Poisoned Tears

di Jael
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Criminal Minds

Commento dell’Autrice:

Vi chiederete per quale astrusa ragione metto il commento ancora prima del titolo della one…la ragione è che mi è sembrato più funzionale alle mie necessità, anche se, forse, è un po’ antiestetico xD
Portate pasiensa u.u
La prima cosa che voglio dire è che – come, forse, avrete già notato – questa one-shot è lunga.
Ma tanto, eh.
Non vi dico quante pagine di word perché sennò vi spaventate e mi spavento pure io, a ripensarci.
Molte volta mi è stato proposto dalla regia – e a ragione – di spezzare in due capitoli la storia…ma non ho potuto farlo per esigenze narrative. Avrei spezzato il ritmo e rischiavo di far perdere il filo dei pensieri.
Mi rendo conto, lo assicuro, di quanto sia estenuante leggere un papiro simile, ma ho voluto comunque pubblicarla così e sono contenta per il solo fatto di essere riuscita a scriverla.
Ho ripreso i personaggi di Spencer Reid e Derek Morgan e ho pensato a come metterli insieme…il risultato è quello che vedete xD
Ho giocato molto sui vari legami che ci sono tra tutti i personaggi e, per questo motivo, penso che  questa one potrebbe essere di difficile comprensione per chi non conosce questi rapporti.
Ho reso uno Spencer Reid un po’…sfuggente, ecco. Vittima dei suoi stessi ricordi e della paura dell’abbandono che gli impedisce di vivere la sua vita e influisce pesantemente sulle sue scelte. Anche il fatto di vedere i colleghi di ufficio come una famiglia vera e propria risulta essere una trappola. Spero di averlo reso adeguatamente, pur essendo uno dei personaggi più difficili che ho dovuto sperimentare.
Derek Morgan, invece, ho cercato di renderlo più simile possibile al maschio alfa che si ritrova ad affrontare di petto una situazione che, fondamentalmente, non è in grado di affrontare.
Impulsivo e rabbioso, ma dal cuore d’oro.

La domanda che continuavo a pormi, mentre scrivevo la one era: ma Derek Morgan e Spencer Reid – che sono su due piani differenti – possono davvero arrivare a capirsi?






Poisoned Tears















Plick
Plick
Plick







La pioggia continuava a picchiettare con insistenza sul vetro scuro della Centrale di Quantico, rigando il vetro di lacrime trasparenti ed incorporee.
Il cielo - decisamente plumbeo - non sembrava avere alcuna intenzione di lasciare spazio agli ultimi raggi del sole morente.
Per chi, poi?
Nell’ufficio non c’era anima viva, a parte una sola persona.
Un ragazzo che, a dirla tutta, sembrava non trovare fastidiosa la mancanza di luce naturale, perché l’aveva sostituita con quella artificiale.
La scrivania alla quale stava seduto era ingombra di roba ma, a dispetto di una prima impressione, non era disordinata. Le cose avevano un loro posto ben preciso: le penne dentro al contenitore, oppure pinzate in qualche libro - in modo da tenere il segno -, il telefono perfettamente a posto, nell’esatto punto in cui l’aveva trovato il primo giorno (lo usava poco, d’altronde) e…beh…l’unica cosa che poteva effettivamente sembrare un po’ fuori posto, era la targhetta nera, con stampato sopra, a chiare lettere “SPENCER REID”.
Era leggermente discosta dal bordo della scrivania. Più rientrante, come se provasse vergogna per la sua sola esistenza e cercasse di nascondersi dietro alle foglioline sporgenti di una piantina posta accanto al monitor del computer.
C’erano anche delle cartelle giallognole, impilate una sull’altra, al centro del tavolo.
Lateralmente, invece, una pila di tre o quattro volumi –alcuni più piccoli, altri decisamente più grandi- sicuramente non riguardanti il lavoro. La lampada, piazzata di fianco al telefono, era reclinata verso un libriccino aperto proprio sopra i fascicoli chiari, facendone risaltare - grazie alla luce - il colore piuttosto scialbo.
Il ragazzo dall’aria giovane (ventisei-ventisette anni) stava seduto proprio dietro la scrivania con la testa reclinata in avanti, il volto fanciullesco contratto in un’espressione vagamente corrucciata, quasi meditabonda. Le ciocche castane, di media lunghezza, scivolavano ai lati delle guance scarne, gettando ombre sulla pelle altrimenti chiara.
Il Dottor Spencer Reid era una genio.
Era un genio con un QI di centottantasette, una memoria eidetica e con la capacità di leggere ventimila parole al minuto.
Ma, alla luce della lampada, immerso nel silenzio dell’ufficio vuoto, gli occhi verde scuro continuavano ad andare avanti e indietro, incessantemente, leggendo e rileggendo un’infinità di volte quelle poche righe scritte di fretta, in una grafia vagamente disordinata ma netta, che gli suggeriva una personalità forte e determinata.
Le labbra esangui si increspavano ad intervalli più o meno regolari, facendo assumere al viso delicato un’espressione di disappunto che non gli era propria.
Era davvero raro che Spencer Reid non capisse.
Le dita lunghe e affusolate rigiravano quel bigliettino, i polpastrelli saggiavano la carta come se volessero scoprirne i segreti più reconditi.
Si trattava di una carta delicata, di un materiale non comune – non di quello che trovi in ufficio-. Una carta da lettere bianca. Poco significativo, ma efficace.
Questo fatto gli suggeriva che l’autore del biglietto voleva dare importanza a quello che aveva scritto. Non era una scelta casuale.
Poi?
Assenza di margini.
Questo poteva suggerirgli “spontaneità”. Un’ipotesi confermata dal fatto che lo scritto non occupava tutto il foglio e non lo rendeva “antiestetico”.
La scrittura slanciata in avanti, che sembrava fluire sul foglio, era indice di una persona che corre verso la meta che si è prefissata -badando più al fine che ai mezzi- senza farsi distogliere da ciò che può trovare sul suo cammino.
Modo di pensare?
Si trattava, indubbiamente, di un individuo dalle discrete capacità logiche: la scrittura fluida e le lettere poco distaccate sottolineavano, senza margine di errore, questo aspetto. La logica, infatti, prevedeva, per definizione, una certa continuità e ogni stacco veniva vissuto come un intoppo, un rallentamento da evitare.
Ovviamente, senza eccedere nell’opposto: parole troppo attaccate tra di loro facevano intuire un modo di ragionare caotico, tipico di qualcuno che non era in grado di sintetizzare le informazioni acquisite in maniera coerente.
Cos’altro puoi capire?
Sicuramente si trattava di una scrittura maschile. Sembra ombra di dubbio.
Lo sguardo di Spencer si offuscò per un momento, mentre raddrizzava la schiena e avvicinava il biglietto alla luce.

Ma tu sai di chi è questa scrittura, vero?

<< >>

Spencer…lo sai…vero?


<<
Sì… >>

Incalzato dalla sua stessa mente, si limitò a sussurrare quella semplice risposta.
Sì, sapeva di chi era quella scrittura. Aveva avuto poche occasioni di vederla, ma l’aveva memorizzata con facilità.
Lasciò andare il biglietto e appoggiò la schiena alla poltrona, inspirando a fondo. Intrecciò le mani sul ventre e si guardò attorno, pensieroso.

Perché lui avrebbe dovuto scrivergli una cosa del genere?
Come avrebbe dovuto interpretarlo?
Come, l’altro, si aspettava che lo interpretasse?

Gli uffici vuoti erano inquietanti.
Cercò, istintivamente, di non concentrarsi sugli angoli bui in modo da impedire alla fobia di manifestarsi, tenendo, intanto, razionalmente conto di essere compreso in un cono di luce e, come tale, fuori da qualsiasi pericolo immaginario.
Si sorprese, tuttavia, nel non percepire alcun tipo di ansia. Nemmeno il battito accelerato del cuore.
Era insolitamente tranquillo. Su ogni fronte.
Quello che aveva appena letto avrebbe dovuto sconvolgerlo, no?
Se così era, allora perché non sentiva nulla?


Spencer…non sapere cosa si prova è diverso dal non sentire nulla…”

Le labbra esangui del giovane si piegarono in un sorriso quieto, quasi cauto, mentre una traccia di amarezza si adagiò sul suo viso scarno, come un velo invisibile, creato dalla stessa consistenza della malinconia e dagli strascichi di un dolore portato da troppo, troppo tempo, per poter essere considerato ancora agonia, e da troppo poco, per pretendere di poterlo rinchiudere in un cassetto in attesa che la polvere di giorni, mesi, anni lo sbiadisca lentamente. 
E poi…non era neanche sicuro di poter effettivamente dimenticare qualcosa.
Certo, aveva un grande controllo della sua mente…e l’unica cosa che aveva dimenticato del suo passato, era stato…beh…era suo padre.  
Ma, forse, quello non poteva rientrare tra le cose dimenticate, perché “dimenticate non era nemmeno il termine esatto.
Le aveva rimosse.
La “rimozione” non è sinonimo di “dimenticanza”. La rimozione è sinonimo di “occultamento nell’inconscio”.
Gli eventi che riguardavano suo padre erano, ormai, appartenenti al passato. Negli anni successivi, fino a quel giorno, Spencer Reid avrebbe voluto rimuovere tantissime altre cose. Ma non c’era mai riuscito. Ormai, la sua psiche, sembrava incapace di farlo.
Per quel motivo, probabilmente, si ricordava con tale chiarezza le parole di Jason Gideon.
La sua mente le aveva richiamate improvvisamente, rievocando un ricordo che aveva cercato di evitare da quando era stato abbandonato.
La sua voce profonda, calma…così rassicurante, era tanto chiara, tanto concreta, da dargli l’illusione che il suo mentore fosse seduto proprio accanto a lui in quell’esatto momento.


Come stai?”
“…Avevi ragione. Non serve un’arma, per uccidere.”


Chiuse gli occhi, inspirando silenziosamente l’aria dell’ufficio.
Se si concentrava poteva percepire così chiaramente l’odore di Gideon e…

poteva distintamente sentire le deboli vibrazioni del jet che li stava riportando a casa.
Le luci fuori dal piccolo finestrino erano così lontane da sembrare lumini di un camposanto
.
Il dolore che avrebbe dovuto provare al viso per i colpi ricevuti, era ben lontano dall’essere significativo. Si era abituato molto in fretta al dolore fisico.
Non che lo sopportasse particolarmente bene, ma sapeva come non peggiorarlo.
La voce di Gideon risuonò di nuovo, davanti a lui.
 

“Un giorno capirai che cosa ti ha lasciato dentro. E quando succederà…sono tre le cose che devi sapere:hai fatto quello che dovevi…”

Ruotò lentamente la testa verso la fonte di quella voce avvolgente. I suoi occhi incontrarono quelli del mentore.
Seduto davanti a lui.
Proteso verso di lui, in una posizione che manifestava l’attenzione più completa. Indugiò sui tratti di quel viso, segnato da rughe d’espressione che si raccoglievano attorno alla bocca e vicino agli occhi, ogni qualvolta corrucciava la sguardo.
Spencer era più che certo che ogni singola ruga, ogni singolo segno del tempo, avesse una storia da raccontare.
Bella o brutta.
Una storia…che valeva la pena di ascoltare ogni volta.
Osservò le occhiaie provocate da una stanchezza fisica – non mentale – e risalì di qualche centimetro, fino agli occhi, vispi, attenti. Occhi in grado di sondare l’animo umano con la stessa facilità e lo stesso fastidio con cui un ago penetra sottopelle con lenta fermezza.


Spencer aprì gli occhi di colpo, distruggendo quel ricordo così doloroso con la stessa facilità con la quale si spacca un vetro con un sasso.
Aveva il respiro affannoso e solo in quel momento si accorse che aveva piantato le unghie nei braccioli della poltrona. La schiena gli faceva male per via della tensione muscolare che quel ricordo gli aveva provocato.
Rilassò le dita e le spalle, gradualmente, tirando indietro la testa, accasciandosi letteralmente contro lo schienale.
Inspirò a fondo ed espirò.

Una. Due. Tre volte.

Fino a quando non percepì di aver ristabilito completamente il contatto con la realtà.

Respira ancora, piano…

Si guardò attorno nell’ufficio vuoto e sospirò di sollievo non appena si rese conto che il ricordo di Jason Gideon era divenuto nuovamente una realtà inesistente, lontana, terribilmente distante. Come tale, non poteva e non doveva fargli del male.

Continua a ripetertelo, Spencer…

Ignorando la parte più emotiva della sua mente, si raddrizzò sulla poltrona e abbassò lo sguardo sul biglietto che aveva lasciato sul libro.

Comunque, adesso, hai altro di cui occuparti.

Sì…aveva altro di cui occuparsi. Anzi, la questione si sarebbe risolta di lì a poco, ne era certo.
Con un profondo sospiro, spinse indietro la poltrona e si alzò in piedi, poggiando le punta delle dita sul tavolo, più per riflesso che per reale necessità di equilibrio.
Dopo essersi tirato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, cominciò a muoversi fluidamente tra le varie scrivanie, diretto verso quella che veniva chiamata la “zona bar” dell’open space.
La cosa strana?
Man mano che sfilava accanto alle scrivanie vuote dei colleghi, si soffermava un istante e si allungava ad accendere le lampade da tavolo, illuminando, così, il proprio cammino a spezzoni.

Disturbo dell’ansia legato al buio…un po’ infantile, no?

Analizzò il piano bar e si accorse che non era rimasto caffè, ma solo del thè freddo.
Poco male. La sua voglia di bere qualcosa era solo e unicamente legato ad un istinto. La si poteva tranquillamente chiamare “fame nervosa”.  
Non riuscì a comprendere la ragione di quel brivido lungo la schiena…ma, mentre si versava una tazza di quella brodaglia dal colore indefinito e indefinibile, si rese conto di due cose contemporaneamente.
Primo: aveva un mal di testa assolutamente fastidioso e non aveva con sé le gocce;
Secondo: non era solo, in quella stanza.


Derek Morgan stava osservando Spencer Reid, da lontano, già da una sessantina di secondi.
Era entrato nell’open space più silenziosamente possibile e non aveva fatto alcuna fatica ad individuare il collega.
Non si era nemmeno sentito sorpreso, quando aveva notato quella sorta di “galleria luminosa” che l’altro si era creato per arrivare fino alla zona bar. Era al corrente di quella paura che lo rendeva così dolcemente irrazionale e, al tempo stesso, così…stranamente umano.
Lo sguardo scuro del ragazzo di colore indugiò sulla schiena esile dell’altro che, girato verso il tavolo, non si era ancora accorto della sua presenza.
O, almeno, così gli parve fino a quando non lo sentì parlare.

