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Salve a tuttiiiiiiiiiiiii!!! So di avere un ritardo mega
colossale! Ma ce l’ho fatta a terminare questa storia! Meglio tardi che mai
dopotutto, no? ;)
Visto tutto il tempo che è passato dall’ultimo
aggiornamento, credo sarebbe meglio dare una rilettura veloce ai capitoli
precedenti, giusto per non perdere il filo! ;)
Ci risentiamo alla fine del capitolo! Buona
lettura!
CAPITOLO QUINDICI: CASA
Odiava prendere l’aereo. Odiava il fatto che se cadi da
quel coso traballante, non c’è la benché minima possibilità di uscirne
vivo.
E poi, particolare tutt’altro che trascurabile, soffriva
terribilmente di vertigini.
E a certe altezze, si sa, se soffri di vertigini non
dovresti neppure salirci.
Se fosse dipeso da lui, infatti, non ci sarebbe salito
affatto. Avrebbe preferito di gran lunga fare un viaggio lungo giornate intere,
arrivare alla meta stanco e sfiancato. Tutto, ma non salire ancora su un
maledettissimo aereo.
Proprio come tantissimi anni prima, era costretto ad
andare dall’altra parte del mondo.
E proprio come allora, lo faceva lasciandosi indietro un
gigantesco pezzo di vita.
Si, perché lei non l’aveva voluto. Non gli aveva dato
neppure il permesso di parlarle o di vederla. Era rimasta chiusa in casa per un
giorno intero.
Solo Rey era sceso per degnarsi di parlare con lui. Aveva
oltrepassato il cancello della grande casa nella quale viveva con sua moglie
Asako, con gli occhi bassi e lo sguardo di chi sta per infliggere una ferita
mortale.
E lui aveva capito.
Sana non l’avrebbe perdonato. Sana non sarebbe tornata.
Non l’avrebbe accolto con un sorriso e con le lacrime agli occhi, gettandosi tra
le sue braccia, con la sua solita, bellissima, irruenza.
Forse stavolta aveva fatto male i conti. Forse neppure
l’amore più grande è in grado di superare tutto. Forse ci sono cose che ti
lasciano un segno del quale non puoi liberarti.
Loro non sarebbero più stati Sana e Akito. Perlomeno, non
quelli che conoscevano tutti.
Qualcosa si era rotto,… qualcosa aveva aperto una crepa
insanabile.
Rey aveva usato poche parole. Il minimo indispensabile
per rendere il concetto il più chiaro possibile.
“Mi dispiace, Hayama. Lei non vuole
vederti.”
C’aveva provato a supplicare Rey di farlo entrare lo
stesso, convinto che se solo avesse avuto anche pochi secondi per parlarle, lei
avrebbe capito quanto ancora la amasse.
Ma forse era stato terribilmente sciocco, e infantile,
credere che bastasse dirsi “Ti amo” per cancellare tutti gli errori. Gli errori
cambiano le persone, le mutano in maniera irreversibile.
E poi niente è più come prima.
***
I vetri della finestra nella sua stanza portavano ancora
addosso i segni delle sue dita fragili e tremanti.
Come l’alone di una risata che si stampa sul finestrino
di un’auto e rimane lì anche quando resti da sola, giusto per ricordarti che un
tempo sapevi anche sorridere.
O come le impronte delle mani di due amanti innamorati in
una fredda nottata piovosa, nascosti in una piccola macchina, magari rubata al
padre di lui, tra i cespugli di una collinetta isolata.
L’aveva capito col tempo che tutte le esperienze più
forti lasciano un segno. Tutte le emozioni più grandi, belle o devastanti, si
incollano a fuco alle pareti del cuore, così come si erano incollate al vetro le
impronte delle sue dita.
L’aveva guardato per tutto il tempo, stando ben attenta a
non farsi notare.
L’aveva guardato e si era sentita impazzire lentamente.
Non ricordava che fosse così bello.. o forse lo ricordava, ma trovarselo davanti
era stata tutta un’altra cosa.
Erano passati solo pochi mesi da quella bellissima e
maledetta notte di Natale, eppure a lei sembrava di essere morta da molto più
tempo.
Non credeva, o forse ci sperava, che lui fosse capace di
farle ancora quell’effetto.
Di farla sentire in quel modo, nonostante
tutto.
Perché nella sua mente aveva fatto nascere l’illusoria
convinzione che stavolta sarebbe stato diverso, perché una cosa come quella che
lui le aveva fatto non poteva aver lasciato tutto come prima.
No, una cosa del genere non poteva non aver avuto
ripercussioni sull’amore che provava per Akito.
Avrebbe dovuto ucciderlo, dimezzarlo, quantomeno
scalfirlo.
E invece l’unica cosa che si era scalfita era stato
ancora, come sempre, il suo cuore.
“Allora c’è ancora...”
Aveva pensato durante quei lunghissimi momenti,
sentendolo battere dopo tanto tempo.
“…
ma perché funziona solo con lui?”
Già. Perché vederlo lì e sapere di non potere, di non dovere andare a parlargli, era stata una
tortura.
Mentre l’aveva guardato parlare con Rey, implorandolo
quasi di farlo entrare, si era convinta che dentro quegli occhi dorati non ci
vedeva più niente.
E invece ci vedeva ancora tutto. Forse anche di più,
forse ci vedeva anche quello che non c’era.
Come sempre, gli occhi di Akito raccontavano una storia
diversa. Una storia imparata ormai a memoria, ma che non si era ancora stancata
di sentire. Perché quella storia la raccontavano solo a lei. E lei, dal cuore
caparbio e cocciuto, voleva solo mettersi seduta ad ascoltarla per tutta la
vita.
