Hope against Hope - Il canto del mare
Saverio, un soldato semplice che ha perduto amici e parenti, cade in
mare a seguito di un attacco nemico e al suo risveglio si accorge di
trovarsi dentro una grotta carsica. E di non essere solo.
Classificata 3° al contest "The Last One Fantasy" indetto da
schwarzlight
sul forum di EFP
-Titolo:
Hope against Hope - Il canto del mare
-Autore:
XShade-Shinra
-Rating:
Giallo
-Tipologia:
Long-fic (6 capitoli)
-Genere:
Fantasy, Introspettivo, Malinconico
-Parole scelte:
Speranza – Salvare – Nascosto
-Credits: Lo
scritto ed i personaggi sono interamente di mia
proprietà. Tutti i personaggi di questa storia sono
maggiorenni e comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come
d’altronde i fatti in essa narrati.
-Note
dell’autore: La prima parte del titolo
è un
modo di dire inglese, e significa “sperare senza ragione,
fino all'ultimo”.
Il Banner che ho vinto lo metterò nell'ultimo
capitolo.
- Hope against Hope - Il canto del mare -
Capitolo 1
- Io, un soldato senza speranza -
“Perché
vuoi prendere parte a questa guerra,
fratello?” chiese la mia dolce e gentile sorellina, mentre
finiva di stirare l’uniforme militare in colori mimetici. I
suoi occhi erano grandi e gonfi di tristezza.
“Perché voglio proteggerti” le risposi,
rivolgendole un sorriso.
Sabrina aveva ben quindici anni, ma per me sarebbe rimasta sempre la
mia “sorellina”, indipendentemente
dall’età.
“Sai una cosa, fratellone?” mi chiese, guardando la
foto dei nostri genitori posta sopra il televisore che trasmetteva il
telegiornale con gli ultimi avvenimenti di quella guerra scoppiata da
poche settimane. “Se tutti si rifiutassero di combattere,
quelli che ci sono ai vertici del potere la smetterebbero di aprire la
bocca, dicendo cose insensate, senza un seguito”
sussurrò, posando il ferro caldo in verticale
sull’asse e cominciando quindi a piegarmi i pantaloni.
“È vero, ma quel che dici tu è
un’utopia, Sabrina: un mondo perfetto” le sorrisi
ancora, alzandomi dalla sedia dove ero poggiato scompostamente per
farle compagnia mentre si occupava della roba che avrei messo nella
sacca la settimana successiva, e andando verso la finestra per
abbassare la tapparella. Dopo pochi secondi, però, sentii un
gemito sofferente e qualcosa che cadeva a terra.
“Sav—Saver—” udii la flebile
voce di Sabrina che mi chiamava, e, voltandomi, la vidi pallida,
sdraiata in terra che si teneva la testa con una mano, tremando.
◊●◊●◊●◊●◊●◊●◊●◊●◊●◊●◊
“Perché vuoi prendere parte a questa guerra,
soldato?” urlò il Generale, alitandomi a pochi
centimetri dal viso.
Non feci una piega e risposi con sguardo vacuo ma voce ferma e decisa,
impregnata di tristezza:
“Perché, ormai, non mi resta nessuno.”
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Erano passati
sei mesi da quando i medici mi avevano informato della
morte di mia sorella, l’unica persona cara che mi era rimasta
dopo che i nostri genitori erano stati uccisi da una bomba carta e che
i
miei amici avevano perso la vita a causa di una sparatoria.
Uno schifoso cancro era nascosto dentro di lei, e la stava
mangiando
dall’interno a cominciare dal cervello, senza che nessuno di
noi se ne fosse accorto. Le speranze di salvarla erano praticamente
pari a zero e, come mi era stato predetto, poche ore prima
dell’alba del terzo giorno di ricovero, lei spirò
in una fredda e anonima camera d’ospedale, mentre le tenevo
la mano, sussurrandole che dall’altra parte di quel ponte che
stava attraversando durante il suo coma, avrebbe sicuramente trovato il
mondo di pace nel quale avrebbe voluto vivere realmente, e che presto
ci saremmo rincontrati per stare insieme per sempre.
Avevo solo diciannove anni quando, per colpa di
quell’insensata guerra, persi tutto, persino la voglia stessa
di vivere. Non desideravo la morte, ma ero pronto a piegare il capo di
fronte alla sua falce senza alcuna paura, ormai.
Di certo non potevo sapere che la mia ora non sarebbe giunta
tanto
presto, al contrario delle più rosee aspettative.