<< Sei qui… >>
La voce di Spencer aleggiò nell’aria, sostenuta dal vuoto della stanza, come un eco che indugia ed esita, prima di dissolversi, cercando disperatamente qualcuno che possa dare un senso alla sua tanto deprimente, quanto instancabile routine.
Derek abbassò lo sguardo verso terra, poggiando con apparente distrazione la mano sulla scrivania vuota più vicina, sostenendosi e negando a se stesso il timore che provava.
Non si chiese come l’altro sapesse della sua presenza, né come mai sembrasse così calmo.
<< …Sì. >>
Rispose semplicemente, con voce trattenuta, quasi a non voler svegliare un bimbo assopito.
O, forse, aveva semplicemente paura che una tonalità più alta avrebbe portato quel momento – posto in equilibrio, sopra una fune – a scegliere da che parte cadere.
E se fosse accaduto nessuno avrebbe potuto prevedere le conseguenze.
Tantomeno lui.
Con un sospiro, fece scivolare via la mano dalla scrivania e avanzò di uno, due, tre passi, con un’andatura che era l’apoteosi dell’esitazione.
<< Io…sapevo che saresti venuto…sai? >> sussurrò Spencer, sempre voltato di schiena, con un tono che sembrava voler dire “Ti stavo aspettando”.
<< Chissà perché la cosa non mi sorprende particolarmente… >> sorrise Derek, sollevato dall’essere riuscito a fare una piccola battuta. Non aveva perso quella capacità, per lo meno.
Si fermò a due metri di distanza e fece scorrere lo sguardo sull’altro, rendendosi conto con irritante chiarezza che aveva solo l’imbarazzo della scelta, riguardo a dove posare gli occhi.
Sui capelli? Sulla nuca? Sulla schiena?
Oh, poteva anche andare più giù, solo che si sarebbe sentito un verme.
<< Reid, che ne diresti di girarti e parlare guardandomi in faccia? >> mormorò, cercando di addolcire il più possibile il tono, di modo che non sembrasse un ordine, come spesso sembrava essere ogni sua frase rivolta al più giovane.
Quasi non riuscì a finire di parlare, che Spencer assecondò la sua richiesta – forse prevedendola -, ruotando lentamente su se stesso.
Era incredibile, quasi invidiabile, la sua capacità di compiere i movimenti più svariati occupando il minimo spazio.
Non stava mai fermo, normalmente.
Se parlava, lo faceva gesticolando continuamente, quasi nel tentativo di disegnare le sue stesse parole per renderle più chiare. Era un ragazzo profondamente insicuro e, come tale, aveva paura di non essere compreso, non solo psicologicamente, ma anche verbalmente. Come se avesse il terrore di cominciare a parlare, di punto in bianco, una lingua completamente diversa da quella corrente.
…Ma ogni volta che si muoveva, sia per gesticolare, che per camminare, che per scrivere, che per allungare un braccio, che per puntare un’arma da fuoco, lo faceva con la stessa cautela di chi deve rispettare uno preciso spazio geometrico.

Il più giovane ricambiò il suo sguardo per un istante, prima di abbassare gli occhi – che a causa della poca luce sembravano proprio scuri – sulla tazza che stringeva tra le dita affusolate. Arricciò le labbra, come faceva sempre quando non sapeva cosa dire, come esprimersi o quando era irritato per qualcosa. Era un gesto assolutamente infantile e che, pertanto, gli calzava a pennello.
<< Ti… >> cominciò, esitante. La voce fragile si spezzò quasi subito, quasi gli mancasse il coraggio necessario a portare a termine quella frase.
Si schiarì la gola e Derek poté solo presumere che, dentro al thè che stava fissando con tanta insistenza, oltre ai rimasugli di foglioline, trovò anche la forza di andare avanti
<< …Ti ascolto…se… >> strinse di nuovo le labbra e sollevò gli occhi verso quelli fissi e determinati dell’altro << …se vuoi parlarmi…o…hai qualcosa da dire… >>

L’atavica insicurezza che trapelava da quella voce avrebbe fatto ridere Derek, in un altro momento.
In quel preciso istante, invece, ebbe il potere di fargli aggrovigliare lo stomaco.
Questa volta fu lui ad abbassare lo sguardo, ma lo risollevò subito dopo perché era nella sua natura parlare guardando in faccia la gente.
<< Sì, ti devo parlare… >> ammise, basso nel tono, portandosi le mani sui fianchi.
Spencer si mosse a sua volta.
Osservò le mani del collega, studiandone la posizione, prima di sollevare improvvisamente gli occhi su quel bel viso di colore.
Increspò la bocca in un sorrisetto che sapeva di scusa, quindi concentrò la sua attenzione oltre il corpo dell’altro.
Con un << Mmh… >> non meglio definibile, si spostò verso sinistra, superandolo in due passi, muovendosi, poi, verso la sua scrivania.
Derek rimase un attimo a fissare il punto in cui, solo mezzo secondo prima, c’era il suo collega Reid, come se non riuscisse a capacitarsi della sua improvvisa sparizione. L’unica prova evidente del fatto che non era caduto vittima di un’allucinazione fu lo spostamento d’aria che percepì addosso pochi istanti dopo.
<< Non sei a tuo agio… >> commentò con voce improvvisamente professionale.
Si voltò e individuò l’altro davanti alla scrivania << Non mi guardi in faccia, scappi… >>
Avanzò con passo lento e cadenzato fino a lui, appoggiando, poi, entrambe le mani sulla scrivania.
Spencer rimase in piedi, vicino alla poltrona e lo fissò per lunghi istanti << Non è significativo. Lo faccio sempre. >> commentò subito dopo con voce quasi leggera.
Derek alzò gli occhi al cielo e si trattenne dal sospirare.
Non aveva mai sentito un ragazzo mettere in chiara evidenza il fatto di essere debole. O, forse, debole non era la parola giusta.
Remissivo, ecco.
Un ragazzo tanto remissivo da non riuscire a guardare negli occhi chi manifesta un’indiscussa autorità su di lui, né a dare una stretta di mano ad uno sconosciuto, a meno che non sia costretto.
<< Interponi la tazza tra me e te, stringendola come se ti dovesse sfuggire di mano da un momento all’altro. E’ una barriera. >> aggiunse ancora.
Il vero problema del profiling era che, dopo un po’ di tempo che si esercitava quel lavoro, diventavi letteralmente incapace di condurre una conversazione in maniera spensierata. Semplicemente non riuscivi più a non badare a quello che c’era oltre le parole. Come se il cervello si fosse definitivamente spaccato a metà: una parte ascoltava e analizzava il linguaggio verbale, un’altra studiava l’impostazione fisica del corpo e la cinesica.
Non c’era più scampo.
<< Avevamo deciso di non farci il profilo a vicenda... >> La voce di Spencer risuonò per l’ennesima volta calma e apparentemente pacata. Solo apparentemente, perché, in realtà, nel pronunciare quelle parole, aveva improvvisamente fissato negli occhi il collega e stretto le labbra, irrigidendo la linea della mascella.

Irritato.

<<
Scusami, hai ragione…è che… >> il nero esitò, abbassando lo sguardo << …non vorrei farti sentire a disagio. >> sussurrò, infine, tornando a guardare l’altro.
<< >> il giovane arricciò di nuovo le labbra e abbassò lo sguardo sulla tazza.
La fissò qualche secondo, come se cercasse in quel liquido un po’ di ispirazione. Poi sembrò comprendere improvvisamente la reale funzionalità di quell’oggetto e se la portò alle labbra, sorseggiando quasi per finta il thè.
<< …non… dovrei? >> mormorò, infine, quasi timidamente, passandosi nervosamente la lingua sulle labbra.
Quella domanda, posta con quella tale intensità, ebbe la capacità di far sentire male Derek.
Era chiaro il suo significato.

Basta tergiversare, ora parliamo di quello per cui entrambi siamo qui, in ufficio, ad un orario improponibile.

Spencer lo guardò, inclinando appena la testa, tenendo la parte destra del corpo più indietro, rispetto a quella sinistra.
Aspettava.
Il suo non era un atteggiamento di attesa. Anzi, era come se avesse quasi paura di quello che il collega avrebbe potuto dirgli.
Ma lo sguardo che gli teneva puntato in volto trasmetteva un messaggio molto chiaro: “Ti sto ascoltando con attenzione”.
Derek ricambiò lo sguardo.
<< >>
Poi lo abbassò.
Socchiuse le labbra più di una volta, nel tentativo di articolare delle parole che fossero in grado di trasformare i suoi pensieri in frasi di senso compiuto.  
Ma era impossibile.
I suoi pensieri era troppo complicati per poter essere espressi a voce.
Forse perché…in fin dei conti, non erano “pensieri”. Erano sentimenti.
E i sentimenti non sono pensieri.
Spencer assottigliò lo sguardo e fece scivolare gradualmente la sua attenzione sulla propria scrivania.
Guardò i libri.
Guardò i fascicoli.
Guardò la piantina vicino al computer (era ancora viva solo perché se ne occupava uno degli inservienti. Lui non aveva il cosiddetto “pollice verde”).

Buffo
.

Avrebbe potuto sapere vita, morte e miracoli di ogni singola pianta - conosciuta o meno - esistente su quel pianeta…eppure, la conoscenza, non sarebbe bastata, da sola, a mantenerla in vita.
E’ così un po’ per tutto, no?
Conoscere la teoria andava bene, ma era uno studio incompleto, se non si sperimentava anche sul campo.

“Prova ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.”


Di nuovo.
Ancora una volta, la voce di Gideon gli attraversò contemporaneamente la mente e il cuore, incredibilmente chiara, incredibilmente vera.
Al punto tale che il giovane profiler sollevò di colpo la testa, ruotandola verso destra, frugando con occhi ansiosi la stanza, alla ricerca di una persona che non c’era e che, probabilmente, non sarebbe mai più riapparsa.
<< Reid? Reid, che c’è? >>

“Ah, che sbadato…ho una cosa per te.”

“….Davvero?”

“Mh, ho dimenticato di dartela alla tua festa.”

“Tu non fai re…”



<<
Reid! Accidenti, rispondimi! >>
Spencer sussultò violentemente quando si sentì attanagliare all’altezza del gomito sinistro. Non ebbe bisogno di abbassare lo sguardo per sapere che si trattava del delicato tocco di Derek.
Ma non percepiva troppo la morsa. In realtà la cosa che sentiva meglio, in quel momento, era proprio ciò che non sentiva.

La voce del suo mentore.

Si morse di riflesso il labbro inferiore, per trattenere l’irritazione.
<< …ma…stai bene…? >> domandò, l’altro, osservandolo con una strana espressione.
Sembrava ansioso, sì, ma anche cauto. La tipica espressione che si ha, di fronte ad un evento inspiegabile << Perché hai sussultato? Qual è il problema, hai visto qualc… >>
<<
No… >> lo interruppe Spencer, con voce mostruosamente calma ed uno sguardo spaventosamente vacuo.
Socchiuse gli occhi e lo guardò, concentrato. Per un attimo sembrò fare fatica a metterlo a fuoco.
<< Nessuno…non c’era proprio…nessuno. >>
Amareggiato.
Derek Morgan l’aveva appena strappato da uno dei ricordi che aveva di Gideon.

Per un istante lo odiò
.

Poi si spaventò di quel sentimento e percepì il bisogno di distogliere lo sguardo dal viso attento e smarrito del nero.
<< Ho “sussultato” perché mi hai fatto male. Mi stai facendo male. >> puntualizzò, guardando con aria eloquente la mano di Morgan ancora serrata attorno al suo gomito. Era un miracolo che la tazza non gli fosse volata via di mano.
Derek guardò a sua volta la mano con intensità, come se si stesse chiedendo come fosse finita lì e stesse tentando di ricostruirne gli ultimi movimenti.
Poi sembrò arrivare ad una conclusione e alzò lentamente gli occhi scuri verso di lui.
<< Hai sussultato anche prima che ti afferrassi per riportarti sulla Terra. >> scandì lentamente.
Spencer inclinò il capo, fissandolo con aria curiosamente riflessiva, quasi aspettasse qualcosa.

Morgan era un perfetto esempio di Maschio Alfa.
Come tale, non amava essere contraddetto, pur essendo perfettamente in grado di ammettere i propri sbagli.
Si trattava di istinto.
Riconobbe in lui tutti i segni dell’individuo dominante: sbatteva poco le palpebre – o, addirittura, non lo faceva proprio, se era in corso un confronto -, parlava con voce tonante e di volume leggermente più alto rispetto alla norma e, sempre in qualità di autorità superiore, si sentiva libero di violare a piacimento lo spazio vitale dei “subordinati”.
La cosa “buffa” era che non ne era consapevole.
Si trattava di atteggiamenti per lo più istintivi, quasi primitivi.
Gran parte delle relazioni sociali tra animali si basava su una rigida gerarchia di questo tipo e facilmente si era potuto osservare la diversità comportamentale di un individuo alfa e di uno sottomesso.
 Derek sembrò non comprendere quel silenzio prolungato, ma intuì che c’era qualcosa che non andava, in quel collega. Lo osservò muoversi leggermente, dondolando sui piedi, come per riattivare la circolazione sanguigna nelle gambe. Non fece altro, ma in quel modo si rese improvvisamente conto di stargli ancora stringendo il braccio.
<< Scusa…non volevo farti male. Mi sono preoccupato. >> allentò la presa fino ad annullarla totalmente.
Reid, per l’ennesima volta, non rispose, troppo impegnato com’era a guardare fisso Morgan, domandandosi per quale ragione si stesse giustificando.
Non lo faceva mai. Quasi mai.
Cosa avrebbe potuto rispondere, di solito?
“Non ti facevo così delicato” oppure “La prossima volta mi metto i guanti” e avrebbe riso…o avrebbe semplicemente evitato il problema cercando di capire cosa fosse successo.

Ma adesso ci sono cose più importanti, su cui concentrarsi.

<<
Hai capito subito che il biglietto era mio, vero? >> la voce bassa di Derek catturò di nuovo la sua attenzione.
<< Sì… >>
<<
Quanti secondi ci hai impiegato per capirlo? >> rise, l’altro, cercando di tenere a bada l’imbarazzo che percepiva dentro di sé.
<< Una decina… >> rispose Spencer, seriamente << Ho visto poche volte la tua scrittura, quindi ci ho messo un po’ di più. >> soggiunse, grattando la ceramica della tazza con le unghie. Ancora una volta sembrò ricordarsi di averla ancora in mano e se la portò alle labbra, sorseggiando un altro po’ di thè.
Derek decise di lasciar perdere quel discorso.
Esitò.
Abbassò lo sguardo e lo rialzò, puntandolo sul biglietto abbandonato sulle pagine del libro aperto.

Era ora
. Doveva farlo.