Però non aveva fatto niente per fermarlo. Da dietro
quella maledetta finestra, si era sentita come paralizzata. Inchiodata alle
gelide e impersonali mattonelle del pavimento lucido di una casa che non era sua
e che sua non lo sarebbe mai stata.
Vederlo lì fuori, a pochi passi dal grande cancello in
metallo, le aveva fatto venire una voglia pazzesca di tornare indietro, di
tornare nell’unico posto nel quale si era sempre sentita davvero a
casa.
E quel posto, inutile dirlo, era qualsiasi pezzo di mondo
nel quale ci fosse anche Akito.
Un po’ come quando cammini distratta per le strade della
tua città, tra vicoli e scorciatoie che conosci da una vita intera, e ti rendi
conto che, nonostante tutto, da quel posto non potresti mai andare via. Perché
quel posto è tuo. È il pezzo di mondo che ti appartiene, l’unico rifugio nel
quale sorridi e dici “Questa è casa mia”.
Una sensazione bellissima, la consapevolezza di sapere
che, anche se un giorno sarai costretta ad andare lontano, niente andrà perduto.
Quel posto ci sarà sempre, sarà lì ad aspettare il tuo ritorno, con gli stessi
vicoli e le stesse scorciatoie che avevi lasciato.
Ecco, era esattamente questo quello che provava quando
vedeva Akito.
Provava quell’inossidabile senso di appartenenza, quella
sensazione di appagamento e di felicità che si prova quando si torna a casa dopo
un lungo viaggio.
Senza di lui, non esisteva più nemmeno casa sua. Senza di
lui, era come sentirsi una nomade che vaga per strade che non conosce senza
avere un posto nel quale poter fare ritorno.
Lui era il muretto di fronte alla scuola, dove ti sedevi
con i tuoi primi amichetti e parlavi della prossima volta che avreste saltato le
lezioni.
Era l’odore di muffin caldi e di latte che c’era ogni
mattina quando ti alzavi e tua madre ti preparava la colazione, raccomandandosi
di studiare e di comportarti bene con gli insegnanti, mentre tu continuavi a
sbuffare scocciata e insonnolita, perché queste cose te le ripeteva ogni
santissima mattina, senza renderti conto di quanto, quelle raccomandazioni, ti
sarebbero mancate.
Lui era il tavolino del bar in centro, sempre lo stesso,
nel quale andavi quasi ogni pomeriggio con le amiche di sempre, dove ognuna
aveva il suo posto stabilito,- perché un posto non è mai uguale all’altro-, per
parlare delle lezioni appena finite o di quel nuovo ragazzo che ti ha riservato
uno sguardo in più.
Lui era tutto questo. E lei l’aveva lasciato andare,
perché troppo terrorizzata dall’idea di poter scoprire che, casa sua, non era
più come la ricordava.
Ma casa tua resta sempre casa tua, qualsiasi cosa
succeda.
E lo capì quella notte, mentre pensava al volto distrutto
di Akito.
Akito che con molta probabilità era già su un aereo per
tornare in Giappone.
Forse ad Osaka. O forse a Tokyo.
Non lo sapeva. Forse, neppure le importava.
Nella sua mente era apparsa un’incontestabile verità. Un
desiderio che non si sarebbe mai spento. E che in cuor suo sapeva di voler
assecondare.
In fondo, voleva solo tornare a casa.
***
Se solo non fosse stato un pensiero assurdo, e
terribilmente insensato, avrebbe quasi potuto giurare che le mura della sua
vecchia casa fossero in grado di parlargli. Di sussurrargli parole dritte nelle
orecchie… e si era reso conto che non bastava alzare le mani ai lati del capo
per cercare di tapparle… le parole sarebbero arrivate lo stesso. E la cosa che
più lo infastidiva era il fatto che l’argomento di tutti quei bei discorsi era
ovviamente sempre lo stesso.
Sana. Sana. E ancora Sana.
Forse era stato un errore tornare indietro. Forse sarebbe
stato molto meglio guardare in faccia la realtà e accettare che le cose non
sarebbero mai potute tornare quelle di prima. Di quell’antico periodo solo una
cosa era rimasta pressoché invariata… l’amore reciproco che legava lui e
Sana.
Tutto il resto, tutto il contorno nel quale si
ritrovavano ad agire, era completamente diverso.
E allora magari era stato stupido pensare che sarebbe bastato
andare a Parigi, presentarsi quasi in lacrime di fronte al portone della casa
nella quale lei si era rifugiata per implorarle perdono.
Che poi, il perdono mica puoi ottenerlo così. Mica la si
regala in un istante, una cosa tanto importante. Ci vuole tempo, impegno,
devozione.
Non era forse per questo che era tornato nella loro
vecchia casa?
L’aveva fatto per farle capire che le avrebbe dedicato
tutto il tempo del mondo. Tutto l’impegno. Tutta la sua devozione.
Ma ora era terribilmente difficile aspettarla. Ora che si
rendeva conto che c’era la possibilità che lei non sarebbe mai tornata. Perché a
Parigi non aveva neppure voluto vederlo. Non gli aveva concesso neanche un
secondo. Non si era impietosita di fronte alla constatazione che lui fosse
andato dall’altra parte del mondo solo per dirle che l’amava.
Forse era stato da egoisti pensare che prendere un aereo
l’avrebbe legittimato a pretendere qualcosa da lei. Come se sorvolare mezzo
mondo fosse minimamente paragonabile a quello che lui e Fuka le avevano
fatto.
