Questa breve oneshot che
state per leggere è stata pubblicata a puntate sul giornalino del liceo Calini di Brescia “Il resto del Calini”,
con la firma della sottoscritta: un’esperienza meravigliosa e diversa, che mi
ha costretta a sfidare le mie doti di sintesi atrofizzate.
Un grazie grande come il mare va ad Alessandra, senza la quale nulla di
tutto questo sarebbe mai nato; a Francesca,
che mi ha aperto le porte del giornale; alla Profia, che invece mi ha aperto
le porte del Paese in tanti e troppi modi.
A te, invece, auguro buona lettura.
Papercut
“It's like a face that I hold inside
A face that awakes when I close
my eyes
A face watches every time I lie
A face that laughs every time
I fall
(And watches everything) “
Linkin
Park - Papercut
1
Il buio della camera era come un grembo
caldo e rassicurante, un bozzolo che proteggeva la sua intimità e la faceva
sentire al sicuro. Il silenzio della sera, l’immobilità del mondo oltre quelle
mura che abbracciavano il piccolo microcosmo in cui si consumava la sua
adolescenza… Tutto questo le piaceva. La faceva sentire tranquilla.
I suoi genitori l’avevano lasciata a
casa da sola, costretti dalla chiamata allarmata della nonna – una povera
anziana condannata a una vecchiaia troppo veloce, che la rendeva dipendente dal
letto e propensa a spaventarsi per ogni più piccolo dolore che il suo corpo
riusciva ancora ad avvertire - e lei era ricorsa al passatempo che era solita
concedersi da un po’, ogni sera, per ammazzare la noia nella solitudine della
sua stanza.
Chattare.
Anche in quel momento, con la luce pigra
dello schermo che le accarezzava le mani, non smetteva di farlo. Il buio
attorno a lei, gli occhi stanchi, la schiena che chiedeva riposo da quella
postura curva e massacrante… Eppure continuava.
Risucchiata in un vortice di evasione
dall’uomo che comunicava attraverso lo schermo – chissà dov’era, chissà com’era
-, lei non riusciva a smettere di scrivere. Tasto dopo tasto, quel mezzo
sorriso sulle labbra e le sue parole,
così carine, così gentili, così ammalianti… Chiunque fosse Papercut – così l’uomo della chat si faceva chiamare nel circuito d’internet
- sapeva come farsi ascoltare: aveva modi squisiti e accomodanti, gli stessi di
un amante paziente e pieno di attenzioni.
Chiacchierava con lui da poco più di una
settimana, sempre nello stesso modo - di sera, come una ladra, nascosta nel
buio discreto e rassicurante della propria camera. Gli raccontava i suoi sogni,
gli confidava le sue speranze di adolescente insicura e lui ascoltava,
accoglieva, custodiva.
Non aveva età, Papercut. Gliel’aveva confidato così, la seconda sera, mentre lei
gli raccontava dell’amore. Quando gli aveva chiesto spiegazioni – come?????, gli aveva scritto, la
curiosità che le faceva scivolare le dita troppo pesantemente sul tasto
interrogativo - lui aveva ribattuto che avrebbe compreso il senso di quelle
parole presto.
Molto
presto,
aveva aggiunto dopo un istante, pignolo. Scrupoloso. Pedante.
Morboso.
E lei era rimasta con quella sensazione
stridente nel cuore, quello stupore ragionato e malizioso che aveva dovuto
chiudere sotto chiave per non rovinare tutto. Per non iniziare a dubitare, come
faceva sempre.
Era un tipo bizzarro, Papercut: era sfuggente, fumoso,
ambiguo, sfaccettato. Era strano, e a
lei le stranezze piacevano da morire. Così, quando le aveva chiesto come
fossero le sue mani – sono lunghe? Hanno
le dita tozze?, le aveva domandato con la casualità incolore filtrata dallo
schermo -, lei non ci aveva badato. Faceva parte del costume di stramberie e
assurdità che Papercut le mostrava,
un abito invisibile che non aveva contorni né forme. E, di nuovo, le era andato
bene così.