<<
Cosa…cosa ne pensi? >> si sentiva incredibilmente stupido. Dannazione, normalmente non aveva alcun problema a rapportarsi con qualcuno.
Non aveva alcun problema a rapportarsi con una donna.
Comprese che stava proprio lì, il problema.
Le donne si seducono.
Si corteggiano.
Con gli sguardi, con un tocco leggero, con parole gentili e sorrisi accattivanti. Avevano bisogno di sentirsi al sicuro.
Capite.
Spencer Reid non era una donna.
Spencer Reid non era nemmeno bravo a rapportarsi con le persone.
Conosceva i modelli comportamentali in teoria. Sorrideva sempre, quando veniva presentato a qualcuno, faceva un cenno di saluto e ammorbidiva i tratti del volto quando gli veniva rivolta la parola.
Ma non sorrideva mai veramente. I suoi erano tutti sorrisi di circostanza.
Il cenno di saluto era istantaneo, ma sostituiva la stretta di mano (se una persona saluta già con un semplice gesto, viene istintivo salutarla a sua volta allo stesso modo).
Il fatto di avere quasi sempre un’espressione mite – quasi mansueta – sul volto, era data, probabilmente, da una intima decisione di non far trasparire troppo le proprie emozioni.
No, con lui non avrebbe potuto applicare tecniche particolari.
Infatti era partito con lo scrivere un biglietto – che, avesse potuto, lo avrebbe preso, appallottolato ed ingoiato in modo da farne sparire le tracce -, cosa che non aveva mai fatto.

<<
Morgan… >> la voce di Reid gli sembrò, ancora una volta, incredibilmente fragile. Percepì un lieve brivido sulle braccia, nell’ascoltare la pronuncia del suo cognome. Tendeva a chiudere la voce sulla prima “o”, accarezzava appena la “r”, senza darsi la pena di definirla troppo, e le ultime tre lettere le pronunciava gutturalmente.
Derek lo guardò, avvertendo un improvviso dolore al cuore.

Quanto può far male l’amore?

<<
Ma…tutte quelle donne… >> continuò, Spencer, esitante.
<< Ehi, non c’entra niente con questa storia! >> affermò in tono più brusco di quanto in realtà non volesse. Appena se ne rese conto aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, in maniera più dolce, ma lì per lì non gli venne in mente nulla.

Cazzo, Reid, come fai a non accorgerti di quanto io ti desideri?

Un pensiero sorprendente.
Si sentì preso in contropiede dalla sua stessa mente.
Lo desiderava davvero?
Il cuore gli mandò una fitta potente.

Il più giovane sorrise, abbassando lo sguardo e arricciando le labbra, come faceva quando sentiva qualcosa di stupido o incredibilmente sbagliato.
<<  Come puoi dire che non c’entra nulla? >> si interruppe un istante e la sua espressione si illuminò improvvisamente, come se gli fosse tornato alla mente qualcosa di estrema importanza.
<< Reid, non comincia… >>
Troppo tardi.
<< Non essere in grado di stabilire a chi dedicare le proprie mire – se a maschi o a femmine – è sinonimo di disagio e di mal convivenza con la propria identità sessuale. Come l’eterosessualità, l’omosessualità deriva da fattori biologici, ambientali, sociali e culturali complessi, che conducono ad una preferenza pressoché inevitabile, nella scelta del partner sessuale. Per il 4-5% della popolazione non si tratta nemmeno di scelta. Inoltre, un’attività sessuale frequente con molti partner, spesso occasionali, è indice di una diminuita capacità di sostenere e consolidare un eventuale rapporto di coppia. >>

Derek non si sforzò nemmeno di bloccarlo. Si limitò ad appoggiare la sinistra sul piano della scrivania, sostenendosi ad essa con ostentata rassegnazione. Gli occhi scuri vagarono per un istante in giro, per l’ufficio, ascoltando, oltre alla voce di Reid - già di per sé difficile da ignorare -, anche il picchiettare della pioggia contro i vetri.
Non cercò neanche di seguire il discorso, in un certo senso. O meglio: lo seguiva passivamente, come quando si ascolta una lezione. Sapeva perfettamente che il collega stava ripetendo parola per parola ciò che aveva letto su un vecchio libro sconosciuto, chissà quanto tempo prima.
La cosa gli faceva venire i brividi, in parte.
Al ragazzino piaceva molto condividere la sua conoscenza, questo lo sapeva, ma non aveva mai capito se lo facesse perché voleva sentirsi dire che era bravo, o solo per dimostrare a se stesso – nel caso in cui avesse trovato qualcuno disposto a stargli dietro – che non era poi così alieno come la gente gli aveva fatto credere fino a quel momento. In quei momenti, però, non si controllava e, nella foga di parlare, accelerava e, di conseguenza, accorciava gli spazi tra le parole e le pause tra le frasi.
Tra l’altro, in genere, lo faceva con persone nuove che, ovviamente, non avevano nessuna speranza di capire anche solo un quarto del sermone che tirava su – tutto da solo! -.

Comunque non aveva scollegato del tutto l’udito e, per questo, focalizzò lo sguardo su Reid non appena sentì pronunciare la parola “omosessualità”.
Lo guardò, vitreo.
Per la prima volta si rese conto delle reali implicazioni che tutta quella situazione recava con sé.
Aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a dire nulla fino a quando l’altro non tacque per riprendere fiato.
<< Omosessualità, Reid? >> articolò a fatica, guardandolo fisso.
Spencer ricambiò con la stessa, significativa, espressione di chi era convinto di star parlando con il muro, ma poi, ad un tratto, “Il Muro” aveva deciso di rispondergli.
Grattò di nuovo la ceramica della tazza con le unghie, elaborando rapidamente una risposta.
<< “Omosessualità” è un termine che deriva dal… >>
<<
So che cos’è, Reid! >> lo interruppe bruscamente l’altro, cercando di frenare la stizza naturale che gli corrodeva l’anima.
Era furioso.
Si sporse verso di lui, pur sapendo che avrebbe interpretato – giustamente -, quel gesto come un atteggiamento di minaccia. In un certo senso voleva che lo interpretasse così.
<< …Non è così che stanno le cose. >> sussurrò, fissandolo negli occhi con un’espressione che non dava adito a fraintendimenti. Non voleva più sentir parlare di quella storia.
Ma Spencer non sembrava essere di quella opinione.
Lo osservò per qualche secondo, senza aprire bocca e Derek fu pronto a giurare di aver visto una strana scintilla, in quegli occhi verde scuro.
<< …Non…stanno così? >> ripetè, quasi atono.
<< No. Te l’ho detto…è una questione diversa. >>
<<
>> scrutò il nero per un istante << in che senso? >> chiese, poi, lentamente.
Socchiuse gli occhi, concentrato.
Cadde il silenzio, tra di loro. Aleggiò nella stanza come un fantasma.
Morgan cercava disperatamente qualcosa da dire.
In che senso?”, gli aveva chiesto.
Non lo sapeva.
Aveva bisogno di tempo per elaborare una risposta.
Ma il tempo non ce lo aveva.
Non perché Reid non glielo avrebbe concesso…tutt’altro. Nonostante fosse un ragazzo in grado di elaborare le informazioni ricevute in maniera più efficiente di un computer - e, di conseguenza, la “conversazione” era un’interazione sociale che, nella sua mente, aveva tempi accelerati che dovevano essere per forza rallentati a beneficio delle altre persone – era dotato di una grande pazienza che solo la psicologia poteva dare.
No…il tempo gli mancava perché sapeva, percepiva sulla pelle che, ad ogni secondo che passava, Reid gli stava scivolando via.
Si stava allontanando, pur senza muoversi di un centimetro.

Non poteva permettergli di andarsene.

Il dolore che stava provando in quel momento era troppo forte da poter anche solo concepire l’idea di lasciarne scivolare via la causa.

Spencer rimase immobile, a fissarlo, domandandosi, al tempo stesso, come fosse finito in quella situazione.
Ancora una volta si sorprese di non sentire nulla.
E, ancora una volta, la voce di Gideon smussò la barriera mentale che separava la razionalità dall’irrazionalità, la realtà dei fatti dal desiderio bruciante di avere accanto una persona che non c’era più.

“Non sapere cosa si prova è diverso dal non sentire nulla…”

Con un dolore sordo al petto ed il respiro spezzato, cercò di compiere un passo indietro, quasi nel tentativo di allontanarsi fisicamente da quei ricordi e di ripristinare la propria difesa psicologica.
Non riuscì a farlo.
Derek Morgan interpretò quel misero movimento come un distacco sia fisico che emotivo e reagì di conseguenza, protendendosi di colpo verso il più giovane con la sensazione martellante di dover fare assolutamente qualcosa per buttare giù quel muro invisibile che si stava creando.

Come si distrugge un muro invisibile?

Fece la prima cosa che gli suggerì l’istinto.
Accorciò ulteriormente la distanza con una tale decisione da trasmettere a Reid l’intenzione di volerlo buttare a terra.
Il giovane profiler tentò di indietreggiare ulteriormente, con uno scatto quasi anomalo, ma si incartò nelle gambe della poltrona, rischiando di crollare sul pavimento.
Dalle labbra gli uscì un semplice sussulto di sorpresa, ma, prima che Morgan potesse fare qualcosa per tenerlo in piedi, staccò la destra dalla tazza e la sbatté sulla scrivania, producendo lo schianto secco di ossa che impattano contro una superficie dura.
Derek, senza quasi rendersene conto, allungò la destra, approfittando della momentanea instabilità dell’altro, e gli strappò letteralmente di mano quella dannata tazza da thè, con l’esaltante sensazione di aver appena sgretolato una parte di quel muro.

Lo aveva privato del suo schermo.

Reid si raddrizzò, tenendo la mano sospesa per aria, come se volesse prolungare l’illusione di star stringendo qualcosa.
Poi guardò Morgan dritto negli occhi, irrigidendo la mascella, osservandolo mentre sbatteva la tazza sulla scrivania, irritato da nonsisacosa, facendo cadere delle gocce sul piano di legno.
<< Se non ti piace il thè, tanto vale non berlo, no? >>
<<
Non penso che ti debba interessare quello che mi piace o meno. >>
<< Rientra nel mio interesse, se cerchi di erigere una barriera tra me e te. >>
<< Con tutto il rispetto, neanche questi sono affari tuoi… >>
Derek percepì con piacere il tremito esitante nella voce di Reid.
Remissivo com’era era chiaro che non avrebbe potuto sostenere a lungo un confronto, specialmente se si sentiva aggredito sia fisicamente che verbalmente.
<< Pensi davvero che ti stia mentendo? Sei davvero convinto che avrei scritto questa roba a chiunque?! >> ringhiò, avvicinandosi di un ulteriore passo, senza mai allontanare lo sguardo dal viso del collega.
Spencer indietreggiò ancora, questa volta con più cautela, allontanando, con un lieve pressione della gamba, la poltrona, che scivolò via di qualche centimetro, silenziosa, sulle rotelle evidentemente ben oliate.
<< Io… >> boccheggiò per un attimo, incapace di articolare qualcosa di sensato.
La realtà era che non riusciva a pensare. Morgan non era mai stato così aggressivo, nei suoi confronti.
Lo era stato con alcuni sospettati di omicidio, ma mai con lui.
Non aveva mai cercato di…dominarlo in quel modo.
<< Che cosa stai cercando di ottenere, Morgan…? >> domandò, flebile, quando avvertì il piano della scrivania premere contro la zona lombare, fermando obbligatoriamente il suo allontanamento.
<< Che cosa… >> cominciò l’altro, per poi interrompersi e distogliere lo sguardo, stizzito.
Rimase in silenzio, mordendosi le labbra e puntandosi le mani contro i fianchi, riflettendo intensamente.
Riportò lo sguardo su Reid, osservandolo.
La scrivania era ad angolo e lui aveva chiaramente fatto in modo di bloccarci contro il collega più giovane.
E’ davvero così che si discute?
Si sentì in colpa.
Spencer cominciava ad inviare i classici segnali di chi è sotto stress: non soffermava lo sguardo sul suo volto per più di qualche istante, teneva le mani sollevate, unite all’altezza della bocca dello stomaco, in parte per riabilitare la barriera che una volta era costituita dalla tazza, in parte per scaricare l’ansia tirandosi e torcendosi le dita.

Stava approfittando della sua debolezza?

<<
Reid…vorrei solo che tu mi…ascoltassi. >>
Reid si concentrò sul monitor spento del computer e Morgan abbassò la testa per poter richiamare la sua attenzione e far sì che ricambiasse il suo sguardo.
<< Vorrei che tu mi ascoltassi davvero. >>
Fece un momento di silenzio, attendendo di ricevere un segno di qualunque tipo, di assenso o di diniego. L’altro non fece nulla, si limitò a fissarlo.
Deglutì e riprese a parlare, avvertendo il battito cardiaco accelerare di colpo.
<< Non ti sto prendendo in giro. Non lo avrei fatto per nessuno. >>
Stava parlando del biglietto.
<< Il fatto è che…quello che provo stando con te…non l’ho mai provato per nessun altro. >> si interruppe, sentendosi sempre più idiota ogni secondo che passava << Mai! >> ribadì con più forza.
Il viso di Spencer, a quelle parole, ebbe una contrazione tanto lieve quanto involontaria, che sparì mezzo secondo dopo.
Morgan non riuscì a darci un significato. Era successo troppo in fretta.
<< Senti, lo so che ti sembrano frasi stereotipate…lo so, credimi, perché in questo momento mi sento tanto in imbarazzo che potrei prendere la rincorsa e scagliarmi contro quel vetro che vedi là e buttarmi di sotto… >> riprese fiato, leccandosi le labbra, innervosito.
Fece vagare gli occhi scuri per la stanza, quasi in cerca di aiuto << …Il fatto è che…non posso farlo. Perché…vorrei davvero che tu capissi quello che provo. Il problema è che… >> sospirò, rilassando le spalle e allargando le braccia, come  in segno di resa << …non ci riesco. >>
Ebbene sì, non riusciva a far trasparire i propri sentimenti.
Con le donne era diverso.

“un’attività sessuale frequente con molti partner, spesso occasionali, è indice di una diminuita capacità di sostenere e consolidare un eventuale rapporto di coppia”

Le parole che Reid aveva pronunciato solo pochi minuti prima gli rimbombarono in testa, assumendo nuove sfumature, nuovi significati ad ogni secondo che passava.

Partner occasionali
.

Le donne che aveva incontrato e conosciuto – ovviamente in senso biblico – erano tutte occasionali.
Il modo di rapportarsi doveva essere necessariamente differente.
<< Non…non sei una donna>> sussurrò lentamente, guardandolo dritto in faccia con aria quasi perplessa.
Spencer lo fissò, stropicciandosi le dita. Per un attimo non diede minimo segno di averlo sentito.
Poi distolse lo sguardo dal collega e inarcò leggermente un sopracciglio, come per dire “Andiamo bene”.
<< …ma… >> Derek fece per aggiungere qualcosa, ma la voce gli si bloccò.