Che poi, a proposito, iniziava a sentire la mancanza di
Shin.
Gli mancava suo figlio. Gli mancava Sana. Era così pieno
di vuoto che quasi non riusciva a respirare.
Pieno di vuoto eh, Akito? Davvero un bel
paradosso.
D’altronde, la sua stessa vita era stata un gigantesco
paradosso.
Era nato sentendo già il peso della morte sulle spalle.
Aveva imparato cosa significa “morire” prima ancora di imparare a
camminare.
Non era questo un assurdo paradosso?
Forse è un paradosso anche sperare che tu possa tornare
da me, proprio nel momento in cui ti ho inferto la ferita
peggiore.
Però sperare non era sbagliato. Sperare non costava
niente. E anche se fosse costato il più caro dei prezzi, avrebbe comunque
sperato.
Se fosse stato necessario, avrebbe passato anni interi
stando seduto sul divano in salotto, proprio come in quel momento, ad attendere
il rumore del portone che si apre per lasciar spazio all’esile figura della sua
Sana.
Perché aggrapparsi alla speranza era l’unica cosa che gli
rimaneva.
E il loro amore meritava tutta la speranza del
mondo.
***
- Sana, sei sicura di quello che stai facendo?
Sorrise, pensando che non è affatto vero che nella vita
non ci sono cose che restano sempre uguali.
- Si, Rey. Non sono mai stata così sicura di qualcosa
come lo sono adesso.
Rey, per esempio, non era cambiato di una
virgola.
- Ok, piccola. Mi raccomando.
- Non sono più una bambina, scemo!
Gli diede una piccola pacca sulla spalla e gli fece una
linguaccia divertita, in memoria dei vecchi tempi.
- … me la caverò benissimo, non preoccuparti.
Lo vide stringersi nelle spalle e scuotere la testa,
mentre le labbra davano vita ad un piccolo sorriso.
- Dopotutto, ero certo che sarebbe andata a finire così.
Ma giuro che se quello ti fa ancora
soffrire io..
- Alt! Non credo ci sia bisogno del tuo intervento, Rey.
Io e Akito siamo due persone molto più mature adesso.Credo che non rifaremo più certi
errori. Almeno lo spero.
- Lui sa che stai tornando a Tokyo?
- No. Glielo dirò quando sarò a casa.
- Sono sicuro che ti sta aspettando…
Lo
spero.
Dopotutto, tornare da lui era l’unica alternativa che le
era rimasta.
- Già. Lo credo anch’io.
A dir la verità, altre alternative non erano mai neppure
esistite.
***
- Mamma, papà quando torna?
Sorrise, portando una mano sul volto del suo bambino per
accarezzarlo lentamente.
- Papà è tornato nella sua vecchia casa. Però verrà a
trovarci presto.
- Perché è andato via? Non stava bene qui con
me?
Come spiegare le assurde dinamiche delle storie d’amore
ad un bambino di quattro anni?
- No, tesoro.. certo che stava bene con te. Papà ti ama
tanto, ma aveva delle questioni da sistemare nella sua vecchia casa. Doveva
cercare di fare pace con una persona molto importante per lui.
- E c’è riuscito?
Ai bambini servono certezze. Ancore sicure alle quali
potersi aggrappare in ogni momento.
- Spero di si.
- Quindi ora papà non è più triste come prima?
Ai bambini serve sapere che le persone che li circondano
sono felici.
- No tesoro. Adesso papà è molto contento.
- Allora sono contento anch’io.
Sarebbe bello poter mantenere la generosità e la bontà
quasi commovente dei bambini.
- Ma mamma, quando posso chiamarlo?
Shin la guardò dritto negli occhi, quegli enormi occhioni
dorati, e si accoccolò sul suo petto.
- Più tardi, tesoro. Stasera lo chiamiamo
insieme.
- Promesso?
Era sicuro che Akito sarebbe stato un ottimo padre.
Quindi guardò suo figlio negli occhi, gli depositò un tenero bacio sulla guancia
paffuta e gli rispose con un piccolo, semplicissimo “Si”.
***
Le venne in mente, non appena mise piede nel piccolo
viale che portava alla loro vecchia casa, che il fatto che il tempo cura tutte
le ferite e che ti permette di dimenticare anche ciò che credevi impossibile
cancellare, era solo una grandissima cazzata.
Il tempo non è niente, non serve a niente, se il cuore
resta quello di sempre. Non ha senso lo scorrere delle stagioni, il giro che il
sole compie ogni giorno nel cielo, se il cuore decide che non vuole cambiare.
Ciò che vuole tenersi dentro, incastrato tra quei battiti che quasi malediresti,
non lo puoi cacciare neppure con tutto il tempo del mondo.
Per esempio, la lievissima crepa sul muro accanto al
portone di casa era rimasta identica a sempre.
Forse si era un po’ allargata, di certo a causa dei
violenti temporali d’inverno. Però c’era.
Così come c’era l’albero di pesco nel giardino della casa
del vicino. Ora era in piena fioritura. Bello e maestoso nei suoi chiarissimi
colori.
Si fermò un istante a guardarlo, negli occhi il lieve
tremore che precede una lacrima. E le venne spontaneo chiedersi se i vicini
della casa con l’albero di pesco fossero ancora felici come li ricordava. Se
fossero ancora quella coppia bellissima e innamorata che li aveva accolti con un
sorriso e una torta di mele, il giorno in cui lei e Akito si erano trasferiti
accanto a loro.
Abbassò il capo, chiudendo forte gli occhi nella speranza
che quel gesto le permettesse di chiudere dentro di se anche le
lacrime.