Le sarebbe sempre andato a genio quel
suo modo di fare, ne era certa. Almeno fino a quella sera, in camera sua.
Da sola.
Al buio.
Una chat, un cursore lampeggiante
all’inizio della finestra di conversazione. E gli occhi che leggevano e
rileggevano, che non potevano credere a ciò che era scritto.
Una cosa assurda, una frase che suonava
bizzarra, storta. Sbagliata.
Una frase che lei non comprendeva.
22.34
Papercut scrive: Ti sto guardando.
2
Era una frase che aveva il sapore
lontano e sfuggente dell’irrealtà; pochi, brevi vocaboli che non avevano alcun
significato reale. Non per lei, almeno.
Ti.
Sto. Guardando.
Erano parole intrappolate in una spirale
priva di senso, troppo assurde per trovare un riscontro logico capace di
spiegarne il motivo. E lei non riusciva a fare altro che fissare lo schermo,
stranita, il cursore lampeggiante che sembrava riuscire a scandire i battiti
sorpresi del suo cuore.
Lì, con le mani sospese a pochi
centimetri dalla tastiera, scoprì di non riuscire a soffocare quella punta
prepotente di disagio che premeva per rompere gli argini del suo controllo.
Poi lo squillo della chat suonò come una
richiesta d’attenzione, un’imposizione che non poteva essere ignorata: lui era
là, oltre lo schermo, seduto su una comoda sedia dalla quale riusciva a
manovrare perfettamente qualunque suo pensiero. Esigeva ogni attenzione.
Ignorarlo non fu possibile.
22. 40
Papercut scrive: Ci sei?
Un trillo. Un altro. L’icona della chat
che lampeggiava; lui che esigeva, cercava, chiedeva…
Poi, all’improvviso, silenzio.
Ci fu solamente il battito rumoroso del
suo cuore, che si era conficcato in gola e non era più riuscito a scendere da
che lui si era fatto insistente. Era sola, davanti al computer.
Avvolta nel buio, la luce artificiale
che proveniva dallo schermo e che sobillava quel senso d’inquietudine
crescente, si costrinse a rileggere le parole di Papercut. Lo fece due, tre, cinque volte. Ancora e ancora, come se
potesse aiutarla a cercare le parole con cui rispondergli.
Quando si disse che probabilmente stava
esagerando, ormai era troppo tardi: il gelo nel cuore, quel battito che
rimbombava impazzito dalla gola alla testa, le mani fredde, emozionate esattamente
quanto il suo stomaco.
22. 43
Miss scrive: Ci sono.
Un attimo d’incertezza; le parole
sospese nel limbo invisibile che separava la mente dalle mani, in quel sottile
e labile spazio d’azione chiamato decisione.
22.44
Miss scrive: In che senso mi stai
guardando?
Probabilmente si sarebbe tenuta per sé
quella domanda, se avesse potuto prevedere la riposta di Papercut. Avrebbe chiuso internet, e forse quella sera avrebbe
fatto ben altro che piazzarsi davanti al computer. Di più, non avrebbe mai iniziato
a parlare con l’uomo della chat.
Se soltanto lo avesse saputo prima di
conoscerlo…
22.45
Papercut scrive: Ti sto guardando.
22.45
Papercut scrive: Indossi un
pigiama rosa a fiori e hai i capelli sciolti.
22.46
Papercut scrive: Ti arrivano alle
spalle.
Poi, quell’icona accanto alla finestra
della chat, quel simbolo, quei puntini di sospensione… Chiunque fosse
quell’uomo, stava scrivendo ancora.
E allora fu terrore. Puro, angosciante,
debilitante terrore. Perché Papercut
l’aveva descritta perfettamente, in ogni dettaglio, e ora era là, in attesa. Di
nuovo a esigere la sua attenzione, i suoi pensieri, i suoi segreti. La sua
paura.
22.47
Papercut scrive: Ora hai capito in
che senso ti sto guardando, vero?