Era l’assolato pomeriggio di un 11 Agosto; io e la
compagnia
di cui facevo parte stavamo marciando lenti ma costanti su una
scogliera che si affacciava a picco sul mare in un’enorme
falesia. Stanchi dalle lunghe giornate di cammino che ci eravamo
lasciati alle spalle, assieme ai chilometri di terra battuta, asfalto
scottante ed erba ingiallita dal sole e dalla siccità, il
nostro Colonnello decise che non appena fossimo giunti alla
città più vicina ci saremmo fermati per fare
provviste, per poi continuare il nostro cammino ed accamparci nella
fitta macchia mediterranea del boschetto verso l’entroterra.
Inutile dire che accogliemmo con gaudio quella notizia,
soprattutto
perché la poca acqua all’interno delle nostre
borracce e il poco cibo nelle gavette non sarebbero bastati anche per
l’indomani.
Molti dei miei compagni, però, non raggiunsero
mai il giorno
dopo. Non a causa degli stenti, ma per quei vili proiettili che
arrivarono alle nostre spalle. Il Sergente Fonni, il Medico
Militare
Tesla e il Caporal Maggiore Capo Scelto Occhipinti, furono i primi ad
accasciarsi a terra come foglie d’autunno rosso sangue,
crivellati dai proiettili nemici, quasi senza che ce ne rendessimo
conto.
«A terra!» urlò il mio
commilitone
Eurialo, senza pensare al fatto che non avesse i gradi per dare ordini,
imbracando il fucile d'assalto "AR
70/90" calibro 5,56 in dotazione al
nostro esercito italiano, che ci avevano insegnato ad usare in quei
mesi di duro addestramento che mi aveva forgiato nel corpo –
ma non nello spirito.
Seguimmo presto il suo esempio, sparando da terra a causa
dell’assenza di un posto nascosto e riparato che ci potesse
schermare dal fuoco nemico, proveniente da due grandi massi, dietro ai
quali si erano accampati due cecchini nemici, approfittando che quel
sentiero fosse l’unico passo transitabile della zona per
giungere velocemente al porto.
«Ritirata!» urlò il Capitano,
dopo che
altri nostri tre compagni a terra furono colpiti mortalmente. La sua
voce si sollevava alta nonostante il frastuono delle nostre armi, e
quello di un cecchino che utilizzava un mitragliatore.
«Capitano,» lo chiamò
Alfonso, un altro
mio compagno d’arme, «Ettore è stato
colpito ad una gamba, non ce la farà!»
«Presto, qualcuno lo aiuti!»
ordinò il
nostro superiore, mentre un altro urlo lacerava il tramonto.
Rispetto ad Ettore ero troppo lontano, così
decisi di
guardarmi intorno da sotto l’elmetto color militare, nella
speranza di scorgere una via di fuga nascosta, o non saremmo ai
riusciti a salvarci.
Purtroppo sia a destra che a sinistra le vie di fuga erano
troppo allo
scoperto per permetterci di scappare trascinandoci appresso un ferito,
forse due, e dietro di noi la falesia cadeva in picchiata da
un’altezza di almeno trenta metri; se anche fossimo
sopravvissuti alla caduta, avremmo perso l’arma e molta parte
della nostra attrezzatura, e ce la saremmo dovuta vedere contro le
forti correnti marine… No, non valeva il rischio, e loro lo
sapevano, esattamente come noi.
Mentre i colpi mi fischiavano vicini, e la battaglia a senso
unico
continuava ad imperversare, il mio ultimo pensiero fu rivolto alla mia
adorata Sabrina. Forse quel giorno mi sarei potuto ricongiungere a lei,
uccisa per mano di un nemico contro il quale non avevo potuto fare
nulla, se non starle accanto.
All’improvviso la mia attenzione venne catturata
da
un’ombra, come un sasso lanciato nel cielo.
Smisi di sparare, conscio del fatto che comunque colpire
quei due
tiratori scelti era impossibile dalla nostra svantaggiosa posizione, e
guardai verso quell’oggetto che veniva verso di noi.
Due parole che Sabrina non avrebbe di certo approvato mi
sfuggirono
dalla bocca una volta che mi resi conto di cosa fosse quella cosa.
«Una bomba!» Ernesto fu più
veloce di me
a dare l’allarme in modo che chi fosse in linea di tiro
potesse spostarsi, ma già sapevamo che i danni sarebbero
stati enormi. Cercammo di spostarci quanto più possibile e
di trascinare via i nostri compagni feriti, in un’inutile e
rocambolesca corsa che non fece altro che dividerci tra noi.