Ma non poté non sentire la risata allegra di un bambino
provenire proprio dal giardino accanto.
D’istinto, alzò gli occhi e li rivolse verso il luogo dal
quale proveniva quel bellissimo suono.
E lo vide. I capelli corti e nerissimi, un paio di
minuscoli jeans sporchi sulle ginocchia e una maglietta a righe colorate,
talmente piccola che pareva quella di un bamboloccio.
Le minuscole manine erano immerse nell’aiuola a ridosso
del grande albero, e giocavano con la terra fresca e profumata dei fiori. Le
gote erano visibilmente arrossate, provocando un meraviglioso contrasto con il
bianco candidissimo del resto del viso.
Restò a fissarlo per qualche secondo, come stregata da
quella piccola visione inaspettata, fino a quando non vide una donna avvicinarsi
a lui per sollevarlo tra le braccia.
Quella era la sua vecchia vicina di casa. La riconobbe
dall’azzurrissimo colore degli occhi. Un azzurro talmente intenso da far pensare
subito alle onde del mare.
Però, e sentì una morsa intorno allo stomaco di fronte a
quella verità, quella donna era molto cambiata. Non era più la ragazzina dai
lunghissimi capelli ondulati e disordinati che aveva conosciuto tanti anni
prima. E non era più neanche tanto magra come ricordava. Adesso era una donna
matura. Bellissima certo, ma molto cresciuta. I capelli mossi di un tempo ora
arrivavano a mala pena fino alle spalle ed erano raccolti in una femminile
codina bassa.
Fu una conclusione più che logica pensare che il bambino
che reggeva sorridente tra le braccia fosse suo figlio.
Non riuscì a smettere di guardarli, pur sapendo che
presto la sua vecchia vicina di casa si sarebbe accorta della sua
presenza.
E, infatti, così fu.
Nami, questo era il suo nome, voltò il capo e la vide. In
un primo momento forse neppure la riconobbe, perché arricciò le sopracciglia in
un’espressione confusa, come se stesse cercando nella sua memoria un indizio per
dare un nome a quel volto familiare.
Passarono appena una manciata di secondi e la donna mosse
le labbra in un gigantesco sorriso.
- Sana?!
Chiese, avvicinandosi alla piccola staccionata in legno
che separava le loro case.
Sana scosse il capo, come risvegliatasi da un sogno, e si
passò veloce una mano tra i capelli disordinati dal lieve venticello per cercare
di domarli almeno un po’.
- Sana sei davvero tu?
Le domandò Nami, ancora visibilmente stupita da quella
inaspettata presenza.
- Si, sono proprio io.
Rispose lei cercando di mascherare l’inquietudine con uno
dei suoi soliti sorrisi.
A quell’affermazione, gli occhi azzurri di Nami si
accesero di una brillantissima luce.
- O mio Dio, Sana! Non posso crederci! Dove sei stata in
tutto questi anni? Ho chiesto a chiunque in giro, ma nessuno sapeva dov’eri
finita!
- Sono stata a New York. Sai com’è… a causa del mio
lavoro.
Nami sorrise ancora, ma stavolta lo fece solo per far
capire alla donna che le stava di fronte e che era così imbarazzata da non
riuscire quasi a guardarla, che lei non era affatto una stupida.
Era ovvio che Sana non fosse andata via per
lavoro.
Glielo si leggeva negli occhi che la causa di tutto era
stata la sua improvvisa e inaspettata rottura con il suo bellissimo e taciturno
fidanzato biondo.
- Accidenti, Nami! Questo è tuo figlio?
Domandò, nella speranza di deviare la loro conversazione
su binari meno traumatici.
- Si, lui è il mio Yuki.
Sana allungò una mano per sfiorare il viso ancora
arrossato di quella piccola meraviglia e le venne spontaneo sorridere quando si
accorse che la sua pelle era soffice come un manto d’erba fresca appena
lavata.
- E ora? Ora hai risolto tutto?
Esordì Nami, guardandola dritta negli occhi.
Lei restò in silenzio, senza sapere bene cosa
rispondere.
- … con il lavoro intendo. Hai risolto?
Era ovvio che non si sarebbe liberata tanto facilmente
della legittima curiosità della sua vecchia vicina.
- Oh, si certo. Spero di essere un po’ meno
impegnata.
- Quindi tornerete qui?
Quasi morì su quel “tornerete”.
Perché non “tornerai”?
Perché parlare per due?
Nami stava senz’altro parlando anche di Akito.
- .. si, insomma è tornato anche lui, no? Mi pare di
averlo intravisto uscire in giardino qualche giorno fa.
Fu come avvertire una scossa, un’iniezione di vita dritta
nel petto.
Akito era davvero tornato a Tokyo. Era davvero tornato
nella loro vecchia casa.
Akito non era tornato ad Osaka. Non era tornato da lei. O meglio, da loro.
Aveva deciso di restarsene lì, tra quelle mura che li
avevano visti insieme e felici. Chissà, forse davvero la stava
aspettando.
-… Cosa c’è, Sana? Siete tornati insieme, no?
Avrebbe voluto chiedere a Nami di cambiare domanda, o
perlomeno di non formularla in quel modo così… diretto. Perché a una domanda del
genere non sapeva ancora rispondere.
Si strinse nelle spalle
Forse, però, una cosa poteva dirla. Di una cosa almeno,
poteva essere sicura.
- Per ora,
Nami, mi basta sapere che siamo tornati.
Senza accorgersene, si ritrovò a sorridere come un
tempo.