3
Mi
spia!
Calò in un attimo la tapparella sulla
finestra, sul mondo e sull’ansia senza fine che le chiudeva la gola, come se
potesse bastare. Come se potesse essere sufficiente a estromettere dal suo
cuore il dubbio assordante che Papercut
aveva diffuso attraverso le parole asettiche filtrate dallo schermo.
Lui
mi spia!
La srotolò senza trattenerla, con un
frastuono assordante che non poteva in alcun modo competere con il baccano di
paura e angoscia che le martellava nella testa: non lasciò nemmeno uno
spiraglio, non concesse nessuna fessura che Papercut
potesse utilizzare per farle del male. Eppure non era abbastanza per zittire
quel terrore subdolo, quell’inquietudine insopportabile che cresceva come un
cancro annichilente nella pancia della sua anima.
Quell’uomo
MI SPIA!
Il trillo della chat fu la freccia che
colpì il centro pulsante dei suoi incubi deformi: improvviso, inaspettato,
temuto. Lui era ancora là.
22.48
Papercut scrive: Guarda che è inutile.
22.48
Papercut scrive: Ti vedo comunque.
Un messaggio lampeggiante, l’icona di
Messenger che brillava d’arancio e di follia mentre le sbatteva in faccia
l’irriducibilità di quella presenza imposta e soffocante. Chiunque fosse, Papercut era
ancora in quella camera. Con lei. Un pensiero che la paralizzò e le gettò in
ugual misura gelo e impotenza nelle vene.
Ma l’orrore vero, quello così
insopportabile da non poter essere nemmeno pensato, quello che aveva il sapore
tremendo della disperazione… Quello venne nel momento in cui sistemò una ciocca
di capelli dietro l’orecchio, gli occhi fissi sul computer e sul demone che era
improvvisamente diventato. Venne nell’ennesimo trillo, in una nuova frase.
In un tormento diverso e massacrante,
perfettamente complementare a quelli precedenti.
22.49
Papercut scrive: Ti sei appena sistemata i capelli dietro l’orecchio.
Poi…
22.49
Papercut scrive: Mi piace l’espressione che hai.
22.50
Papercut scrive: Sei bella. Ne vorrei di più.
E fu inferno. Fu incubo, dannazione,
terrore. Un nodo di emozioni così debilitanti, talmente potenti… Fu quella
massa informe e serpeggiante a costringerla a controllare di nuovo le finestre,
le mani tremanti come ogni più piccola fibra del suo corpo sconvolto e
schiacciato da un assedio psicologico agghiacciante. Ma quel rumore tremendo
che proveniva dal computer, quella campanella simpatica che violentava il suo
cuore con la leggerezza di un coltello da macellaio…
22.51
Papercut scrive: Non bastano le persiane per estromettermi. Non capisci che ti vedo lo
stesso?
E lo capì, finalmente. Lo vide
all’improvviso, così limpido nella sua mente da risultare quasi banale: l’unico
motivo valido che potesse spiegare perché Papercut fosse in grado di vedere
ogni cosa che lei faceva attraverso una semplice interfaccia. Una possibilità
unica e razionale, che portava con sé uno strascico di implicazioni
agghiaccianti.
Microtelecamere.
Papercut le aveva nascoste da qualche
parte, tra quelle quattro mura. Non c’era altra spiegazione accettabile
razionalmente, non senza chiamare in causa fenomeni di natura sovrannaturale.
Papercut aveva piazzato delle spie tra le
sue cose.
Papercut era entrato in camera sua.
4
Furono istanti interminabili. Momenti in
cui l’angoscia le sfilò davanti agli occhi con il suo ghigno viscido,
suggerendole scenari che lei non poteva ignorare.
Papercut che si era introdotto in camera
sua, Papercut
che aveva accarezzato le lenzuola in cui lei dormiva, che aveva annusato il
profumo della sua stanza, Papercut che aveva respirato il suo mondo, che aveva forzato
la sua intimità, che aveva guardato dentro le sue paure e le sue debolezze…
Perché
mi perseguiti? Cosa vuoi da me?