Quando la granata toccò il suolo,
però, non ci fu
un’esplosione così devastante come avevamo
pensato, immaginando che quella fosse una bomba a frammentazione o
anticarro.
Dopo pochi secondi, iniziai a sentirmi strano, forse a causa
della
paura che mi attanagliava la bocca dello stomaco come un crampo o delle
poche ore di sonno che mi facevano vedere tutto sfuocato e mi avevano
causato una leggera cefalea. O forse…
Molte imprecazioni si sollevarono, e un nuovo
“Ritirata!”
ci giunse più forte alle
orecchie.
Quello non era un ordigno esplosivo normale, purtroppo per
noi era
ancora più vile e mortale: un’arma chimica.
Doveva essere stata lanciata da un mortaio posto dietro
quella grande
pietra e che noi non avevamo notato perché si tratta di
un’arma capace di sparare a tiro curvo, superando gli
ostacoli.
Sentii abbastanza distintamente due parole da un camerata: gas nervino.
Il Capitano ne aggiunse un’altra: Sarin.
Inodore, insapore, incolore. Letale.
Dai dati che avevamo a nostra disposizione non risultava che
i nostri
nemici facessero uso di quelle armi di distruzione di massa, e fu per
quel motivo che ci ritrovammo impreparati, in balia della falce
invisibile di Abbatôn, l’angelo della morte.
Nessun antidoto, nessuna maschera antigas o autorespiratore.
Eravamo praticamente morti.
L’unica cosa che decidemmo tutti di fare fu quella
di seguire
l’indicazione del nostro Capitano: una ritirata –
un fuggifuggi generale – per allontanarci quanto
più possibile da quel demoniaco gas che tanto mi ricordava
l’invisibile cancro di Sabrina, ma in
quest’occasione non era il solo da combattere, in quanto il
secondo cecchino non aveva ancora smesso di sparare senza
pietà su chi di noi si allontanava.
Pensai che il nostro destino fosse segnato, ormai.
Non c’erano vie di fuga e non potevamo rimanere in
quello
stesso luogo o avremmo respirato un quantitativo di gas tossico che ci
avrebbe ucciso. Bisognava solo scegliere di quale morte morire: stare
fermi ed essere uccisi dal Sarin o fare da bersaglio mobile al nemico,
con un fisico già debilitato dal gas inalato che entrava
nell’organismo attraverso gli occhi e la cute.
“Sicuro
che non ci sia un’altra opzione?”
Sentii una voce dentro di me, e automaticamente mi girai, guardando il
precipizio sul mare alle mie spalle, distante solo pochi passi.
Sì, c’era anche una terza opzione: una
speranza di
salvezza talmente flebile da assomigliare ad un suicidio.
Trattenni il fiato e pregai le gambe di rispondere ai
comandi impartiti
dal cervello e di muoversi in avanti di uno… due…
tre… quattro passi stentati. Ne mancavano solo due, poi
sarei riuscito a buttarmi in acqua da quella vertiginosa altezza, ma le
gambe smisero di collaborare, mosse da sole dagli spasmi dati dal gas e
facendomi così crollare a terra. Trattenei ancora il
respiro, sentendo i polmoni bruciare a causa della carenza di ossigeno
in un momento critico come quello, ma non potevo rischiare: il Sarin
è più pesante dell’aria e tende quindi
ad andare verso il basso, proprio dove si trovava la parte
più vulnerabile del mio corpo.
Senza arrendermi, cercai di rotolare di lato, riuscendo
miracolosamente
ad arrivare sul ciglio della falesia, mentre le urla dietro di me si
facevano sempre più fioche.
Chiusi gli occhi e sorrisi.
Semplicemente, mi lasciai cadere.
Le ultime cose che ricordi prima di perdere conoscenza
furono
un’atroce dolore alla gamba, dal malleolo al ginocchio
– come uno squarcio –, il calore del sangue, e
l’urto contro la superficie dell’acqua di quel
limpido mare. Il colpo fu così forte che mi
sembrò quasi di essere atterrato sul cemento armato.
L’azzurro del mare si oscurò pian piano
e un
leggero luccichio argentato si mosse vicino a me, ghermendomi per le
vesti intrise di veleno.
Poi… il nulla.
[ Continua... ]
XShade-Shinra
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