- … su quell’ “insieme” stiamo ancora
lavorando.
Sorrise anche Nami e Sana si accorse che quella donna,
forse come tutto il resto, non era cambiata poi molto.
***
Se ci pensava bene, in fondo era una cosa abbastanza
strana.
Se ne rendeva conto solo ora, ora che era seduto sul suo
vecchio divano da un numero indefinito di ore, che non aveva mai capito un bel
niente.
Quella sensazione devastante, che quasi gli mozzava il
respiro non era, come aveva sempre pensato, la voglia incontrollabile di poter
tornare indietro per rimediare ai suoi errori e per riprendersi Sana.
Certo, quello avrebbe voluto farlo. Perlomeno per evitare
di perdere tutto quel tempo per cercare di rimediare.
Però non era il rimorso per gli errori commessi a farlo
stare così disperatamente male.
No, era il fatto di aver finalmente capito che, di lei,
non gli mancava il passato. Non gli mancavano le cose già fatte o le esperienza
già vissute. Quelle c’erano, erano rimaste intatte ed indelebili nella memoria e
nessuno le avrebbe mai cambiate.
Di lei gli mancavano i sogni. E i progetti. Quella vita
che così tante volte avevano immaginato.
Gli mancava pensare al momento in cui l’avrebbe aspettata
all’altare, con Tsuyoshi accanto, come sempre. E con la chiesa riempita di tutte
le persone che avevano sempre fatto parte delle loro vite. Suo padre, sua
sorella, i loro vecchi compagni di scuola e i nuovi colleghi di lavoro. Poi,
ovviamente, la madre di Sana con i suoi assurdi copricapo e Rey, l’eterno angelo
custode della sua sognata sposa.
Gli mancava pensare al modo in cui sarebbero diventati
genitori, a come Sana sarebbe di certo stata la madre migliore del mondo. E al
modo in cui avrebbe perdonato a lui tutti gli errori nei quali di certo sarebbe
incappato, nel goffo tentativo di essere un buon padre.
Gli mancava pensare all’espressione sconvolta di una Sana
più adulta di fronte alla prima minuscola ruga ai lati della fronte, una mattina
qualsiasi di fronte allo specchio.
Ecco, gli mancava sognare tutto questo.
Andandosene via, scappando prima a New York e ora a
Parigi, e non permettendogli di chiederle scusa, lei aveva mandato in pezzi
tutti i suoi sogni.
E, una volta andati in frantumi, i sogni sono quasi
impossibili da riparare.
Si, lei gli aveva tolto la possibilità di
sognare.
Ma forse questa era solo la sua giusta
punizione.
***
Non sapeva se sarebbe stato meglio cercare le chiavi del
portone nella sua enorme borsa, tra il mare di cianfrusaglie che, ovviamente,
non servivano proprio ad un bel niente, oppure farsi coraggio, alzare un
braccio, allungare un dito e suonare quel maledetto campanello
dorato.
Per qualche istante, comunque, preferì restarsene
immobile, il cuore in subbuglio e lo sguardo fisso su quella scritta che era
rimasta identica a sempre.
“Casa Hayama- Kurata”
Già. Perché sua madre le aveva sempre categoricamente
sconsigliato di affittare a qualcun altro quella casa. E anche se lei le
ripeteva sempre che tanto lì non ci sarebbe mai tornata e che sarebbe stato
molto meglio che una casa tanto bella non restasse incustodita, sua madre
sorrideva e scuoteva la testa, peggio di una bambina ostinata.
Quel sorriso, l’aveva sempre saputo, voleva dire “Nella vita non si sa mai,
Sana”.
Era vero, dopotutto. La vita riserva sempre così tanti
colpi di scena che sarebbe stupido pensare per qualcosa, qualsiasi cosa, che
sarà per sempre. O che non sarà mai più.
“Sempre” e “Mai” erano due parole che, per lei, avevano
ormai perso ogni significato. Erano lettere dell’alfabeto mescolate insieme
senza un criterio, senza una vera ragione.
Perché, quelle parole, le aveva accostate ad Akito.
“Sempre
insieme”, “Non ci lasceremo mai”,
“Non ci tradiremo mai”. E altre frasi
che avevano fatto, di quelle due stupidissime parole, il centro dei suoi
pensieri passati.
E invece, insieme, non ci erano più stati.
E invece si erano lasciati.
E invece si erano traditi.
La vita ti smentisce continuamente. Sembra quasi che
provi un gusto quasi perverso nel farlo.
Quindi è vero che nella vita non si sa mai.
E allora anche su questo sua madre aveva avuto
ragione.
***
Ci sono cose, però, che la vita non riesce a cambiare.
Forse non è alla vita che spetta farlo.
Siamo noi che dobbiamo scegliere. Imparare a capire ciò
che ci fa male da ciò che, invece, ci rende felici. E siamo noi a doverci
liberare delle cose che ci distruggono per lasciare spazio solo a quelle che ci
fanno sorridere.
Facile a dirsi no?
Ma come ci si deve comportare se c’è qualcosa che ti
annienta e ti fa rinascere nello stesso tempo?
Lei, adesso, cosa doveva fare?
Lei, adesso, cosa era tornata a fare?
Lei, adesso, cosa avrebbe dovuto dire?
Tre domande alle quali non sapeva rispondere, ma con le
quali si sarebbe dovuta confrontare da lì a qualche frazione di secondo, giusto
il tempo di realizzare che quelli che aveva appena sentito da dietro il portone,
erano dei passi e che la voce che aveva appena chiesto “Chi è?” era proprio
quella di Akito.
- Sono… sono io.
