Forty-two
Tiles
Tre i
mesi di sospensione, sette gli interrogatori, zero le telefonate, due le
chiamate a deporre in aula, centottantadue le notti insonni, uno l'incubo
giornaliero che devi vivere da più di due settimane, quarantadue le mattonelle
che stanno tra l'ascensore e la tua scrivania.
Non
ci facciamo mancare niente, qui.
Cammini
per i corridoi del CBI con passo sicuro. Riconosci ogni piastrella
del pavimento, ogni trave del soffitto, ogni riflesso delle vetrate.
Ogni testa che si volta a guardarti. Ogni sguardo. Ogni smorfia. Ogni
voce.
Ogni
collega che ti crocifigge sul posto, puntuale. Un rito mattutino cui
ti trovi a sottostare senza fare una piega.
Ne
conosci tutti i nomi. Hai fatto la scuola d'addestramento con alcuni
di loro, con altri hai condiviso il dramma di pranzare con sandwich di dubbia natura, ci hai trascorso infinite e pallosissime nottate di
appostamento, hai contribuito alla spesa per le loro pacchiane torte di compleanno.
Ci
hai vissuto con loro, sei una di loro. Ripetitelo, avanti, 'ché fa
sempre bene.
Sono
una di loro.
Tre
mesi di sospensione non tolgono valore al tuo distintivo. Sette
interrogatori non fanno di te una criminale. Deporre
in aula è un sacrosanto diritto e dovere di ogni onesto cittadino
dei gloriosi Stati Uniti d'America. Dopo
centottantadue notti a guardare il soffitto e ripeterti questa
litania, dovresti esserti convinta.
O
forse ti crea qualche problema il silenzio? Come “quale”? Dai,
hai capito.
Il
silenzio del tuo cellulare in quasi quattro mesi. Il silenzio dei
tuoi familiari quando hai dato loro la notizia. Il silenzio
che si crea quando entri in una stanza. Il silenzio che piomba tra te
e la tua squadra un po' troppo spesso, ultimamente.
Il
silenzio che hai dentro e che ti accompagna sempre, discreto.
Sfrigola muto, come il rumore bianco della tv non sintonizzata.
Vorresti
essere la Hightower. Per lo meno lei ha qualcuno da proteggere –
l'idea di dover proteggere qualcuno, un'idea a cui
aggrapparsi. Qualcosa che riempia quel silenzio immane.
Tutto,
pur di colmare un vuoto pronto a riempirsi di melma auto-indotta. Ma
non sei in grado e fattene una ragione, che è meglio.
Tanto
sei già consapevole che stanotte sarà la centottantatreesima notte
insonne. Sei già consapevole che quel lugubre silenzio persecutorio
ti farà da gentile chaperon ancora a lungo – non sia mai che la
tua coscienza abbia un momento di tregua. Sei già consapevole che il
distintivo non smetterà presto di bruciarti sul petto come un
marchio d'infamia, come la Lettera Scarlatta di puritana memoria.
Altrimenti
non avresti una gran voglia contare ancora una volta le mattonelle
che dividono l'ascensore dalla tua scrivania, piuttosto che
soccombere sotto il fuoco incrociato degli sguardi dei tuoi colleghi.
Il tuo personale cammino di redenzione giornaliero.
...trentanove,
quaranta, quarantuno, quarantadue.
Appendi
la giacca, siediti, accendi il computer. Forse oggi ti lasceranno in
ufficio e potrai fissare i pixel del monitor con la riconoscenza che
si riserva ad un vecchio amico che non ti giudica. Forse ti
risparmieranno il disagio di viaggi in auto con una compagnia che
apre bocca solo per disquisire sul tempo o commentare l'ultima
partita dei Oakland Raiders.
O
forse no.
–
Van Pelt. –
–
Sì, capo? –
Riordina
i fogli sul tavolo, brava. Ogni scusa è buona per non guardarla in
faccia.
–
Oggi andiamo a
trovare Jane. –
I
tuoi occhi saettano da Lisbon al computer. Vorresti farti risucchiare
da una delle porte USB e scomparire nei circuiti del world wide web
come in Tron – prima o poi troverai il modo.
Quando
Cho e Rigsby si fanno avanti, capisci di non avere alcuna via di
fuga. Annuisci, riprendi la tua giacca e li segui mesta.
Troppo
impegnata nel solito conteggio delle mattonelle, non ti accorgi che
ti hanno fatto circolo. Così come non fai caso alle occhiatacce che
Rigsby lancia ai colleghi che incrociate nei corridoi. Non noti Cho
fissare con gelido ammonimento un'agente che, appena uscita dal
cucinino, ti ha rivolto una smorfia. E a malapena ti rendi conto di
quello che ha appena detto Teresa al tizio uscito dall'ascensore.
–
Problemi, signore?
–
Segui la scena come fossi dentro una bolla, incapace di comprendere che in realtà la vera protagonista sei tu.
Il
tuo capo ha una mano sul fianco, molto vicina alla pistola
d'ordinanza. Il signore in questione è quel gran simpaticone di
Ardiles. E lo scambio di sguardi e il silenzio teso fanno molto Mezzogiorno di fuoco.
Lui non pare scomporsi, ma pensa bene di allontanarsi. Senza però
esimersi dal dare una spallata a Rigsby. E Wayne, che è buono ma non
scemo, risponde con un gancio destro: la faccia di Ardiles si
accartoccia contro il suo pugno.
Di
risse ne hai viste, e parecchie anche, ma nessuna scoppiata dal
nulla.
Ardile
si allontana con il naso rotto e l'orgoglio ferito. Nel frattempo il
CBI si è trasformato nel set di una soap-opera: tutti mormorano tra
di loro e nessuno osa avvicinarsi a voi.
–
Qualcun altro ha
dei problemi? – chiede Lisbon a voce alta.
La
gente si mantiene a distanza e smette di mormorare.
Il
tuo capo annuisce: – Bene. –
Devi
ancora capire esattamente che diavolo è successo, quando ti ritrovi
nell'ascensore assieme a loro. E in tutto questo ti viene da dire
solo una cosa.
–
Grazie. –
Lo
dici con la voce un po' scema di chi si è reso conto all'improvviso
di una verità lapalissiana.
Cho
scrolla le spalle, Rigsby si gratta il naso con un dito, Lisbon
t'invita a salire in auto con lei.
Ti allacci la cintura: – Quanto hanno fatto gli Oakland? –
–
Non lo so, ma con
la pioggia che tirava saranno stati tutti incazzati. –
Vi
scambiate un sorrisetto mentre mette in moto.
Quante
erano le mattonelle da...? Oh, ma chi cazzo se ne frega!
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