«Buon per te, amico» concluse Dean.
Trascorsero forse un’altra manciata di secondi, poi perplesso domandò: «Ma
sembro gay?»
Conton quasi rise, ma si trattenne
egregiamente. «Non vuoi sapere la risposta» replicò. Poi ponderò: «Pensavo che
in questo secolo le persone fossero di vedute più ampie» senza lasciar
trapelare troppo la delusione.
«Lo sono. La maggior parte, almeno.
I matrimoni gay sono permessi in quasi tutti gli
stati, così come le adozioni» rivelò il maggiore dei Winchester. «Ma, sai, o lo sei o non lo sei».
«Non è esatto, Mr. Winchester. C’è
una larga fascia di persone definite bisessuali,
sa?» rispose ironico. «E,
comunque, Occhioni Blu è un angelo, no? Questo non implica che sia asessuato?»
«Sta occupando il corpo di un uomo» gli ricordò il ragazzo.
«La gente ha questa insana convinzione che l’amore abbia una
forma» storse la bocca Conton, chiudendo l’argomento,
e Dean abbassò lo sguardo, confuso.
*°*°*°*°*
La mansarda era buia e claustrofobica, così piena di polvere
che questa s’innalzava in pulviscoli nell’aria. Sam fu costretto a premersi un
braccio sulla bocca ed il naso per non starnutire.
Accese una pila e quasi gli venne un colpo quando, come prima cosa, il fascio
cadde su un manichino da sartoria.
Castiel, imperturbabile al suo fianco, lasciò scivolare lo sguardo
sugli oggetti più vicini. Nonostante la soffitta coprisse tutta la planimetria
della villa, era incredibilmente ingombra. Sembrava che ogni oggetto diventato
inutile a cavallo dei due secoli, mentre la casa era ancora attiva, fosse stato
stivato lì, senza alcuna distinzione.
«Inizio a pensare che gli altri abbiano preso la parte
facile» ponderò il cacciatore.
Nel mentre, l’angelo individuò una finestra
sul soffitto spiovente e fece qualche passo avanti per aprirla, aiutandolo così
a respirare e vedere meglio.
«Grazie» sorrise il ragazzo, poi si accigliò
«Questo posto è enorme, potrebbero essere ovunque».
«Resta vicino a me» gli raccomandò l’amico e Sammy quasi
sorrise di nuovo, stavolta divertito.
«So che Dean ti ha chiesto di tenermi d’occhio, ma era figurativo sai. Non sono un bambino»
gli spiegò.
Castiel aggrottò la fronte. «L’avevo
capito. Ciò non toglie che questa situazione sia più pericolosa per te, che per
me» asserì.
«Touché» sospirò
il minore dei Winchester, iniziando ad aggirarsi con
lui per l’ambiente enorme, senza spegnere la pila, visto che comunque non c’era
molta luce. L’angelo trovò e spalancò ogni finestra, ma non si rivelarono poi
così tante e non fecero una sostanziale differenza.
Inoltrandosi fra quella selva di oggetti dimenticati, Sam
riconobbe due macchine da scrivere, un paio di mobiletti
da toilette, una sedia a dondolo di vimini mangiata dalle tarme, quattro o cinque paralumi di seta tarlata, e
perfino due specchi con cornice dorata che sembravano usciti direttamente da
una fiaba. E poi librerie, comò, quadri, divani, ed un
numero semplicemente indecente di bauli.
«Incredibile. È tutta roba da
museo, certi pezzi devono ancora valere una fortuna»
considerò, stupendosi che fosse ancora tutto lì. O gli sciacalli non avevano
avuto il coraggio di avventurarsi fin lassù, o chiunque l’avesse fatto era
stato preso dagli angeli piangenti. Sorrise, a Dean la cosa sarebbe piaciuta;
statue di angeli che puniscono i ladri?, avrebbe detto
che era una punizione divina. Ma evitò di menzionare a Castiel quel pensiero blasfemo.