Almeno era riuscita a rispondergli.
Inutile dire che, non appena capì da quali labbra
proveniva quella voce, Akito aprì il portone con scatto fulmineo e lei se lo
ritrovò di fronte, più bello e doloroso che mai.
- Kurata!
Ancora, e sempre, quel vizio di chiamarla per
cognome.
- Non mi fai entrare?
Si spostò d’istinto alla sua domanda, giusto il tempo per
permetterle di oltrepassare la soglia di casa.
Non appena fu dentro, non poté fare a meno di piazzarsi
di fronte a lui e di guardarlo in silenzio per qualche secondo.
- Kurata…
Ancora, e sempre, quel vizio di avere quegli
occhi.
- Ciao, Akito.
- Io.. sono stato a Parigi. Si, insomma… sono stato a
casa di Rey per…
- Lo so. Ti ho visto.
A quella confessione, lui non si mosse di un millimetro e
i lineamenti del suo bellissimo viso non cambiarono di una virgola. Tipico di
Akito, restare impassibile.
Peccato che, poi, bastasse guardarlo negli occhi per
vedere che, dentro, aveva una vera e propria tempesta.
- Non hai voluto nemmeno parlarmi un istante.
- Ero arrabbiata con te. Ma che dico… “arrabbiata” non
rende neppure l’idea di come mi sentivo. Era furiosa. Delusa. Svuotata.
Distrutta. E lo sono ancora.
- E allora perché sei qui?
Distolse lo sguardo da lui e si diresse verso il divano
del salone, sedendosi lentamente e poggiando le mani sulle ginocchia
gracili.
- Perché avevo due scelte. Potevo scegliere di restare
con Rey e Asako nella loro casa, o di prendere una casa tutta mia in qualsiasi
parte del mondo, e di concentrarmi sul mio lavoro. Di chiudere tutta la mia
storia con te, Fuka e il vostro bambino in un cassetto che mi sarei sforzata di
lasciare sbarrato. E credo che, forse, con molta pazienza sarei anche riuscita a
ricostruirmi una vita normale e abbastanza serena.
Si fermò un istante per riprendere fiato e per lanciare
uno sguardo veloce ad Akito che, nel frattempo, si era seduto accanto a
lei.
- L’altra scelta che avevo era quella di tornare. Di
riprendere la vita che avevo prima che me ne andassi a New York. Perdonarmi, e
perdonare te, per tutti gli errori commessi e rassegnarmi al fatto che ti amo in
un modo così esagerato che ogni volta che ti guardo mi si ferma il cuore. E
provare a vedere se può ancora funzionare.
Ci furono molti istanti di totale silenzio. Poi Akito le
si avvicinò e, quasi con timore, le accarezzò leggero una guancia
arrossata.
- Sei
tornata.
Le disse soltanto. Lei lasciò andare qualche lacrima e
fece un breve cenno d’assenso con il capo rossiccio. Nell’aria c’era un
fortissimo odore di casa.
- Stavolta resti per sempre vero?
“Sempre”.
Ancora quella stupida parola.
- Non so se sarà per sempre. So solo che ci sarò, almeno
fino a domani.
Questo era il massimo che poteva promettergli, almeno per
il momento.
- Bè, vedrò di farmelo bastare.
Vide Akito sorriderle e sorrise anche lei.
E capì di aver fatto la scelta migliore.
/*/
Due anni dopo.
Richiuse la valigia, spingendo forte sul ruvido tessuto
nero, con estenuante lentezza.
Era abituato a viaggiare. L’aveva praticamente fatto per
tutta la vita. Ma c’erano volte nelle quali prendere un aereo era
incredibilmente difficile.
Volte nelle quali gli sembrava di impazzire e di lasciare
dietro di se molto più di un semplice pezzo di mondo.
Ora, per esempio, stava lasciando il suo dolore. La sua
devastante solitudine. Quella brutta, bruttissima sensazione di vuoto che
l’aveva accompagnato da quando era tornato a New York. Da quando ci era tornato
da solo.
Erano passati poco più di due anni da allora eppure il suo
stato d’animo era cambiato solo due giorni prima. Quando si era svegliato con il
suono fastidioso del telefono sul comodino e, biascicando un confusissimo “Chi è?”, aveva sentito la sua voce.
L’aveva riconosciuta subito, nonostante la sua mente
fosse ancora stordita a causa del sonno malamente interrotto.
“Sono io…”
Aveva sussurrato lei, mentre le parole quasi le morivano
tra i denti. Era stato in grado di avvertire distintamente la tensione che le
spezzava la voce. Tensione più che giustificata, ovviamente.
Lui non era stato in grado di dire nulla, se non qualche
mezzo mugugno incomprensibile.
“…
so che la mia telefonata era l’ultima cosa che aspettavi,
ma…”
Aveva avuto una voglia matta di dirle che, invece, la
stava aspettando da ben due anni.
“…ma voglio che tu sappia che io sto bene. Si, insomma…ho
risolto… tutto.”
Era stato come tornare a respirare dopo tanto tempo
trascorso in apnea. La sua aria era sempre e solo lei.
“…
e tu? Tu.. come stai, Naozumi?”
Era stato terribilmente difficile rispondere a quella
semplice domanda. Avrebbe voluto, e dovuto, dirle che stava malissimo e che si
sentiva una merda. Che era stato costretto a vivere ogni giorno con il senso di
colpa per aver distrutto la vita all’unica donna che avesse mai
amato.
“…
B.. bene…Sto abbastanza bene…”
L’aveva sentita emettere un sospiro diverso dal solito. E
gli era bastato un istante per capire che era il sospiro che accompagna un
sorriso.