<<
Dev’essere sconvolgente>> sussurrò improvvisamente, Reid.
Il nero lo guardò.
Sconvolgente cosa?
Accorgersi di star parlando con un maschio anziché con una femmina?
<< So che sei un maschio. >> ci tenne a sottolineare, subito, Derek << Cioè… >> boccheggiò per un istante, guardando l’altro, come a cercare ispirazione in lui. Strizzò gli occhi e scosse la testa, ben conscio di star facendo una figura non molto bella.
Il più giovane, intanto, scivolò impercettibilmente verso sinistra, allontanandosi dall’angolo della scrivania che gli stava letteralmente martoriando i reni.
Si rendeva conto del fatto che Derek voleva esprimere un…sentimento – forse – che andava ben oltre la sua concezione di “maschio Alfa”.
Quella era una dichiarazione in piena regola, vero?
Ma perché?
Più lo guardava, più si rendeva conto che ci potevano essere tante, troppe spiegazioni per quel comportamento.
Deglutì e abbassò lo sguardo, prima di prendere fiato e parlare.

<<
Secondo degli studi a impronta sociobiologica, il meccanismo della selezione naturale ha permesso e favorito la diffusione strategica di tutti quei comportamenti specifici e idonei a favorire il processo riproduttivo. Tutti questi atteggiamenti rientrano nella definizione di “Pluralismo sessuale”. I sessuologi ne hanno individuato cinque forme principali… >>
<< Reid, ti prego>> Derek sospirò, sconsolato.
Ovviamente il ragazzino non gli diede il benché minimo ascolto – forse non lo sentì nemmeno – e continuò a sopraffare il silenzio della stanza con quella voce acuta e fragile, sciorinando vocaboli e termini fin troppo tecnici per poter essere assimilati e appresi nel giro di un nanosecondo.

<<
Nella prima forma – la più frequente – sono state individuate alcune particolari tipologie di pluralismo sessuale, convenzionalmente indicate con nomi derivati da alcuni celebri personaggi e… >> la voce gli si smorzò perché, notoriamente, i polmoni avevano bisogno di ossigeno, di tanto in tanto.
Morgan – che intanto si era di nuovo appoggiato alla scrivania – cercò di approfittarne per farlo tacere << Reid, non mi interessa una lezione di sessuologia presa da uno di quegli assurdi volumi che ti leggi quotidianamente. >>
Il tono utilizzato in quel frangente, di norma, sarebbe dovuto bastare a tappargli la bocca, ma evidentemente, Spencer aveva qualcosa di importante da dire, perché sollevò impercettibilmente il mento, allargò gli occhi e accelerò ulteriormente la cadenza del parlato.
Dato che non aveva più la tazza in mano era ben libero di gesticolare, quindi sollevò le mani e le tenne sospese per aria, all’altezza dello sterno, come se le avesse appoggiate ad una balaustra invisibile, rilassò le dita e unì i polpastrelli dei pollici con i rispettivi anulari, come faceva sempre.
Sembrava un direttore d’orchestra in tensione.

<<
Il “pluralismo sessuale” caratterizzato dalla tendenza ad approfittare di qualsiasi occasione per intraprendere avventure erotiche con qualsiasi donna capiti a tiro, da poter sedurre senza alcun sentimento affettivo, viene chiamato “Casanovismo” o “Complesso di Casanova”. La persona che ne è affetta ha l’apparenza di un uomo normale e, spesso, ha una buona posizione sociale. E’ un maschio poligamo, cronicamente infedele, con una condotta di vita caratterizzata da una compulsività patologica al “tradimento sessuale” e alla “promiscuità”. >>

Normalmente, Derek, faceva in modo di scollegare il cervello dopo le prime tre parole, ma questa volta non lo fece.
Fu quel “qualsiasi occasione” a fargli drizzare le orecchie.

Da poter sedurre senza alcun sentimento affettivo”.

Man mano che le parole di Spencer gli ridondavano in testa, cominciò a comprendere quello che l’altro stava tentando di fargli capire, attraverso le righe.

Promiscuità”.

Morgan aggrottò le sopracciglia, raddrizzandosi e cercando di tenere a bada il sentimento di collera che stava nascendo in lui.
<< Reid, mi stai insultando? >> commentò a voce bassa, pericolosa.
Il più giovane reagì istantaneamente.
<< ..Affatto! Il “Complesso di Casanova” è definito dalla scienza come una vera sindrome psicopatologica, una vera e propria malattia dell’anima, dalla prognosi incerta, che può instaurarsi in ogni tipo di personalità e può associarsi a varie turbe psichiatriche. >> quasi si mangiò le ultime parole, nell’ansia di spiegarsi meglio.
Quando terminò la frase, gli occhi verde scuro sbirciarono il collega, nel tentativo di leggerne dei segnali non verbali che gli potessero indicare il livello di irritazione.
Morgan non mollò la presa.
<< Ti sembro affetto dal “Complesso di Casanova”? >> mosse un piede, spostando il peso del corpo in avanti, come in procinto di avvicinarsi. Reid, in risposta, irrigidì i muscoli delle gambe e del busto, spingendosi leggermente indietro, tentando, forse, di farsi inglobare dalla scrivania.
<< No, per niente. >> replicò, quindi, in uno slancio di istantanea sincerità << O, se lo fossi, si tratterebbe comunque di una forma molto, molto lieve. >> piegò gli angoli delle labbra verso l’alto, in un sorrisetto nervoso che aveva la sola funzione di sfogare l’ansia che la vicinanza del collega gli faceva provare.
Morgan lo guardò fisso, stringendo i denti, irrigidendo la linea della mascella.
Stava cominciando ad innervosirsi. Spencer non stava facilitando le cose.
<< …Reid, dove vuoi andare a parare? >> domandò, infine, stancamente.
Il giovane profiler lo guardò, sfarfallando le ciglia per un istante, come se gli fosse entrato qualcosa in un occhio.

<<
Quello che…intendo dire… >> ricominciò, stranamente esitante. Mosse le dita nell’aria, come se stesse tirando le corde di un’arpa invisibile << è che, talvolta, questi soggetti, vengono inevitabilmente attratti da quello che non…possono avere. Da tutto ciò che vedono fuori dalla loro portata. Hanno tendenze un po’ narcisistiche e quando posseggono l’oggetto del loro desiderio…poi…non… >> si interruppe e deglutì << …non se ne fanno più nulla. >> concluse a fatica.
Derek aprì la bocca per parlare.
<< >>
La richiuse, mentre il suo cervello cercava di comprendere quello che l’altro aveva appena cercato di suggerirgli.
<< Che cosa…vorresti dire? >> scandì lentamente.
Spencer si mosse, a disagio, senza, tuttavia, spostarsi (tanto, anche se avesse voluto non avrebbe potuto muoversi).
Abbassò appena le braccia e inspirò a fondo, prima di decidersi a chiarire.

<<
Questi individui…sono abili seduttori. Riescono quasi sempre ad ottenere tutto quello che vogliono… >> si fermò ed inspirò di nuovo, abbassando lo sguardo, puntandolo all’altezza del petto di Derek << …a volte, però, proprio per il fatto che ottengono tutto senza il minimo sforzo…si…annoiano. >> si stava chiaramente sforzando di trovare le parole giuste.
Assottigliò la voce, rendendola quasi leggera e suadente, stringendosi le mani l’una nell’altra << …e puntano…soggetti che reputano “difficili” da…ottenere. Hanno grandi prospettive, ma, una volta raggiunto il loro obiettivo…è più la delusione che altro, ad attenderli…e passano a qualcun’altro. Fondamentalmente, quello che cercano, non è nient’altro che l’eccitazione…della caccia… >> pronunciò l’ultima parola con uno strano fremito nella voce e sollevò lo sguardo, gettando un’occhiata al viso dell’altro, che era rimasto muto e immobile per tutto il tempo.
<< Reid… >>
Spencer si spostò una ciocca di capelli da davanti al viso, per poi tornare a stropicciarsi le mani.
<< …Fammi capire… >> la voce di Morgan sembrava atona. Suonava incredibilmente piatta, nel silenzio di quella stanza.
Reid si innervosì, perché non sapeva come interpretare quel tono.
Per meglio dire…c’erano troppe variabili da interpretare.

Ma quando Derek Morgan sollevò lo sguardo, non avrebbe avuto bisogno di nemmeno una, delle sue cinque lauree, per riuscire a cogliere, anche solo in minima parte, quanto fosse furioso.
Aprì la bocca, più per istinto alla difesa che per vera volontà di prendere la parola, ma l’altro fu più svelto.
<< …Secondo te io mi sto divertendo? E’ questo che credi, mh? Che mi diverta a stare qui, alle dieci di sera, a parlare con te di argomenti più che imbarazzanti? >> socchiuse gli occhi, affilandoli, senza abbandonare mai il viso del collega più giovane che aveva l’espressione di uno che avrebbe voluto trovarsi davvero ovunque, tranne che lì << Ti sto dicendo che…che penso che tu mi piaccia. Cazzo, hai idea di quanto sia difficile dire una cosa del genere? >> il tono si alzò, ribollente di collera repressa.
Si riscoprì a provare impulsi violenti verso quel ragazzino saccente che pensava di sapere tutto, di lui, interpretando i fatti della sua esistenza scremandoli attraverso il punto di vista di qualche libro astruso, trovato chissà dove.

<<
Io non… >> cominciò a giustificarsi, l’altro, senza guardarlo in faccia.
La tensione del suo corpicino esile era palpabile.
<< Tu volevi dire esattamente quello che hai detto, Reid! >> Derek non lo lasciò parlare.
Lo guardò, ben sapendo che se si fosse fatto ulteriormente più vicino, Spencer avrebbe cercato di “prendere il volo”, come aveva fatto prima, vicino alla zona Bar.
Non gli importava.
<< Con tutto il rispetto, ragazzino…ma comincio seriamente a dubitare della tua presunta intelligenza. “Ottengono tutto senza il minimo sforzo”? Come puoi…parlare in questi termini, pur sapendo…pur sapendo quello che ho dovuto passare nella mia infanzia?! >> più parlava, più la rabbia si faceva sentire e più il tono di voce si alzava.
Non permise a Reid di replicare.
<< Cos’è, hai paura che ti scopi e poi ti getti, via, Reid? E’ di questo che hai paura, eh? Saresti tu l’obiettivo irraggiungibile? >> notò con sadico piacere l’irritazione che si dipinse sul viso del giovane, alla frase “hai paura che ti scopi”.
Evidentemente, per lui, la sfera sessuale era un tabù e, inoltre, non apprezzava l’utilizzo di termini volgari. Erano più questi due fattori, piuttosto che l’evidente ironia, a dargli fastidio.
<< Era questo che intendevi dire, vero? >> lo incalzò, guardandolo fisso e abbassando appena il tono di voce, facendogli intuire che era ora di rispondere.

Spencer sollevò lentamente gli occhi, ritrovandosi a fissare quelli di Derek. L’aveva visto così arrabbiato in poche, pochissime occasioni.
Cominciò a sentirsi male.
La gola gli si chiuse e la respirazione divenne quasi difficoltosa.
Il panico gli irrigidì il corpo.
Aprì la bocca per parlare, ma non gli uscì nulla, se non un flebile sospiro.

E poi, improvvisamente, avvertì un dolore sordo al petto.
Al cuore.
E capì che le parole di Morgan avevano scavato e distrutto le sue difese, raggiungendo il punto più doloroso e vitale.

Non me lo merito…

No, non se lo meritava.

<<
Reid, rispondimi! >>
Derek insisté ulteriormente e Spencer percepì che la barriera nella sua mente si stava disfacendo di nuovo.

Era seduto su una sedia, accanto alla scrivania del Distretto di Polizia di Modesto, in California.


“Uff…non fa che dare calci, oggi!”

JJ stava seduta vicino a lui, accarezzandosi il ventre prominente con le mani.
Il sorriso addolcito che permeava sulle sue labbra e il movimento delicato delle dita, suggerirono a Spencer, che non si trattava di una vera lamentela.

<< Nel terzo trimestre c’è una media di trenta movimenti fetali all’ora. Scalcia per sgranchirsi le gambe e rinforzare i muscoli. >> spiegò in tono pratico, rispondendo ad una domanda mai stata posta.
JJ lo guardò, scettica.


“Hai mai sentito un bambino scalciare?”

Una domanda che sapeva un po’ di ironia. Era l’unica, della squadra, che non si faceva imbambolare dai suoi tecnicismi e andava dritta al punto.
“Hai mai sentito un bambino scalciare per davvero? Non nei libri di testo. Nella realtà.” Era da interpretare così,quella domanda.
Senza attendere risposta, afferrò la mano del ragazzo e, con delicata fermezza, gliela fece appoggiare sulla pancia, verso il lato destro.

“Lo senti?”

Spencer ricacciò indietro l’imbarazzo che percepiva nel toccare una donna in quel modo – non era abituato a simili contatti – e, un po’ irrigidito, si concentrò sulla propria mano. Non era passato nemmeno un secondo, che avvertì un colpetto piuttosto esiguo, proprio sotto il palmo, che ebbe la capacità di fargli saltare il cuore in gola. Subito dopo ce ne fu un altro, localizzato poco più in basso. Erano al tempo stesso leggeri e incredibilmente secchi.
<< La cosa non ti spaventa..? >> domandò, timoroso. Nello stesso momento in cui pronunciò quella frase si rese conto che, sì, a lui spaventava, ma non sapeva definirne bene il motivo.


“No, per niente. Perché, a te, invece, spaventa?”

JJ lo guardò, in parte perplessa, in parte divertita, perché sapeva che stava per assistere all’ennesima stranezza del Dottor Reid.
Infatti, lui, ritraendo la mano e gettando un’occhiata guardinga e sospettosa al pancione – quasi avesse timore di vederlo trasferirsi dalla bionda mamma a lui -, ribatté, in tono più basso
<< Sì, da morire. >>


Spencer sbatté le palpebre e il ricordo si dissolse improvvisamente, permettendogli un nuovo contatto con la realtà. Sentiva le tempie pulsare e una strana pressione alla testa, come se qualcuno o qualcosa gliela stesse comprimendo da tutti i lati.
<< Io… >> mormorò, esitante, con una tonalità della voce stranamente vuota. Si sentiva come se a parlare fosse qualcun altro.
Rilassò impercettibilmente le spalle, portando le mani indietro, afferrando i bordi del piano a cui era appoggiato, perché non era certo di poter stare in piedi autonomamente. Si leccò le labbra e scosse appena la testa, in parte per schiarirsi le idee, in parte perché non sapeva cosa rispondere a Morgan.
<< …Io penso che tu abbia le idee un po’…confuse. L’ultimo periodo è stato…piuttosto duro, per tutti noi…forse…ne hai risentito più di quanto tu stesso potessi ritenere possibile. >>

L’ultimo periodo è stato duro per tutti.
Cos’è successo, Spencer?

No, non voleva ricordare.
A una fitta della testa, si ritrovò a strizzare gli occhi commettendo, probabilmente, l’errore più grande che potesse fare in quel momento.
Ruppe di nuovo il contatto con la realtà.