Cercò le telecamere ovunque: sulle
mensole, tra i libri, sotto al letto… E ogni volta – per ogni posto che
risultava pulito dalle spie - fu come morire un pezzo alla volta, esattamente
come i frammenti di terrore che andavano a sommarsi alla bestia informe che
cresceva nel fondo della sua pancia: ogni mobile privo della presenza di Papercut
rappresentava un nuovo tuffo nell’orrore, in quella domanda che continuava a
proporsi sempre più forte dentro di lei.
Dove
sei? Dove sei, dove sei, DOVE SEI?!
E poi quel suono, di nuovo, come un
appuntamento immancabile con la follia. Quel trillo acuto e stridente che
sembrava ridere di lei alle sue spalle.
Lui la stava chiamando. Era lì per lei.
22.53
Papercut scrive: Rispondimi. Non mi piace
parlare da solo.
Te
lo puoi scordare!
Rimase a guardare lo schermo del
computer, il cuore che pompava terrore e panico nella sua folle corsa al centro
del petto; inchiodata davanti alle parole asettiche del suo aguzzino, che la
laceravano come pugnali. E lei che si lasciava distruggere, troppo atterrita da
quella violenza per poter pensare a difendersi.
22.55
Papercut
scrive: Vieni qua. Subito.
22.55
Papercut scrive: Rispondimi.
Spegni
il computer!
22.56
Papercut scrive: Rispondimi.
22.56
Papercut scrive: Rispondimi.
22.56
Papercut scrive: Rispondimi.
Spegni
il computer, subito!
22.56
Papercut scrive: Rispondimi o ti ammazzo.
Spegnilo,
ORA!
E lo fece. Staccò la spina nel momento
in cui chiuse anche l’interruttore della propria paura, lo stesso che la
costringeva a lasciarsi martoriare da lui:
scoprì che il rumore del sollievo durava la frazione di un secondo e proveniva
dal computer, proprio come il lieve pizzicore elettrico che uscì dal pc nel momento in cui venne privato della corrente.
Un attimo breve e meraviglioso, un
istante in cui credette di avercela fatta. Di essere
salva.
Sola.
Ma poi… Poi lo schermo si illuminò di
nuovo, all’improvviso, come in un incubo che non può essere spezzato. E quella
scritta, quel nome, l’orrore.
22. 57
Papercut scrive: Puttana. L’hai voluto tu.
22.57
Papercut
scrive: Ora ti ammazzo.
5
Al buio. A lungo. Per minuti che
sembrarono ore, giorni, mesi; in testa quel pensiero ossessivo che rendeva
quell’incubo sempre più potente, sempre più indomabile.
Sta
arrivando!
Rimase così, con la spina del computer
tra le mani e l’udito all’erta, il cuore gettato in un’attesa straziante che la
lasciò senza fiato. E quella promessa che brillava sullo schermo del pc, che le
sbatteva in faccia la grandezza di quell’orrore insopportabile.
22.57
Papercut scrive: Ora ti ammazzo.
Sta
venendo per me! Viene a prendermi!
Respirò l’odore della propria paura
mentre il mostro dentro di lei cresceva e la divorava, forte del buio che gli
copriva le spalle. Mentre immaginava Papercut
forzare la porta, la mannaia stretta nella sua presa come una falce tra le mani
della Morte. Mentre pensava a come sarebbe stato sentire il suo alito caldo che
violava la sua pelle nel momento in cui le avrebbe leccato la mandibola.
E i brividi, il panico, l’impotenza…
Sta
arrivando! Oh mio Dio, STA ARRIVANDO!
Fu quando li sentì, che la paura divenne
una lotta per la sopravvivenza: rumori metallici provenienti dall’ingresso. Lo
scatto ripetuto di una serratura. L’orrore che bussava alla porta di casa per
portarla via con sé.
È
ARRIVATO!