“Mi fa piacere. Io ti ho chiamato per dirti che… che è
tutto ok. E che puoi venire a trovarmi ogni tanto, se ti va…Io, sai, sono
tornata nella mia vecchia casa a Tokyo. Alla fine sono riuscita a
perdonarlo…”
Era tornata da lui. Ancora una volta. Forse, da Hayama,
non se n’era mai andata davvero.
E lui, invece? Lui voleva rivederla? Andare a trovarla e
vederla con lui?
“Non sei
obbligato a partire adesso, sai? Io ci tenevo solo a farti sapere che mi
piacerebbe rivederti, un giorno o l’altro…”
“Sana, io…”
“Non serve a niente far finta che il passato non ci sia
mai stato. Se c’è una cosa che ho imparato da tutta questa storia, è che il
passato torna, se non lo affronti. Tu sei stato parte della mia vita per molto
tempo… e vorrei che lo fossi ancora. Vorrei tanto poter tornare ad essere tua
amica. Vorrei poter tornare indietro e non rovinare più quello che avevamo,
perché eri il migliore amico migliore del mondo,
sai?”
Il suo migliore amico. Ecco cosa era sempre stato. Un
amico. Uno squallido amico.
“Verrò…”
Però esserle amico era sempre stato il suo desiderio più
grande.
“Cosa…?”
E se lei lo voleva ancora, allora sarebbe stato suo amico
per tutta la vita.
“Io… io verrò a trovarti, Sana. Te lo
prometto.”
E allora non gli restava altro che tornare da lei.
***
- Sei stato a trovarli, tesoro?
Tsuyoshi alzò una mano in direzione del viso, nel
tentativo di aggiustarsi meglio gli occhiali sul naso sottile.
- Si, Aya. Sono appena stato a casa loro..
Sua moglie sorrise di un sorriso raggiante e si lasciò
andare sul piccolo divano in pelle chiarissima del salone.
- …Mi hanno detto di salutarti.
- Oh, chiamerò Sana stasera così faremo due
chiacchiere.
Tsuyoshi si lasciò andare ad un piccolo sorriso e si
accomodò accanto ad Aya, poggiandole una mano sul ventre ormai incredibilmente
ingrassato.
- Sono sicuro che continuerà a proporti i suoi solito
nomi assurdi.
Aya scosse il capo, mentre sul viso tornava quella
bellissima espressione serena.
- Su questo non ci sono dubbi! Però mi fa piacere sapere
che si interessa così alla nostra futura bambina..
Tsuyoshi acconsentì con il capo, lasciandosi andare ad
una piccola risata non appena gli vennero in mente tutti i nomi più strana che
Sana aveva proposto per la loro futura e imminente bambina.
- E poi…
Continuò Aya, ridacchiando a sua volta.
- .. a dirti la verità, mi fa morire dal
ridere!
- Mi sembra che Sana sia tornata quella di un tempo da
quando è tornata insieme ad Akito.
Molte cose erano tornate quelle di un tempo. Quando Akito
si era presentato fuori casa sua con quell’antica espressione sul volto, non
c’era stato alcun bisogno di parlarsi.
Perché a Tsuyoshi era apparso chiaro, lampante e
folgorante come il sole. Lei era tornata. Era tornata davvero.
- Finalmente ho ritrovato la mia vecchia migliore
amica.
Disse Aya, forse più a se stessa che a suo marito.
Tsuyoshi sorrise e quasi gli venne da piangere per la commozione.
- E io ho ritrovato il mio.
E Dio solo sapeva quanto gli era mancato.
Sentì sua moglie accoccolarsi meglio sul suo petto,
cingendo l’enorme ventre con entrambe le braccia. E gli venne in mente che
qualcuno un giorno gliel’aveva detto, che le persone tornano sempre nel posto in
cui sono state felici. E così era stato per Akito e Sana.
Gli sarebbe tanto piaciuto ricordare anche da quali
labbra erano uscite quelle parole rassicuranti. Ma più si sforzava di ricordare,
meno la sua mente collaborava.
Per quanto ne sapeva, poteva anche averle letto in
qualche libro o sentite durante la scena di qualche film.
Ma forse non era poi così importante sapere chi le avesse
pronunciate. L’importante era aver capito, con assoluta certezza, che quelle
parole erano vere.
***
- MAMMA, MAMMA!
Fuka alzò per un attimo gli occhi dalla pagina del libro
sul quale era concentrata, per rivolgerli alla figura allegra e saltellante di
suo figlio che aveva appena fatto capolino nella sua stanza.
- Che succede, tesoro?
Shin allargò il già enorme sorriso e corse fino a
raggiungerla sul morbido materasso del letto.
- Ha chiamato papà!
Fuka lo guardò leggermente confusa e si strinse nelle
spalle. Akito era andato via da poche ore. Come mai aveva già sentito la
necessità di chiamare suo figlio? E cosa gli aveva detto per renderlo così
allegro?
- E cosa ti ha detto?
- Ha detto che presto verrà a trovarci! E che forse
porterà anche un’altra persona! - E chi?
Un’immagine le si materializzò nel cervello. Un volto
familiare e caldo. Bello e sorridente come amava ricordarlo.
No. Non poteva parlare di lei. Non poteva parlare di
Sana.
- Non ricordo bene il suo nome, mamma. Però era un nome
molto corto e carino!
Forse invece si.
- Per caso quel nome è “Sana”?
- Si! Si! Esatto mamma! La conosci?
Le venne da piangere come una stupida, ma si trattenne
per non correre il rischio di turbare suo figlio.