Avevano controllato forse metà della mansarda e lui stava
togliendo un telo bianco da qualcosa di alto quanto un uomo – che poi si rivelò
una statua della Vergine Maria – quando accadde. Sentì l’amico urlare il suo
nome e, appena si voltò, trovò un angelo piangente davanti a sé, con le braccia
già tese verso di lui e la bocca aperta a mostrare una chiostra di denti
affilati, il volto distorto e pietrificato in una smorfia ferina.
«Cazzo!» ansimò aspramente, spostandosi a destra senza
distogliere lo sguardo.
«Non guardarlo negli occhi!» gli ricordò Castiel, fissando
anche lui la statua e, quando si voltò a guardarlo, Sam sgranò le palpebre.
«Dietro di te!» urlò.
Gli altri due angeli erano comparsi alle spalle dell’amico,
e lui e Cas furono costretti a mettersi schiena contro schiena
per non perderli di vista. Il cacciatore non si era mai reso conto di quanto
fosse difficile evitare di sbattere le palpebre. Chiuse gli occhi appena un
attimo e una delle creatura avanzò di due metri verso
di lui. Poi la pila cominciò a lampeggiare, minacciando di spegnersi, e Sam
notò che uno degli angeli la stava puntando con un dito.
«Merda. Che facciamo?» domandò, affiancando Castiel in modo da poterlo osservare
con la coda dell’occhio. Forse fu solo una sua impressione, perché non poteva
voltarsi completamente verso di lui e distogliere lo sguardo dall’angelo
piangente, ma gli parve che fosse molto più pallido.
«Tu vai via» decise l’amico, toccandogli un polso, e un
attimo dopo Sam si trovò al piano di sotto, davanti a Dean e Conton, gli occhi ancora strabuzzati e la pila in mano.
«Sammy! Che ci fai qui?!» esclamò suo fratello, quando lui gli apparve ad un palmo
dal naso.
«Castiel. È stato lui a mandarmi
qui. Abbiamo trovato gli angeli piangenti, e ora è da solo contro tre di loro»
realizzò il più piccolo scioccato.
«Aspetta un attimo,» intervenne Conton «da quello che ho capito, Occhioni Blu non è un
infinita riserva di energia pressata in un corpo umano?» chiese conferma.
«Sì, più o meno» annuì Sam e
l’altro ragazzo capì cosa l’agente stesse per dire ancora prima che aprisse
bocca.
«Allora, se voi due siete un
banchetto, per gli angeli piangenti lui è il pranzo del Ringraziamento,
figliolo» concluse infatti.
E Dean ringhiò un sentito: «Merda!» prima di correre fuori
dalla stanza. Sam e Conton cercarono di stargli
dietro, ma lui parve quasi volare su per le scale e, quando raggiunse la
mansarda, loro erano diversi metri più indietro. Spalancò la porta e si gettò
all’interno, senza accorgersi che quella si richiuse da sola alle sue spalle. Gli
altri due cercarono di aprirla, ma era bloccata.
«Che diavolo succede?!» sbottò Sam
preoccupato, quando il vecchio infisso tarlato non cedette nemmeno con un
calcio ben assestato.
«Devono essere gli angeli piangenti.
Oppure il vostro amico sta cercando di tenerci fuori»
dedusse l’agente federale. «Ci serve un cacciavite. Sonico, possibilmente. Dottore! DOTTORE!»
gridò quindi nella tromba delle scale.
«Ehilà, Canton!» lo salutò la sua faccia da ragazzino, spuntando
ai piedi delle rampe.
«Datti una mossa!» gli ingiunse questi «O ti perderai tutto
il divertimento!»
*°*°*°*°*
Dean non si preoccupò nemmeno di cercare o accendere la
propria torcia elettrica, semplicemente corse. Fece lo slalom fra gli oggetti a
terra, inciampo su una cassa, e scavalcò un comò. Poi finalmente li scorse: tre
angeli di pietra chinati su una figura in trench rannicchiata a terra.