Non pensò. A guidarla fu il terrore,
quel panico fuori controllo che la stava sbranando alla gola da quando lui l’aveva lacerata, lanciandole addosso
la propria follia. Corse verso il ripostiglio, verso l’unica possibilità di
salvezza alla sua portata. Verso la cassetta degli attrezzi.
Lo riconobbe dalla forma, la mano che
tremava sopra la testa di metallo: il martello di suo padre sonnecchiava nel
suo vano, sopra ferraglia senza valore che non avrebbe potuto aiutarla a
fermare Papercut.
E quando sentì il rumore della maniglia,
di nuovo… Lo scatto della serratura…
Dio,
sta cercando di entrare!
Si appostò accanto alla porta, le luci
spente, il martello che con il suo peso la trascinava verso la bocca spalancata
della paura, la stessa che rendeva incerte le sue mani. In attesa dell’orrore
che stava per aggredirla, di quel terrore che stava per saltarle alla gola e
divorarle il cuore.
Entra!
Entra, così ti darò quello che meriti!
Un altro scatto, la maniglia che si
abbassava, la serratura che si apriva e lasciava libero accesso all’incubo…
Non aspettò. Gli concesse lo spazio
necessario perché lui fosse alla sua
portata, quanto bastava per poterlo colpire. Per fracassargli la testa prima
che lui riservasse la stessa premura a lei. Non guardò l’orrore in faccia, non
in quel buio che affilava gli artigli avvelenati della sua paura. E quando calò
il martello… Quando sentì quella voce spaventata, quel grido non previsto…
«FERMATI!»
Suo padre. Sua madre. Davanti a lei, a
pochi centimetri di distanza da una morte tremenda, figlia dello stesso orrore
che Papercut aveva scatenato in lei
quella sera. E un pensiero viscido, un timore angosciante che serpeggiò
insinuando la sua voce oltre il sollievo.
Lui
è ancora lì fuori.
*
Lo sguardo della dottoressa correva da
lei a sua madre e, come ogni altra volta, conteneva tutte le risposte
dell’universo. Un universo in cui Papercut
era lontano eppure presente, con la sua mano invisibile sospesa sopra di lei.
Sulla sua testa, pronto a schiacciarla.
«Il delirio che ha colto sua figlia ieri
sera fa parte della malattia. Purtroppo la schizofrenia paranoide è difficile
da combattere, ed episodi come questo sono frequenti nel decorso della
patologia» la dottoressa aprì un ricettario, spingendosi gli occhiali sul naso.
«Le prescriverò un farmaco ansiolitico: aiuterà la ragazza a tenere sotto
controllo questi episodi deliranti.»
Quegli occhi pieni di risposte, quello
sguardo che riusciva a spiegare ogni cosa. Lo sentì addosso quando quella donna
porse la ricetta a sua madre, una sensazione che le diede brividi insopportabili.
Che la fece sentire inquieta.
E quando spiò ciò che c’era scritto sul
foglio… Quando lesse quelle parole…
Ti
sto ancora guardando.
Erano la conferma di un timore tremendo,
di un incubo che non avrebbe mai avuto fine: Papercut non se ne sarebbe mai
andato.
*
NOTE DELL’AUTRICE
Non è un caso che io abbia scelto Papercut come
titolo della storia, come non è una scelta casuale che il nome del persecutore
sia, appunto, proprio Papercut:
è un riferimento all’omonima canzone dei Linkin Park,
di cui trovate un passo all’inizio della oneshot. E’
una canzone che parla della paranoia e dell’angoscia persecutoria che la
caratterizza.
Ho voluto mantenere la suddivisione
operata in previsione della pubblicazione sul giornalino, così da mantenere la
fedeltà al progetto originale.
Spero che vogliate lasciarmi le vostre
impressioni, tengo molto a questa oneshot per ovvi
motivi :)
Se volete chiacchierare con la
sottoscritta, potete trovarmi sulla mia PAGINA FACEBOOK o sul GRUPPO AFCEBOOK
dedicato alle mie storie: i miei lettori sono sempre una compagnia
graditissima.
Un bacio,
Brin