Emily Prentiss attraversò l’open space in pochi, decisi, passi, avvicinandosi alla propria scrivania, sfilandosi la borsa dalla spalla e lasciandola cadere sul piano, senza nemmeno troppa delicatezza.
Spencer Reid, seduto alla scrivania accanto, oltre il separé, sollevò la testa con uno scatto troppo repentino per poter essere considerato naturale.
Emily lo fissò, più sorpresa che mortificata, domandandosi il motivo di tanta tensione, dentro al corpo di un ragazzo così giovane.

“Scusami.”

Disse, infine, tenendosi le mani l’una nell’altra.
<< Pensavo fossi là… >> si giustificò con voce fiacca il giovane profiler, accennando alla zona Bar, dove c’era Morgan. Emily continuò a guardarlo fisso,con l’aria fin troppo attenta di chi ha già colto molti segnali, ma è incerta se parlare o meno per paura di risultare invadente.


“Stai bene?”


Domandò, infine.
<< Sì, io…io… >> mormorò l’altro un po’ troppo precipitosamente. Per un’infinitesimale frazione di secondo sembrò voler dire qualcosa, ma poi cambiò strada << …ci dev’essere una connessione tra loro. Garcia ha cercato sui registri telefonici, ma finora non ha trovato niente. >>


“Hai saltato sulla sedia.”

Gli fece notare la donna che, come JJ, era ben in grado di vedere oltre i miseri tentativi di un adolescente – almeno per lei – di nascondersi agli occhi e al giudizio altrui.
Spencer esitò, tenendo gli occhi inchiodati al fascicolo, per poi muoversi sulla sedia e dondolare la testa, come fa chi ha qualcosa da dire e fa fatica a tenerselo dentro.

<< E’ che…ultimamente soffro di questi mal di testa molto intensi.. >> sussurrò, infine, riluttante, girando la testa verso di lei, fissandola con gli occhi grandi, da cerbiatto, come se non sapesse che reazione aspettarsi.
Emily corrucciò lo sguardo.


“Sei andato dal dottore?”


Si informò subito.
Spencer pensò che sembrava un po’ una mamma e forse era per questo che con lei aveva ceduto subito.
<< Sì, da diversi. Nessuno è riuscito a giungere ad una conclusione. >>
Non era esattamente così. Ma non se la sentì di aggiungere altro…anche perché, ne era certo, Emily avrebbe fatto subito il collegamento con la schizofrenia di sua madre.


“Mi dispiace…”

La mora sembrava preoccupata ed era chiaro che stava scegliendo con cura le parole, domandandosi se fosse meglio affrontare direttamente l’argomento oppure di lasciar perdere.
Decise di optare per la seconda opzione, conscia che la prima avrebbe fatto andare Spencer sulla difensiva.

"L’hai detto a qualcuno?”

Si diede una rapida occhiata attorno, come per abbracciare con lo sguardo i colleghi di Quantico, mettendoli, così, sulla lista di potenziali eletti scelti dal ragazzino.


“A te.”

Non era preparata a quella risposta.
Spencer la fissò a lungo, con sguardo quasi penetrante, quasi si rendesse conto della portata di quella semplice affermazione e volesse valutare analiticamente le reazioni dell’amica.
Emily si sentì a disagio, incerta se essere lusingata o spaventata.
La prima perché, a quanto pare, era l’unica a rientrare nelle preferenze di Spencer. La seconda perché non era sicura di essere in grado di portare avanti quel tipo di responsabilità.


“…Non lo dirò a nessuno.”

Lo rassicurò, infine, domandandosi la ragione per la quale si sentisse così in dovere di tenerlo sotto la sua ala.
Concluse che, essendo donna, aveva un naturale istinto alla maternità. E Spencer sarebbe stato in grado di tirare fuori la maternità anche da un sasso.


“…Lo so.”

Le risposte con semplicità, dopo uno o due secondi di pausa. In quel momento la sua voce sembrò quasi vellutata, come se avesse sospirato, nel parlare. Forse si era davvero tolto una piccola parte di quel peso fin troppo gravoso, per poter essere sopportato da quelle esili spalle.
Emily Prentiss annuì, contenta, in parte, di essere riuscita a superare il test a cui Spencer l’aveva sottoposta.



<<
Reid? >>

<<
Se ne sono andati. >> proruppe il giovane, ritrovandosi a fissare il pavimento con aria totalmente assente.
Derek Morgan sembrò non cogliere il senso di quell’affermazione che, a lui, sembrava tanto chiara.

Derek Morgan era un tipo pratico, a cui piaceva arrivare subito al sodo della questione.

<< Che stai dicendo, Reid? >> sospirò, trattenendo a stento l’istinto di afferrare l’altro per le spalle e scuoterlo fino a convincerlo a sputare fuori una risposta decente, possibilmente pertinente all’argomento.
<< Ti vuoi spiegare, una buona volta?! >> scattò subito dopo, allargando il braccio destro verso l’esterno e tenendo l’altra mano piantata sul fianco, come per dire “io sono qui, davanti a te, non c’è bisogno di guardare altrove per trovare risposte”.
Spencer sollevò lentamente lo sguardo, portandolo verso il petto di lui. Non se la sentiva di guardarlo in faccia.

Era molto vicino.

Fisicamente parlando era così vicino che, se si fosse proteso in avanti di qualche centimetro, avrebbe sicuramente potuto percepire l’odore di quella pelle ambrata.
<< >> Socchiuse le labbra, senza articolare nulla.
Derek sembrava insofferente, ma rimase perfettamente immobile, sebbene l’ira fuoriuscisse da ogni poro. Spencer pensò che lo avrebbe picchiato, se andava avanti così. Anzi, forse avrebbe già dovuto farlo.
Ma se Morgan era ancora lì, piantato davanti a lui, e non aveva optato per la scelta più semplice – ovvero, imboccare la porta e andarsene -, voleva dire che…che voleva davvero qualcosa, da  lui.
Voleva risposte.

E lui gliele avrebbe date.

<<
…Tu…cosa mi vuoi dire? >> mormorò semplicemente, con voce soffocata dall’intensità emotiva risvegliata da quei ricordi.
Derek fece cadere il braccio lungo il fianco e lo studiò in volto, come per cercare gli ultimi rimasugli di intelligenza rimasti.
Come sarebbe a dire: cosa mi vuoi dire?
Gli era sembrato di esser stato abbastanza chiaro, nel biglietto.

<<
…Non amo ripetermi, Reid. >> sibilò con lentezza, ben sapendo che l’altro non aveva bisogno di sentirsi ripetere cose che la sua memoria eidetica aveva già memorizzato più che bene.
Spencer annuì impercettibilmente, stringendo le labbra, come se avesse già previsto quella risposta.
Sbatté le palpebre, prima di riprendere.
<< Quindi…tu…mi…mi vuoi? >> domandò flebilmente, per niente convinto. Staccò le mani dalla scrivania e le portò sul davanti, all’altezza dello stomaco, tornando a tormentarsi le lunghe dita.

Derek rimase impietrito, a quella domanda così diretta.
Era una domanda brutta, quella.
Perché non aveva idea di come rispondere.
Forse, in un’altra occasione, si sarebbe messo a ridere, nel notare l’imbarazzo di Reid.
In quel preciso momento, però, provava uno strano senso di angoscia.
<< …Reid, non scherzare… >> tentò di sviare, dando poca importanza a quella parte di conversazione.
Ma la reazione del collega fu istantanea: sollevò di colpo lo sguardo, senza smettere di tirarsi le dita della sinistra con la destra, e lo fissò con occhi allargati, dalle pupille dilatate. Lo sguardo che gli lanciò avrebbe spaccato in due un blocco di marmo.
Durò molto, molto poco.

Un istante dopo, Spencer era tornato ad abbassare lo sguardo, in maniera quasi colpevole, ma Morgan aveva continuato a percepire in sé la scarica statica di quell’occhiata.
Preso in contropiede, osservò il profilo del più giovane, rimanendo sorpreso nel constatare che, sì, forse l’altro non aveva sbagliato di tanto il colpo. Forse lo voleva. Ma aveva bisogno di tempo per capirlo.
<< …intendi… >> rimase in silenzio un attimo, per cercare le parole adatte. Non ne trovò e quindi si limitò a sospirare, scuotere la testa e rispondere << Se intendi sessualmente…non lo so. >>
Spencer annuì immediatamente, a quella risposta, facendo sfumare sul viso un’espressione ponderata che aveva sempre quando stava riflettendo intensamente su qualcosa.
Mosse le dita come se stesse girando un anello invisibile attorno all’anulare sinistro.
<< Come pensavo. >> mormorò a bassa voce.
Derek dovette sforzarsi per sentirlo.
<< Cos… >> cominciò, confuso, cercando spiegazioni a quella domanda.
<< Ti capisco, sai? E’ normale…non provare attrazione verso di me…cioè…fossi in te, probabilmente, direi la stessa cosa. >> lo interruppe Spencer, quasi precipitosamente.
E l’altro colse una strana amarezza, in quella frase.
<< Reid, questo non è vero… >> si sentì stupido ad avergli dato quella risposta, ma non sarebbe mai stato in grado di spiegargli che, in realtà, non voleva nemmeno pensarci, all’attrazione fisica. Pensarci significava rendere la cosa parzialmente reale. Parlarne, poi, l’avrebbe resa definitivamente reale.
E lui non era pronto, per questo.
<< Sì, sì, le solite cose: non sminuirti, sei troppo categorico, bla bla bla bla>> biascicò l’altro, gesticolando per aria, come per scacciare mosche fastidiose.
Derek lo fissò con gli occhi sgranati. Non aveva mai visto Reid fargli il verso.
Non pensava fosse capace di quel tipo di ironia.
<< Sai cosa penso? >> riattaccò l’altro all’improvviso, sollevando lo sguardo e raddrizzandosi contro la scrivania – gli si era addormentata una parte del fondoschiena -, cercando, al tempo stesso, di non sfiorare l’altro << Penso che chiunque abbia occhi per guardare e possegga un cervello in grado di interpretare gli impulsi visivi, possa facilmente giungere alle tue stesse conclusioni che, anche se non vuoi rivelare, per buona educazione o che altro – non mi interessa -, sono le stesse a cui giungo io ogni volta che mi capita di guardarmi allo specchio. >> sbatté le palpebre e sorrise quasi dolcemente, di fronte all’espressione basita di Derek.
<< Cosa? Pensi che non sia in grado di farmi un’autoanalisi? >> domandò di nuovo, fortemente ironico.
Aspro.

<<
>> Derek aprì e chiuse la bocca senza riuscire a connettere il cervello e parlare.
Spencer aveva già mostrato un certo…caratterino, in determinate situazioni…ma mai con lui. Aveva avuto qualche problema con Prentiss, certo, ma era in un periodo particolare della sua vita e lei era la più attaccabile perché nuova.

<<
Ora, la mia domanda, Morgan, è solo una. >> lo guardò fisso negli occhi, mostrandogli l’indice, come per sottolineare che l’intera questione si basava su quell’unica domanda.

<< Quando? >>

Il nero lo guardò con ostentata confusione.
Spencer gli diede il tempo di riprendersi. Poteva ben capire che vederlo scattare così, dopo che si era costruito la fama di mite per eccellenza, creava degli scompensi.
<< Quando…? Cosa, quando? >> domandò, infine, Derek, cercando di soffocare il più possibile l’esitazione nella voce. Non riusciva a capire dove l’altro volesse andare a parare. Mantenne lo sguardo su quel viso pallido, pulito, caratterizzato da tratti leggermente infantili, induriti dalla determinazione del momento.
Si rese conto di quanto Spencer sembrasse giovane. Ancora più giovane della sua età. Aveva ventisette anni, ma, per lui, ne avrebbe sempre dimostrati ventiquattro.
Il ragazzino addolcì i lineamenti, come se fosse rimasto intenerito dal disorientamento di Derek.
<< La mia domanda è: quanto tempo ci impiegherai, tu, ad andartene? >>
Il tono di voce quasi mellifluo ed il leggero sorriso nato sulle labbra, ebbero la capacità di dare un significato particolarmente minaccioso, alla domanda.

Andarsene?
Perchè avrebbe dovuto andarsene? Dove?

<< Sinceramente, non capisco dove vuoi arrivare… >> sospirò, il collega, cominciando a sentirsi veramente stanco.
<< Se ne vanno tutti, Morgan. Tutti. Senza eccezione. >> il sorriso di Spencer si allargò ulteriormente.
<< Reid, di chi stai parlando? Perché dovrei andarmene? >>
Derek fissò il sorriso dell’altro, sentendosi in parte assoggettato ad esso.
Pensò che non aveva mai visto un sorriso più strano.
Statico.

<<
Se ne vanno tutti e tu non fai eccezione, Derek Morgan. >> continuò l’altro.
Il modo in cui marcò il suo nome gli fece venire in mente Garcia.
<< Non ti attraggo fisicamente e, fidati quando ti dico che non ti attiro nemmeno mentalmente. >> esitò un istante, prima di continuare.
Il sorriso si spense di colpo. Brutto segno.
<< E’ solo un capriccio. Vuoi quello che non puoi avere e lo vuoi subito. Per questo mi hai scritto quel biglietto? Per renderti più convincente? Non sono una ragazzina sprovveduta che crolla ai tuoi piedi non appena mi mostri il tuo sorriso. >> un fiume di parole cominciò ad uscire dalle labbra del profiler che, man mano che parlava, sembrava alterarsi sempre di più.
Derek, dal canto suo, lo fissava come se all’improvviso gli fossero spuntate delle antenne sulla testa, ben conscio del fatto che se Spencer gli fosse saltato addosso, offrendosi su un piatto d’argento, si sarebbe sentito di gran lunga meno sconvolto.
Almeno, in una situazione come quella, avrebbe saputo reagire.
Era convinto di essersi perso un pezzo, comunque.
Come aveva fatto, Reid, a passare da uno stato di calma pacifica ad uno di incazzatura galattica nel giro di poco più di una manciata di secondi?
Non sapeva cosa dire, ma sapeva che doveva assolutamente intervenire prima che la faccenda degenerasse. Almeno, con le donne era così: se si sentivano sicure e cominciavano a prendere piede nessuno era più in grado di fermarle.
<< Aspetta…che… >> cominciò, sollevando le mani, come per farsi scudo da quelle parole.
Ma Spencer non sembrava essere propenso a lasciarlo parlare, anzi, sollevò addirittura la voce e portò di nuovo indietro le mani, poggiandole con un tonfo alla scrivania.
<< Ma quanto tempo resisteresti, con me? Quanto tempo ci metteresti a scappare? >> fece una pausa, aprendo e chiudendo la bocca come se, improvvisamente, gli fosse sparita la voce << E anche se tu volessi restare con me…te ne andresti…spariresti anche tu.. >> la voce gli si incrinò improvvisamente e abbassò il viso << Non… >>


<<
MALEDIZIONE, SPENCER! >>

Il ringhio minaccioso e l’improvviso fracasso della tazza di thé che si spaccava contro il pavimento, ebbero il potere di annichilire del tutto il ragazzino.
Il cuore gli balzò in gola con una tale violenza da fargli temere un infarto. La vista gli si annebbiò, le ginocchia gli cedettero di schianto, tanto che fu costretto a far forza sulla scrivania, per rimanere in piedi.
Nella sua mente rimbombava un solo e unico pensiero: Derek si è arrabbiato. Stavolta sul serio.
Non riuscì a guardarlo in faccia e si concentrò a cercare di rallentare la respirazione senza, per altro, riuscirci.
Cercò di deglutire.
Anche quello fu difficoltoso, ma solo perché sentiva uno strano groppo fermo nell’esofago. Gli dava l’impressione di aver ingoiato una manciata di fazzoletti di carta.
Spostò lo sguardo verso sinistra e lì, per terra, non troppo distante dal suo piede, c’erano i resti della tazza, insieme ad una pozza semitrasparente di liquido ambrato. Si accorse di vedere sfocato e sbatté le palpebre, accorgendosi solo in un secondo momento che non era il panico ad offuscargli la vista…bensì le lacrime.