«Cas!» urlò senza riuscire a trattenersi, ed
un attimo dopo s’infilò tra le statue, circondando le spalle dell’amico con un
braccio e fissando i tre bastardi sassosi. «Stai bene?» domandò concitato, non
potendo appurarlo con i propri occhi.
«Non… non dovresti essere qui» ansò il suo angelo,
poggiandosi contro la sua spalla.
Il ragazzo sentì il suo respiro affannato accarezzargli il
collo e sorrise spavaldo, soffocando un brivido. «Dove altro dovrei
essere?» replicò, aggrappandosi alla stoffa del suo impermeabile.
«Non credo di riuscire a teletrasportare entrambi» gemette
Castiel, aiutandolo a tenere d’occhio le creature.
«Non vado da nessuna parte senza di te» ringhiò Dean. «Mi hai capito? Non azzardarti a spedirmi chissà dove!»
Forse fu solo un impressione, ma gli parve di sentirlo
sorridere contro la sua spalla, mentre un braccio robusto gli cingeva lo
stomaco.
Poi un rumore ritmico e lamentoso, diventato ormai
familiare, invase l’aria ed il TARDIS cominciò a
materializzarsi attorno a loro.
«Non ci credo» soffiò allibito, quando si ritrovarono
entrambi all’interno della cabina, ancora accovacciati a terra. Il suo sguardo
incontrò gli occhi sollevati del fratello, poi il sorriso soddisfatto del
Dottore. «Esibizionista!» apostrofò quest’ultimo, accigliato, e Conton li occhieggiò divertito, gettandolo nell’imbarazzo.
Fanculo, Dean non aveva alcuna intenzione di staccarsi da Castiel.
«Bene!» esclamò il Signore del Tempo, battendo le mani e
rimettendosi ai comandi.
La nave non si era fermata, aveva imbarcato loro due ed era ripartita
immediatamente. Pochi attimi dopo ricomparve a qualche metro da dove era
atterrata poco prima. L’alieno spalancò platealmente le porte, mostrando tre
angeli piangenti gli uni di fronte agli altri, immobili.
«Si stanno fissando» osservò Amy a bocca aperta «Non
potranno mai più muoversi!» comprese entusiasta,
andando ad abbracciare il marito.
«Fantastico, abbiamo fatto da esche» borbottò Dean
incattivito, approfittandone per controllare con i propri occhi come stesse
Castiel.
L’angelo era molto pallido e non era ancora riuscito a
rimettersi in piedi, ma gli rivolse un piccolo sorriso. Lui non aveva nessuna
voglia di preoccuparsi del fatto che fossero ancora
stretti l’uno all’altro sul pavimento di un’astronave.
*°*°*°*°*
29 Aprile 2011, Concordia, Kansas – America; ore 11,57 A.M.
Il parco era ancora tranquillo ed
assolato e i vecchietti erano sempre lì, sulla stessa panchina, a discutere del
tempo tiranno, beatamente ignari che una cabina blu si fosse materializzata di
nuovo nello stesso punto.
«La mia bambina! Dov’è la mia
bambina?!» esclamò il maggiore dei Winchester
preoccupato, controllando che l’Impala fosse proprio dove l’aveva lasciata,
bella come prima.
«Cos’è quello?» chiese intanto il
Dottore, fissando il piccolo specchio d’acqua lì vicino.
«Uno stagno per le anatre» rispose Sam divertito; quella
l’aveva già sentita.
«Allora perché non ci sono anatre?» replicò l’alieno.
«Che problema hai con i laghetti
artificiali vuoti? Saranno migrate per il freddo, no? La primavera sta tornando
adesso!» gli gridò Amy da dentro la nave.
Il Dottore sbuffò, poi riportò lo sguardo sul ragazzo. «Quindi…»
esordì con le mani infilate nelle tasche e una spalla poggiata contro lo
stipite delle porte del TARDIS «è stato divertente» concluse
con un brillio divertito degli occhi antichi.
«Ora dove andrete?» chiese il cacciatore, venendo
affiancato da loro angelo e dal fratello maggiore, che si degnò di tornare a
salutare.
Amelia spuntò da sopra la spalla dell’amico: «Riuscirai a portarci in Giappone, stavolta? Uno moderno»
specificò.
«Quello era il
Giappone moderno» obbiettò il Signore del Tempo.
«Uno più recente,
allora» ribatté lei e l’alieno sbuffò.
«Devi riportarmi a casa per cena,
Dottore. Il mio ragazzo mi aspetta» intervenne però Conton.
«Oh, potremmo farlo tutti insieme»
propose Rory «Una cena tra coppie».
«Grazie per la considerazione, Mr. Pond» sbuffò il Dottore.
«Possiamo passare a prendere River» sorrise la sua compagna
di viaggio.
«Dobbiamo proprio?» replicò lui terrorizzato e lei
sogghignò. «Potreste venire con noi» propose allora ai nuovi amici, in cerca di
sostegno morale.
«Ma non hai detto che siamo punti fissi nel tempo o quello che è?»
domandò Dean perplesso.
«Oh sì, ma se vi riporto indietro a pochi minuti dopo avervi
portati via… non accadrà nulla. Sarà come se non ve ne
foste mai andati» chiarì il Dottore.
«Meglio di no. Sai, una tizia che si
fa chiamare Madre di tutte le cose da
rispedire al mittente, angeli piumati a cui badare…»
elencò lanciando uno sguardo a Castiel, che si accigliò. «Siamo piuttosto
occupati» concluse, in realtà sperando semplicemente di scamparsi l’ennesimo
viaggio su quel trabiccolo.
«Be’, se preferite così…» chinò il capo il
Signore del Tempo, un po’ deluso, ma Amy lo spinse via per andare a salutare i
ragazzi.
«Chiamateci se avete problemi, eh» raccomandò loro,
lasciandogli il suo numero e quello del TARDIS, prima di abbracciarli tutti,
perfino Castiel, che rimase rigido per lo stupore, pur permettendole di
appendersi al suo collo.
«Sa, Mr. Winchester…» esordì Conton
rivolgendosi al maggiore, quando fu il suo turno di salutare «l’amore non ha
forma, ma a volte – e solo a volte – assume l’aspetto di ciò di cui abbiamo
esattamente bisogno» sogghignò, stringendogli la mano.
Lui borbottò qualcosa di inintelligibile
che suonava sospettosamente come «Dannato Grillo Parlante» ma ricambiò la
stretta.
Quando le porte del TARDIS si richiusero ed
i motori si accesero, producendo quel rumore che non avrebbero mai più
dimenticato in tutta la loro vita, Dean si voltò per un momento a guardare
Castiel, sempre immobile con quell’espressione impassibile. L’aspetto
dell’Amore? Non era esattamente così che lui se l’era sempre figurato, però le
cose non sono quasi mai come uno se le immagina, no?
Ma venne riscosso dai quei pensieri
pericolosi dai motori della nave che si fermarono all’improvviso e dalla porta
che si riaprì, lasciando far capolino alla testa del Dottore.
«Vi ho detto che Robert Plant mi
aspetta ancora per un tè?» domandò e vide gli occhi del cacciatore più vecchio
sgranarsi.
«Robert Plant…?» biascicò questi, voltandosi verso il fratello per
rivolgergli uno sguardo sconvolto e terribilmente tentato.
Però Sam non gli fu di grande
aiuto, si limitò a scrollare le spalle, come a dire “fa quel che ti pare”, e
lui lasciò crollare il capo in avanti, sconsolato.
«Magari solo un viaggetto» ponderò, ma il Signore del Tempo
era già sparito all’interno del TARDIS. Lasciando la porta aperta.
FINE.