<<
Adesso parlo io e tu aprirai bene le orecchie, ragazzino! >> la voce aggressiva di Derek gli aggredì nuovamente l’udito, facendogli socchiudere gli occhi, in segno di automatica remissività. Ebbe cura di tenere giù la testa e, sebbene la tentazione di pulirsi via le lacrime dagli occhi fosse forte, rinunciò a farlo, semplicemente perché non riusciva a muoversi. Ogni suo arto, ogni suo muscolo era come intorpidito dalla paura.
<< Se credi che per me sia stato facile scrivere un biglietto simile, ti sbagli di grosso, mio caro! Pensi che sia solo un ragazzo viziato che si diverte a mirare prede impossibili per farle cadere ai suoi piedi e poi buttarle via?! Mi credi davvero capace di una cosa simile? Hai proprio sbagliato persona, ragazzino! Pensi che io sia immaturo a reagire così? Beh, allora conosco qualcun altro che mi può fare un’ottima concorrenza. Scendi da quel dannato piedistallo su cui sei salito e vedi di aprire gli occhi e focalizzare l’attenzione oltre le mura del tuo piccolo mondo e allora – solo allora – ti accorgerai che la realtà che ti circonda è composta da persone che hanno sofferto e soffrono come, e, forse, più di te! >>
Le parole di Derek erano fredde. Dure. Severe.

Con un sussulto al cuore, Spencer si rese conto solo in quel momento che, se mai Derek avesse provato davvero qualcosa per lui, quel qualcosa, di qualunque natura fosse, era sicuramente sparito.

Spazzato via
.

Ed era stato lui.

Era tutta colpa sua.

Il nodo alla gola divenne tanto intenso da fargli pensare che non se ne sarebbe mai più liberato.
La pressione alle tempie aumentò.
Il silenzio si estese tra di loro.
Un silenzio brutto. Di attesa.
Un attesa che, si sapeva, avrebbe portato inevitabilmente alla distruzione.
Sia Spencer che Derek sembravano non sapere più cosa dire. Cosa aggiungere. Come spiegarsi.
Era chiaro che non sarebbero mai riusciti a capirsi.
E ora, il vuoto li divideva.
Non si sentiva nemmeno più il ticchettio della pioggia contro il vetro.

Il nero aveva il cuore in tumulto.
Moriva dalla voglia di fargli capire quello che realmente provava a quel ragazzo diffidente che aveva davanti, ma non sapeva come fare. Avesse potuto, avrebbe trasferito ogni singolo sentimento nel cuore dell’altro, pur di fargli anche solo vagamente intuire qual era la portata del legame che lo aveva spinto ad agire in quel modo così poco da lui.
Era frustrato.
Ed era anche furioso.
Di quella furia che deriva dalla delusione. Spencer, tra tutti, era quello che lo conosceva meglio e se ne era uscito con quelle espressioni infelici nei suoi confronti.
Come poteva pensare cose simili, di lui?
Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, in quel momento.

Mentre osservava il capo chino dell’altro, si rese conto che, sì, aveva sbagliato.
Aveva sbagliato tutto, dall’inizio alla fine.
Aveva interpretato male quelle emozioni che gli ribollivano dentro.

Non provava niente, per Spencer Reid.

<< …lasciamo perdere…penso che sia un bene per entrambi… >> commentò lentamente, a voce bassa, molto più pacata rispetto a prima, come se tutta l’ira che provava si fosse concentrata e neutralizzata nei semplici gesti di spaccare quella tazza e di investire l’altro di parole.
Gli occhi scuri non abbandonarono mai il collega più giovane.
Lo vide rimanere immobile per diversi secondi, aggrappato alla scrivania come un naufrago al proprio legno.
Poi Spencer sembrò recepire le parole che aveva detto e sollevò appena la testa, evitando con un accuratezza invidiabile il suo sguardo. Alzò la sinistra, staccandola dalla scrivania quasi con sforzo, e se la portò al viso, come per grattarsi un occhio, riavviarsi la frangia, o…

…asciugare delle lacrime
.

Alla fine, il ragazzino alzò completamente lo sguardo e lo fissò più o meno apertamente, tirandosi indietro le ciocche castane con la stessa mano. Rimase immobile per un istante, con la mano sulla testa e i capelli tirati indietro.
Derek ebbe una chiara visione del suo volto.

Un sorriso opaco e un << Ok… >> stiracchiato, misero fine a quel discorso. Al quel breve, seppur intenso, capitolo della loro vita.
E, in un attimo, i pochi centimetri che li separavano erano divenuti miglia.
Derek osservò l’altro sfilarsi da quel piccolo interstizio che aveva occupato fino a quel momento, scavalcando con un’insolita e silenziosa grazia i pezzi di ceramica frantumati.

Era la cosa più giusta.

Non poteva andare diversamente.

Spostò lo sguardo verso la scrivania vicina a quella di Reid.
Una volta era di Emily Prentiss.
Si ricordava chiaramente di quella che era stata una collega e un’amica.
Una profiler più che in gamba, che aveva nascosto per anni più di quanto tutti loro potessero sospettare.
Gli ultimi momenti trascorsi con lei erano impressi a fuoco nella memoria di Morgan.

Che fine ha fatto, Derek?

Era morta.

Alzò gli occhi, trovandosi a guardare anche gli uffici messi in fila, di Jennifer Jerau, Aaron Hotchner e David Rossi.
Quello di Jennifer Jerau – detta JJ – era vuoto.

Perché?


Era stata trasferita.
Era stata costretta a lasciarli.

E l’ufficio di David Rossi di chi era, prima?

Era stato di Jason Gideon, il mentore di Spencer.
Il mentore di un po’ tutti, a dire il vero.

Si volse a guardare la schiena di Spencer, che si stava chinando in avanti, davanti alla scrivania, così vicino a lui che avrebbe potuto sfiorarlo muovendo il braccio di pochi centimetri.
Lo vide chiudere il libro con il biglietto infilato in mezzo. Poi lo osservò raddrizzarsi e, senza guardarlo, girarsi con il chiaro intento di allontanarsi.

Spencer aveva pianto, alla morte di Emily.
Aveva ceduto sotto il peso della consapevolezza di aver perso l’ennesimo sostegno e si era letteralmente sciolto.

Si rese improvvisamente conto che, come non avrebbe mai dimenticato le ultime parole scambiate con Emily, allo stesso modo non avrebbe mai dimenticato la sensazione che aveva provato nel vedere Spencer abbracciare JJ, alla ricerca anche solo del misero, antico, bagliore di sicurezza che lei riusciva sempre ad infondergli quando lavorava con loro. E non avrebbe mai dimenticato quelle lacrime trasparenti che gli scivolarono giù, lungo le guance scavate.

Spencer si girò verso l’uscita.
Quella giornata era finita, finalmente.
Una giornata lunga, stressante e poco fruttuosa, in un certo senso. Si sentiva svuotato.
Mosse un paio di passi verso la porta a vetri che lo avrebbe condotto all’ascensore, ma si fermò è ritornò indietro, verso la scrivania.
Si appoggiò con una mano al piano di legno e si piegò ad afferrare la tracolla della borsa che si portava sempre appresso, che era rimasta per tutto il giorno seminascosta vicino al cestino.
Si rendeva perfettamente conto di dare l’impressione di uno che si muoveva con l’imbarazzo di chi avrebbe voluto essere da tutta altra parte, piuttosto che lì.
In quel momento niente lo avrebbe messo più a disagio che stare nella stessa stanza con Derek.
Si sentiva male.
Mortificato e ferito.
Decise che, prima di uscire, si sarebbe fermato un momento al distributore di bevande per prendere una bottiglia d’acqua…magari sarebbe riuscito a buttare giù quel nodo che gli serrava la gola insieme a tutta l’amarezza che quella giornata gli aveva messo dentro.
Si raddrizzò e si appese la borsa alla spalla destra. Allungò la mano, con l’impulso di spegnere la luce della scrivania, ma si trattenne, non sapendo cosa volesse fare il collega.
Chi occhi verde scuro gli caddero sul libro, chiuso, sopra i fascicoli.
Lo prese.


“Prova ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.”


Lo sguardo guizzò in alto, oltre la salita, verso l’ufficio di David Rossi che, una volta, era stato di Jason Gideon. Per un attimo gli parve di vedere la sua sagoma sulla soglia, che gli sorrideva rassicurante.
Tirò su col naso e si girò verso Derek che, immobile, teneva lo sguardo fisso sui frammenti di tazza per terra, come se in essi potesse trovare la speranza di ricostruire qualcosa.
Qualcosa di buono.
Un momento, un frammento, una vita.
I pugni serrati lungo i fianchi comunicavano un senso di rabbiosa rassegnazione. E orgoglio.
In ogni caso, Spencer sapeva che non appena avesse varcato quella soglia a vetri, tutto sarebbe tornato come prima e la sua famiglia sarebbe rimasta integra e protetta.
Guardando Morgan e i frammenti di ceramica, si sentì orribile. Si sentì come un distruttore.



“Avevi ragione. Non serve un’arma, per uccidere.”



No.
Molto spesso bastano solo le parole.
Azioni.
Gesti.
Sguardi.
Persino il silenzio.
Talvolta erano proprio le cose non fatte, che uccidevano.
E se il sangue era l’unico sfogo di una ferita fisica, le lacrime erano l’unica soluzione per lenire il grido silenzioso dell’anima.


Derek volse la testa e seguì con lo sguardo la figura di Reid che si allontanava.
Si staccò dalla scrivania e, semplicemente, gli andò dietro, raggiungendolo nel giro di due passi.



Non sapere cosa si prova è diverso dal non sentire nulla…”



Allungò la mano e lo afferrò per il braccio destro, all’altezza del gomito.
Con uno strattone, nemmeno tanto forte, lo convinse subito a girarsi verso di lui e la borsa gli cascò giù dalla spalla, fermandosi sulla mano di Morgan che, senza commentare, la prese e la sfilò dal braccio dell’altro, facendola cadere a terra con un tonfo secco, senza troppo riguardo.

Spencer lo guardò.

Sorpreso.
Triste.
Allarmato.

Gli occhi, seminascosti dalle ciocche di capelli che ricadevano davanti al viso, erano resi languidi da lacrime represse che, probabilmente, mai avrebbero trovato sfogo.
Con un gesto lento, quasi calcolato, Derek passò la sinistra tra le ciocche castane, tirandole indietro con estrema calma, scoprendo con lentezza ogni centimetro di quel viso.
Un bel viso, realizzò in quel momento.
Lo osservò.
Lo analizzò con una tale accuratezza da mettere a disagio il giovane profiler che, insicuro, tentò di indietreggiare di un passo.
Tornò a stringerlo per il braccio, in modo da impedirglielo, mentre affondava gli occhi neri in quelli più chiari di lui.
<< Non piangere… >> bisbigliò, quasi un sospiro che si dissolse istantaneamente, raggiungendo a stento le orecchie dell’altro.
<< Non lo faccio… >> si sentì sussurrare, in risposta.
Derek fece scivolare via la mano dai capelli, scendendo ad accarezzargli delicatamente la guancia incavata.
<< Ma vorresti. >> sfiorò con il polpastrello del pollice le ciglia nere, bagnate di frammenti di lacrime trattenuti e imprigionati. Catturò una singola gocciolina salata, che si disperse subito, a contatto con la sua pelle, quasi fosse stata assorbita.
Scese, con le dita, ad accarezzare la linea delicata del naso, accorgendosi solo in quel momento di quanto fosse fine.
Perse qualche secondo ad osservarlo e, alla fine, arrivò alle labbra.
Delicate. Rosate. Di certo non molto carnose, ma perfette nella loro armonia.

Erano belle…

Derek non seppe dare un senso, a quello che provava.
Ma, in quel momento, comprese che non aveva importanza nemmeno quello.

Come si bacia un uomo?

Osservò quella bocca, critico.
Ci passò sopra il pollice, guardandola sbiancare là dove toccava.
Spencer non si mosse, ma Morgan poté facilmente percepire il battito cardiaco accelerare, grazie alle altre dita piazzata in prossimità della giugulare.
Notò che le labbra non si ricolorivano immediatamente, come facevano quelle di quasi tutte le donne che aveva incontrato e conosciuto.
Queste facevano fatica a tornare del loro colore originario, come se non ci fosse abbastanza sangue nel corpo.
Queste erano diverse.

“Un giorno capirai che cosa ti ha lasciato dentro.”


Ma come si bacia un uomo?
, si ritrovò a chiedersi per l’ennesima volta.
Sarà diverso che baciare una donna?
Senza sapere la risposta, rinsaldò la presa sul braccio tirandolo impercettibilmente verso di sé.
Passò di nuovo il pollice sulle labbra e sorrise appena.

Una donna avrebbe già saputo cosa fare.

Una donna avrebbe tirato fuori la punta della lingua, in risposta al suo tocco.
Un invito.
Spencer, invece, sembrava impietrito. Teneva le labbra leggermente socchiuse - più per respirare meglio, che per provocazione – e lo fissava con gli occhi grandi come piattini da caffè.
Era dotato proprio dello sguardo da cerbiatto smarrito.
Aveva la netta sensazione che, se avesse cercato di baciarlo, sarebbe svenuto.
Ma non gli importava nemmeno di quello.

Il ragazzino era incerto, riguardo alle intenzioni del collega.
Una parte di lui lo stava mettendo in guardia e gli stava suggerendo che non era un atteggiamento normale, quello.
Mantenne gli occhi fissi su Derek, cercando di regolare la respirazione senza andare in iperventilazione. L’altro sembrava completamente assorto, lontano mille miglia: dava l’impressione di star nuotando in una miriade di pensieri viscosi che lo tenevano imprigionato.
Spencer avvertiva chiaramente la presa sul braccio – abbastanza salda da convincerlo ad abolire ogni tentativo di allontanamento – e, se già di per sé la riteneva imbarazzante, non era nulla, se paragonata alla sensazione di disagio che gli trasmetteva quel singolo dito sulla bocca.
Cominciò a sentire caldo alla faccia e si domandò se stesse davvero arrossendo come una ragazzina o se si trattasse solo un’illusione.

Agisci prima che sia troppo tardi!

<< Ehm…Mo-Morgan… >> cominciò, con una voce così flebile che non era nemmeno sicuro di aver realmente parlato. In ogni caso, non aveva la più pallida idea di come andare avanti.
Derek, dal canto suo, lo ignorò sfacciatamente, forse perché troppo impegnato a registrare la sensazione delle labbra che si muovevano sotto il polpastrello.
Spencer si prefisse un nuovo proposito: cercare di parlare senza muovere troppo la bocca.

Tentò di inventarsi qualcos’altro da dire, ma l’altro lo distrasse cominciando a tastargli le labbra con decisione, ma con aria quasi guardinga, come se si aspettasse una reazione simil violenta.
Ne rimase infastidito.
Non erano mica pongo!
Se non fosse stato sull’orlo di un infarto, probabilmente avrebbe riso.
Vedere Morgan che giocava con la sua bocca come se non ne avesse mai vista una prima di quel momento, doveva essere uno spettacolo decisamente simpatico.
Avrebbe potuto anche prenderlo in giro a vita.
Ma la cosa meno simpatica, in quel momento, era il chiaro presentimento che gli stesse sfuggendo di mano la situazione.

Doveva fare qualcosa.

Contrasse il viso in una smorfia quando l’altro gli pressò con poca delicatezza il labbro inferiore.  
<< Ahia…! >> protestò, rauco a causa del groppo ancora presente in gola che, nel frattempo, sembrava aver deciso che stava troppo bene lì per levare le tende.
Un lampo di irritazione gli irrigidì i tratti, mentre cercava di ritrarre la testa, portando la bocca fuori dalle grinfie del nero.
L’atteggiamento di Derek era ambiguo, certo, ma aveva anche una spiegazione che a lui non piaceva: stava cercando di prendere coraggio.
La definizione corretta era: stava temporeggiando.
Ma sembrava sempre più sicuro ad ogni secondo che passava.
 << Morgan, basta. Devo andare. >> cercò di essere deciso, e tentò di indietreggiare di un passo ma, non appena il collega percepì quest’intenzione, la stretta al braccio si fece, se possibile, ancora più salda e lo attirò verso di sé, tanto vicino da lasciarlo senza fiato.
L’unica cosa che gli venne da pensare fu che il suo adorato spazio vitale, ormai, era andato a farsi decisamente benedire.
<< Mi fai male… >> tentò ancora, rilassando il braccio senza più tentare di liberarsi. Forse, in questo modo, l’altro avrebbe allentato la morsa.
Derek sembrò non sentire nemmeno una parola.
Non ce la faceva.
Non recepiva.

<<
Non puoi andartene… >> biascicò, invece, facendo scivolare la mano lungo la guancia liscia del più giovane.
<< Sì…anzi…devo>> Spencer strattonò improvvisamente, cercando di liberare il braccio, senza risultati.
Si stava agitando e l’altro ne comprendeva il motivo.
Sembrava ansioso di scappare.
Probabilmente era terrorizzato. Ma non da lui. Non da quello che avrebbe potuto fargli.
Era la prospettiva di veder cambiare il loro rapporto, a fargli paura.
Sospirò, guardando quello che, per lui, era ancora un ragazzino.
Strano ma vero, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sua bocca per più di qualche secondo. Sembrava ipnotizzato.
Osservò il viso pallido e provato da un dolore a stento trattenuto…e capì cosa doveva fare.

Abbassò lo sguardo sul libro che l’altro teneva ancora in mano.
Lo afferrò e glielo tirò via, per poi lasciarlo cadere a terra, come la borsa. Senza riguardo.
Il libro si aprì su delle pagine a caso e il biglietto, scritto da Derek stesso, scivolò lateralmente di qualche centimetro, lasciando intravedere di sé solo un triangolino candido.
Spencer guardò il volume sul pavimento con espressione a metà tra l’allibito e lo sconcertato. Era chiaro che il suo cervello – che di solito era dotato di una fluidità di pensiero fuori dal comune – si era inceppato.
<< Scusami… >> gli sussurrò Derek all’orecchio.
Spencer volse lentamente lo sguardo verso di lui, senza, tuttavia, mostrargli il viso intero, ma continuando a tenerlo ruotato di qualche grado verso destra.
<< …. >> intuiva che quello “scusami” era riferito, sì, alla situazione di prima, ma anche a qualcos’altro << ...per cosa..? >> bisbigliò, esitante, in risposta.

La risposta arrivò subito dopo.

La mano di Derek si spostò dalla guancia alla gola, con delicata scioltezza, e applicò una pressione lieve, ma decisa, verso l’alto, in modo da fargli sollevare appena il viso.
<< Mor… >>
Derek inclinò la testa verso sinistra e azzerò la distanza che separava i loro volti.
Spencer non si rese conto immediatamente di quello che stava succedendo.
Sapeva solo che, ad un tratto, il viso di Morgan era così vicino che poteva tranquillamente percepire l’odore maschile della sua pelle.
Socchiuse gli occhi, cercò di parlare e, paradossalmente, fu solo in quel momento che si rese improvvisamente conto di avere la bocca…impegnata.
Ordinò alle proprie gambe di muoversi: niente.
Provò con le braccia: niente.
Il cuore cominciò a pulsargli così forte da fargli male e poté percepire il sangue scorrere in ogni singola vena e arteria del corpo, informicolando le estremità degli arti.
La cosa peggiore erano i pensieri.
Non riusciva a concludere nulla di sensato.
Non era nemmeno sicuro di star pensando qualcosa – il che, già di per sé, era grave -.

In conclusione: Derek Morgan lo stava baciando e lui non aveva la benché minima idea di cosa fare.


Derek, dal canto suo, riteneva di essere ben lontano dal bacio vero e proprio, come lo intendeva lui.
La vicinanza a Spencer gli trasmise una sorta di scarica elettrica in tutto il corpo che gli rese difficile trattenersi dallo stringerlo a sé con più forza.
Si accorse che il ragazzino non aveva odori.
Per meglio dire, era come se la sua pelle non avesse mai conosciuto un profumo.
Era completamente naturale.
Mosse molto lentamente le labbra sulle sue, schiudendole appena e richiudendole, con il solo scopo di assaporarle, e intanto inspirò a fondo.

Sì, aveva un odore fragile, forse leggermente alterato da quello del detersivo usato per lavare la camicia.

Non ne era sicuro, ma avvertì chiaramente il bisogno di sentire Spencer in ogni sua parte.
Per sopraffare quell’impulso che, di certo, avrebbe avuto esiti a dir poco disastrosi, premette più forte le labbra contro quelle dell’altro, concentrandosi con tutte le forze su quello che sentiva.
Paragonò le sensazioni a quello che aveva provato tante volte con delle esponenti del sesso femminile.
Qual era la prima differenza che gli veniva in mente?

L’assenza di rossetto, lucidalabbra e burro di cacao vari.

Questo, a sua volta, cosa implicava?

L’assenza del gusto dolciastro e pastoso, tipico di quei prodotti.

Sì, perché, di norma, un maschio, quando baciava una donna tentava sempre di “mangiarsi” letteralmente il rossetto per poter arrivare al reale gusto delle labbra.
Ovviamente erano tutte vane speranze, specialmente perché alcuni rossetti sembravano esser fatti proprio per resistere agli assalti maschili.

Le labbra di Spencer non erano così.

A dire il vero, le labbra di Spencer non avevano assolutamente nulla di speciale.

Ma erano belle.

Più belle e saporite di tutte le labbra che aveva avuto modo di assaggiare e guardare fino a quel momento.
Non avevano un gusto particolare, ma erano addolcite, probabilmente, dal thè zuccherato che aveva bevuto prima.
Si trattenne dal sorridere e mosse le dita in alto, verso la guancia, seguendo la linea netta della mascella.

Solo a quel punto si rese conto che Spencer sembrava impietrito.
Non aveva praticamente fatto caso al fatto che non aveva nemmeno mosso le labbra - a parte all’inizio, per la sorpresa probabilmente - e che, tutt’ora, le aveva rigide.
Ogni muscolo di quell’esile corpo sembrava essere sul punto di spezzarsi, a causa della tensione.

…forse, in effetti, aveva anche smesso di respirare da un po’.

Conscio del fatto che, se non si fosse fermato, di lì a breve si sarebbe trovato a sostenere il peso morto dell’altro, assaporò per un’ultima volta quella bocca immobile e si distaccò lentamente, riaprendo gli occhi.
Fu come svegliarsi da un sogno.

Spencer, però, non sembrò pensarla allo stesso modo, perché, non appena l’altro si staccò, lo guardò a lungo, in maniera inquietantemente fissa.
Non si era mosso di un millimetro.
Derek cercò in tutti i modi di rimanere serio.
<< …respira. >> gli suggerì, dandogli una stretta al braccio, nel tentativo di riscuoterlo dal suo stato catatonico.
E Spencer lo fece.

Come il vecchio motore di un mezzo di trasporto, che ha bisogno di essere incoraggiato a partire, così, il ragazzino, boccheggiò tre, quattro volte, per poi inspirare a fondo ed espirare subito.
Ripeté quel processo di ossigenazione per qualche istante, mentre i polmoni cercavano di riprendersi.
A quel punto, Morgan rise e si beccò, in risposta, un’occhiata risentita.
La furia che aveva percepito fino a pochi attimi prima sembrava essersi letteralmente dissolta nel nulla. Quel bacio aveva avuto il potere di…alleggerirlo, in un certo senso.
<< Perché…? >> sussurrò Reid.
Derek lo guardò in volto, tornando serio.
<< Perchè…questo bacio…? Devi essere più confuso del previsto… >> la voce di Spencer tremava impercettibilmente.
Che cosa devo fare?, urlava la sua mente, in continuazione.
<< Non sono confuso…e penso che tu lo sappia. Anzi…penso che tu stia cercando di rifiutarmi perché hai paura di quello che potrebbe succedere se ti lasciassi andare. >>
Il ragazzino distolse lo sguardo, allontanandosi dalla mano di Derek che gli accarezzava la guancia.
<< >> per un attimo sembrò non sapere cosa dire << …devo proteggere la mia famiglia, Derek…non puoi chiedermi questo. >> soggiunse, infine, con voce flebile.

L’aveva chiamato Derek, esattamente come lui l’aveva chiamato Spencer quando si era arrabbiato.
<< Non farei nulla che possa nuocerti… >> sussurrò il nero.

Nulla che possa nuocerti.
Non me ne andrò. Non mi allontanerò da te, credimi.

Spencer sollevò lo sguardo, lentamente.
Sorrise e una lacrima gli scivolò lungo la guancia sinistra.

Derek realizzò in quel momento che quello era il sorriso più triste che avesse mai visto, durante tutti i suoi trenta e passa anni di vita.
E realizzò anche quanto gli facesse male vederlo piangere di nuovo.
Una lacrima di puro dolore.

Lo stava uccidendo lentamente.

Gli occhi di Spencer sembravano particolarmente scuri, in quel momento. Ma il messaggio che cercavano di inviare era chiaro come il sole e bruciante come fiamma viva.

Smettila, ti prego.

Lo stava implorando di smetterla, perché la sofferenza che avvertiva nel doverlo rifiutare aveva la capacità di fargli sanguinare il cuore.

Derek Morgan capì.
Aprì la bocca per parlare, ma si trovò la gola tanto chiusa che a stento riusciva a respirare…e poi, comunque, non avrebbe saputo cosa dire.
Abbassò lo sguardo, rendendosi conto di stare ancora stringendo il gomito del più giovane. Allentò del tutto la presa e risalì lungo il braccio fino alla spalla, per poi tornare giù, in una lenta carezza.

Vorrei poter fare qualcosa.

Ma non poteva fare nulla.

Nulla, se non fargli sentire la sua vicinanza.

Con la sinistra tornò ad accarezzargli il viso emaciato e pallido.
Sembrava decisamente provato.
Gli deterse via la lacrima che, tuttavia, fu presto sostituita da altre due.

Non aveva espressione, Spencer.
Pareva piangere dolore puro, senza contrarre in alcun modo i lineamenti, come se si limitasse a lacrimare.

Dio, quanto gli faceva male vederlo così.

Morgan distolse le sue attenzioni dal braccio e gli fece scivolare la mano dietro la schiena, con lentezza, attirandolo a sé.
La distanza che li teneva separati svanì e i loro corpi entrarono in contatto.

 Quindi…tu…mi…mi vuoi?
La domanda che gli aveva posto prima Spencer gli rimbombò in testa.
Solo allora si rese conto che avrebbe voluto rispondere “Sì, da morire”.
L’attrazione mentale, prima o poi, si riflette sempre su quella fisica.

Gli accarezzò la guancia, bagnandosi le dita di altre gocce salate.
Poi reclinò la testa verso sinistra e gli fece scivolare la mano tra i capelli lunghi, in modo da non farlo fuggire.

Nessun bacio scambiato con una donna l’aveva mai fatto sentire così triste, angosciato e realizzato nello stesso momento.
Dischiuse le labbra e assaggiò per la seconda volta quelle di Spencer.
Questa volta non lo avrebbe lasciato andare.
Un brivido gli corse lungo la schiena nel momento in cui cominciò ad applicare una leggera pressione, tentando di schiudere la bocca dell’altro con la sua. Ma Spencer sembrava essersi di nuovo irrigidito.
Lo sentì cercare di ritrarre la testa e aumentò appena la pressione sulla nuca, senza esagerare.
Applicò una forza di contrasto sufficiente a trasmettergli un senso di possessività, ma non abbastanza da farlo sentire obbligato o costretto, senza via di fuga.

No, non ti farò scappare.

Poi percepì la mano del ragazzino stringersi in maniera sorprendentemente salda attorno al braccio con cui gli aveva circondato la vita sottile, quasi come se fosse lì lì per piantarci le unghie.
A quel punto, si distaccò a malincuore da quella bocca, riaprendo gli occhi.
Spencer lo fissò a sua volta, con il respiro corto e uno sguardo strano. A metà tra la rassegnazione, la stanchezza e l’astio.
Mosse le labbra come per parlare, ma non gli uscì nulla, in un primo momento.
Poi sembrò tirare fuori un sospiro che, solo dopo essere stato emesso sembrò concretizzarsi in una parola che a Morgan parve essere “aspetta…”.
Non ne era sicuro e non voleva accertarsene.

No che non aspetto…

Rinsaldò la presa attorno alla vita, stringendoselo addosso, trasmettendogli con più chiarezza il senso dell’impossibilità della fuga.

Poi lo baciò di nuovo.

E, questa volta, Spencer rispose immediatamente.
Infatti, non appena Derek applicò una leggera pressione, lui socchiuse diligentemente le labbra, esitante.
Il nero si trattenne di nuovo dal sorridere.
Pensò, con amarezza, che era il bacio più inesperto che avesse mai sentito in vita sua.
Nonostante Spencer avesse già baciato Lyla – anche se non era mai stato accertato era chiaro come il sole quello che era successo – dava la netta impressione di essere totalmente vergine sotto ogni punto di vista.
Derek mise a tacere il tumulto nel suo cuore e inspirò a fondo il delicato odore del più giovane, prima di approfittare di quel misero accesso che gli veniva dato.
Sapeva che quelle erano fasi cruciali.
Anche se, razionalmente, sapeva che non ci dovevano essere particolari differenze nel baciare un maschio, anziché una femmina, un lieve senso di inadeguatezza continuava a restargli attaccato addosso, come una patina oleosa.
In secondo luogo, era conscio del fatto di star stringendo tra le braccia uno degli individui più…fobici, insicuri e remissivi che esistevano sulla faccia della Terra e che, come tale, cambiava idea alla stregua del bello e del brutto tempo in alta montagna e, se ora sembrava essere parzialmente collaborativo, nel caso in cui si fosse sentito “aggredito” non avrebbe avuto remore a dimostrarsi totalmente recalcitrante.

Non fu facile mettere a tacere tutti i dubbi e le esitazioni.
Ma andò avanti comunque ed insinuò – con, davvero, tutta la delicatezza di cui era capace – la lingua oltre le labbra umide di Spencer che, per un attimo, tremò e aprì la bocca di mezzo centimetro in più.
Derek apprezzò lo sforzo, ma decise comunque di prendere in mano la situazione.
Aumentò di poco la pressione sulla nuca, camuffando il gesto con una carezza, e spinse le labbra contro quelle del ragazzino, modellandoci sopra le sue mentre approfondiva il bacio, forzando un po’ la mano, certo, ma sempre con delicatezza e una certa dose di fermezza che avrebbero potuto, ipoteticamente, sbloccare l’altro.
Quando arrivò a sfiorare la lingua di Spencer gli sembrò ingiusto che non ci fosse nessuno, lì presente, pronto a consegnargli un Oscar più che meritato. Ma la sensazione di trionfo – data dal puro orgoglio virile - si dissolse abbastanza in fretta, sostituita dalla netta percezione di star per toccare il cielo con un dito, nel glorioso momento in cui il suo partner decise che era effettivamente venuto il tempo di rispondere al bacio.
Gli venne quasi voglia di piangere e non solo per la gioia, ma anche per sfogare la tensione accumulata fino a quel momento.
Il groppo che percepiva in gola si strinse improvvisamente, rendendogli difficile la respirazione.

Un bacio significa molte cose.

Amore
Accoglienza
Assolutezza
Dedizione
Trasporto…


…ma poteva significare anche:

Angoscia
Nostalgia
Dolore
Disperazione
Addio.


Derek Morgan, in quel momento, stava dicendo “addio” a molte sfaccettature della sua vita.
Al modo di pensare.
Al modo di sentirsi, come uomo.
Al modo di vedere un collega: non più come un ragazzino da proteggere, ma come una creatura da amare.
Non avrebbe detto addio alla sua eterosessualità, però. Perché era fermamente convinto che l’attrazione che provava verso l’altro fosse unica. Per quanto avesse provato a cercare, non l’avrebbe ritrovata in nessun’altra persona, maschio o femmina che fosse.

Non si soffermò volutamente a pensare che cosa implicasse quell’ultima presa di coscienza.
Non gli interessava.

Ma nulla di quello che apprese in quel momento fu in grado di addolorarlo quanto la consapevolezza di ciò a cui stava dicendo addio il suo partner.

Spencer Reid stava dicendo addio ad una sola cosa:

A lui.  
A Derek Morgan

Una pugnalata dritta al cuore avrebbe fatto di gran lunga meno male.


Con un gesto improvviso si staccò dalle labbra del più giovane, allontanando il viso solo di pochi centimetri. Una distanza sufficiente per permettergli di guardarlo dritto negli occhi ancora umidi di lacrime.

<< Non andartene…per favore>> sussurrò. La sua voce, solitamente ferma e forte, gli sembrò pateticamente fragile, in quel momento. Brutalmente spezzata dalla sofferenza e calpestata dall’ineluttabilità del destino.
<< Se te ne vai…non… >> continuò a fatica, mantenendo il tono molto basso, assecondando il senso di intimità che la semioscurità dell’ufficio donava loro. A stento percepì la supplica insita dentro le sue stesse parole.
Spencer cambiò espressione, mentre lo fissava.
Ad un tratto sembrò turbato.
Lo vide sollevare lentamente la mano destra, portandogliela vicino al volto.
Esitò e lo sentì trattenere il respiro, come se non fosse sicuro di volerlo toccare.

Dopo qualche interminabile istante, Derek percepì il tocco delicato dei polpastrelli sulla guancia.

Una carezza.

Poi, Spencer, mosse il pollice, strisciandolo lentamente lungo lo zigomo e il nero avvertì la sensazione di qualcosa di umido spalmato sulla guancia.

Capì di stare piangendo.

Il groppo in gola divenne troppo stretto per poterlo trattenere ancora.
Con un sospiro, sbatté le palpebre e lasciò andare le lacrime.

<< Sei…sei un figlio di puttana>> sussurrò, con voce intrisa di una furia tanto dolorosa da trasmettergli una sensazione di morte imminente.

<< Ssshh… >> Spencer gli accarezzò le labbra, come per impedire all’insulto di uscire e sporcare l’aria che li separava.
Derek percepì il gusto salato delle proprie lacrime e, colto da un istinto irrefrenabile, tolse la mano da dietro la nuca e gli afferrò rudemente il polso, portandoselo alle labbra.
Non seppe cogliere nemmeno lui il senso di quel gesto, ma Spencer non reagì minimamente quando gli leccò la pelle, avido, a partire dal polso stesso, fino ad arrivare alla punta delle dita affusolate.
Sulla lingua percepì il gusto forte che, di solito, hanno le mani.
Preferì non pensare a quanti batteri si fosse appena ingoiato e, nello stesso momento, comprese che, in effetti, non avrebbe davvero potuto fregargliene di meno.
Il polso è una delle zone in cui si poteva percepire meglio l’odore della pelle di una persona, insieme all’incavo del collo. E non perché erano punti in cui ci si spruzzava il profumo.
Reid avrebbe saputo dare una spiegazione scientifica a questo fenomeno.
Lui no.
Lui sapeva che era così e basta.
Strinse lapresa così forte da – ne era certo – fargli male, ma Spencer continuò ad osservarlo con aria quasi accondiscendente.

<< Ti odio… >> bisbigliò, rabbioso, cercando in tutti i modi di provocare una reazione qualsiasi.

Ma Spencer sorrise, malinconico e rassegnato.
Per la terza volta, Derek, ebbe l’impressione che le sue parole fossero state già previste.

<< Lo so… >> si sentì rispondere.

Mosso da una rabbia cieca, strinse ulteriormente la presa sul polso e attorno alla vita, tirandoselo addosso, mozzandogli letteralmente il respiro – questa volta non per la vicinanza, ma per ragioni prettamente fisiche -. 
Bruciò tutti i centimetri che li separavano e si avventò di nuovo sulle sue labbra, gettando al vento ogni delicatezza, con l’intento, anzi, di fargli male. Di fargli provare un briciolo di quel dolore che gli stava infliggendo così gratuitamente.
Prese possesso di quella bocca con prepotenza, spingendo la lingua contro la sua, fregandosene del fatto che l’altro potesse non apprezzare un tale trasporto.
A dire il vero, Spencer non fece proprio nulla. Cioè, nulla di quello che si sarebbe aspettato.

Infatti lo assecondò.
Lo aveva fatto da quando aveva unito con la forza le loro labbra.
Aveva aperto istantaneamente la bocca e non aveva nemmeno cercato di allontanarsi. Le labbra erano stranamente morbide, così come il resto del corpo.
Si stava lasciando assaggiare un’ultima volta.
Una forma di pietà?
Oppure una forma di autolesionismo?
Forse non era così importante saperlo.

Derek lo baciò con l’urgenza di chi sa di avere una sola occasione per trasmettere un messaggio, la foga di chi è certo che non ci riuscirà e la tristezza data dalla consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe potuto stringere a sé, in quel modo, Spencer Reid.
 Si smarrì in quelle labbra, in quella lingua, in quella purezza che solo lui poteva emanare.
Cercò di carpire, afferrare e interiorizzare il più possibile, di quel giovane profiler.
 
Ma poi, come ogni cosa, anche il suo tempo giunse al termine e fu costretto a staccarsi per puro istinto di sopravvivenza.
Gli bruciavano i polmoni e aveva un dolore sordo al cuore.
Non appena si fu allontanato di qualche centimetro, inspirò avidamente ed espirò subito, esattamente come aveva fatto il collega, quelle che sembravano ore prima.
Spencer, per un momento, sembrò far fatica a stare in piedi, forse anche perché gli si era oscurata la vista per l’abbassamento di pressione e la penuria di ossigeno.
Derek avrebbe preferito morire, in quel bacio.
D’altronde, se avesse dovuto scegliere la morte fisica o la morte dell’anima, avrebbe scelto la prima, senza pensarci due volte.
Strizzò gli occhi e abbassò la testa, permettendo ad altre lacrime di rigargli le guance.

Da quanto tempo non piangeva?

Spencer gli toccò di nuovo il viso, con entrambe le mani, stavolta.
Gli accarezzò le guance, percorrendo la pelle mulatta con una dolcezza e un’innocenza disarmante.
Alle lacrime di Morgan reagì piangendo a sua volta, come prima, senza mutare espressione.
Anzi, quando riuscì a catturare lo sguardo dell’altro, sorrise di nuovo, incoraggiante.
“Possiamo farcela”, sembrava voler comunicare.
Poi fece un passo indietro.
E un altro.
Troppo tardi, Derek, si accorse di aver allentato la presa e di averlo lasciato andare.

Svuotato di ogni energia, osservò Spencer chinarsi con cautela e afferrare la tracolla, tirandosela sulla spalla.
Poi prese anche il libro.
Infine si raddrizzò e lo guardò.


“…E quando succederà…sono tre le cose che devi sapere”


Spencer distolse lo sguardo da Morgan, trasmettendo un senso di assoluta definitività.
Poi cominciò ad avanzare.
Derek avrebbe voluto fare molte cose, in quel momento.
Ma non ne fece nessuna.
E Spencer gli passò accanto con la stessa indifferenza con cui si oltrepassa la soglia di una porta.


“Hai fatto quello che dovevi…”


<<
Reid? >>
Il più giovane si fermò in prossimità della porta vetri, rimanendo immobile, senza voltarsi a guardarlo.
Derek rimase a sua volta di schiena, il capo chino e le mani strette a pugno, sul suo corpo ancora l’odore di Spencer e, in bocca, il gusto delle sue labbra.

Tutto inutile…

Strinse i denti e serrò gli occhi.

<< Vai a fare in culo, Reid. >>

Spencer esitò, portandosi la mano agli occhi e asciugandosi altre lacrime, impedendo loro di definire meglio il solco che avevano fatto le sorelle.

<< Buonanotte, Morgan… >>



“…e tante brave persone sono vive, per questo”



<< Spencer…? >>

Quella voce esitante e rotta bloccò il ragazzino con la mano appoggiata alla maniglia della porta a vetri.
<< …Sì..? >> sussurrò al vuoto che li separava.

<< …Voglio che tu sappia che non smetterò di darti la caccia e tormentarti, fino a quando tu – per sopravvivenza o perché ne sarai davvero convinto, non mi interessa – non sputerai fuori quel dannato “” che hai impigliato in gola. >>

<< …… >>

<< Lo sai che io mantengo sempre le mie promesse, vero? >>

<< …Lo so, Derek. >>


Quando Spencer Reid spinse la porta a vetri, inoltrandosi nel corridoio illuminato, verso l’ascensore, aveva le labbra incurvate in un sorriso vacuo, ma sereno.
Finalmente, quella sera era giunta al termine.
Se ne sarebbero tornati a casa entrambi, lui e Derek.
Ognuno con il proprio dolore e la propria speranza, nel cuore.
Entrambi con la stessa identica voragine nel petto.
Spencer premette il tasto del piano terra e osservò le porte dell’ascensore chiudersi lentamente, come un sipario che scende a concludere lo spettacolo, frapponendosi tra sogno e realtà, con il solo e unico scopo di riportare al presente gli spettatori.
Lui si sentiva un po’ così e decise che la sensazione gli piaceva.
Avrebbe pensato a quel giorno come si pensa ad un momento particolare della propria vita in cui si è obbligati a scegliere.
Avrebbe passato il tempo a domandarsi “E se invece…?”

E, infine, avrebbe sorriso, nostalgico, pensando che, in fin dei conti, andava bene così.


Ampliò il sorriso, mentre un’altra lacrima scivolò, silenziosa e solitaria, lungo il volto.

Ripensò a Gideon e decise che era giunto il momento di mettere la parola fine anche al suo ricordo.
Sarebbe stato doloroso.
Ma, alla fine, ce l’avrebbe fatta.






<< Qual è la terza? >>
Mormorò lo Spencer Reid ventiquattrenne, seduto sul sedile vicino al finestrino, con le gambe strette e le spalle leggermente incurvate in avanti. Gli occhi grandi, resi scuri dalla luce notturna diffusa sul jet, erano incollati alla figura di Jason Gideon, come se da quelle labbra stanche potesse colare la verità più pura.
Gideon osservò il volto momentaneamente sfigurato di quel ragazzino.
Si accorse che era troppo giovane per poter vedere quello che vedevano loro.
Ma, nello stesso momento, si rese conto che era più forte di quello che si potesse immaginare.
Non ebbe alcuna esitazione nel pronunciare la terza cosa che l’altro avrebbe dovuto ricordare a vita.



“Sono fiero di te.”












The End



 


 




Commento dell’Autrice:

Eccomi di nuovo qua u.u

Allora, le frasi centralizzate, scritte in uno stile differente, sono spezzoni di telefilm, presi dai seguenti episodi:

1)      Il Profilo dell’Assassino(Jason Gideon)

2)      L’uomo nel mirino(Jason Gideon)

3)      La sete del Viaggiatore (Jennifer Jerau)

4)      Valhalla (Emily Prentiss)

Può sembrare un finale ambiguo.
La verità è che, mentre scrivevo, ho trovato la risposta alla domanda che ho scritto all’inizio: non così.
Spencer Reid e Derek Morgan sono molto diversi e, sebbene le possibilità di capirsi siano scarse, non sono azzerate del tutto, secondo me.
Solo…non potevano capirsi, in questo modo, come l’ho descritto io.
Ma ho lasciato la porta aperta perché, nella vita, non si sa mai xD

Ringrazio sentitamente chiunque abbia anche solo letto e mi scuso ancora per la lunghezza della storia/poema.




Elisa

 







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