Certo che la conosceva. E se Akito aveva detto una cosa
del genere a Shin, se davvero gli aveva detto che con molta probabilità sarebbe
venuto con lei, allora Sana doveva aver perdonato ogni cosa.
- Si, tesoro la conosco.
Doveva aver perdonato anche lei.
- Ah, si? E chi è?
Sorrise. E le sembrò di essere tornata indietro nel
tempo, fino a quei momenti spensierati passati tra i banchi di
scuola.
- La miamigliore amica.
***
Il sole, quel giorno, sembrava non voler mai morire.Se ne stava lì, sospeso proprio al
centro del cielo, incurante del fatto che fosse già ora di lasciare il posto
alla luna.
Forse, era proprio questo il suo intento… aspettare che
la luna si decidesse a sorgere, anche se lui non se n’era ancora andato. Che gli
donasse la possibilità di poter splendere insieme, e di illuminare quel
bellissimo tramonto, almeno per un po’.
Comodamente sdraiato sulla sua nuova amaca in giardino,
si lasciò scappare un mezzo sorriso.
Da quando era diventato così poetico?
Un tempo non si sarebbe perso a fantasticare romantiche e
smielate storielle sull’amore impossibile tra il sole e la luna.
Un tempo, il sole, non l’avrebbe neppure
guardato.
Ora invece prestava attenzione a tutto.. anche alle cose
più piccole. Per esempio, amava sentire il rumore del mare. Ma non quello del
mare in tempesta, quello quasi gli faceva paura.
Amava il rumore del mare d’agosto, quando le onde sono
così piccole e leggere che devi prestare molta attenzione per poterle ascoltare.
Erano quelle le cose che preferiva, quelle che
richiedevano maggiore attenzione. Che non si notavano subito, perché non avevano
il dono che hanno le persone estroverse e bizzarre… quelle le vedi anche se non
vorresti vederle, perché sono così fragorose, e rumorose, che è impossibile
ignorarle. Lui preferiva le cose che stavano in silenzio, magari nascoste in un
angolino, ad aspettare che qualcuno si fermasse a guardarle e che vedesse che
non erano poi così diverse da tutte le altre.
Era una piccola cosa anche lui, dopotutto.
Aveva avuto bisogno di qualcuno che lo notasse, che si
accorgesse della sua esistenza, e che sprecasse un po’ del suo tempo per
indagare più a fondo e per vedere che, forse, in lui c’era qualcosa per cui
valeva la pena fermarsi.
E a fermarsi era stata lei.
Ed era quasi incredibile il fatto che ancora oggi, a
distanza di anni e anni dal loro primo incontro, lei gli sembrasse la cosa più
bella che avesse mai visto.
Qualcosa che non c’entrava niente con tutte la altre cose
che si trovavano in giro per il mondo. Le altre cose non erano degne neppure di
avvicinarla.
Era sempre bellissimo riscoprirsi così follemente
innamorato. Sentire quella scossa nel petto, quel brivido lungo tutta la
schiena. E vedere che a volte, se l’aveva di fronte, gli tremavano ancora le
gambe.
Davanti ai suoi occhi, si sentiva di nuovo bambino. O
meglio, del bambino tornava ad avere le speranze, i sogni, le aspettative. Per
il resto, si sentiva soprattutto un uomo. Uno di quelli veri, che sanno sempre
cosa fare e che se sbagliano sanno rimediare.
E, da uomo, la cosa che più voleva fare era prendersi
cura di lei. E lo faceva, o almeno ci provava, ogni volta che la stringeva tra
le braccia. Che la guardava dormirgli accanto nella notte e sentiva sulla pelle
il suo respiro calmo. In quei momenti si rendeva conto di quanto fosse stato
incredibilmente fortunato.
Lei era una presenza ingombrante. Si sentiva anche quando
non c’era. Il suo profumo restava ad aleggiare nell’aria circostante, dispettoso
come la frase di una canzone che non vuole uscirti dal cervello.
Avete presente, no? Quando ti svegli una mattina
qualsiasi di un giorno qualsiasi e, per un motivo che non conosci, ti entra in
testa una canzone che pensavi di aver dimenticato.
E allora inizi a canticchiarla dentro di te e poi non te
ne liberi più. Ti rimbomba nel cervello, aggrappandosi come un’erba appiccicosa
e testarda, e tu non puoi fare altro che continuare a cantarla.
Ecco, lei era stata proprio come una canzone. All’inizio
era stata fastidiosa e irritante, perché era praticamente impossibile
liberarsene. Poi era diventata melodia. Colonna sonora. Il motivetto del quale
non puoi più fare a meno.
- SONO A CASA!
Eccola, la sua melodia. Aveva persino imparato a
condividerla con quel maledettissimo lavoro che la teneva spesso lontana da lui
e dalla loro casa.
Tanto ormai aveva capito che se non erano riusciti a
separarli tutti i loro errori e le loro pazzie, men che meno ci sarebbe riuscito
un misero lavoro.
La vide avanzare a passi svelti verso di lui, con un
sorriso ad illuminarle il volto perfetto, fasciata in un leggerissimo abitino a
fiori blu.
I capelli erano lasciati liberi di muoversi ad ogni passo
e oscillavano leggeri sulle spalle nude.
Era bellissima. Ma questa non era certo una novità. Così
come bellissimo era lo scintillio della piccola fede in oro bianco che le
adornava l’esile anulare della mano minuscola e femminile.
Si, alla fine c’era riuscito a sposarla.
Sana Kurata era sua moglie da appena due mesi. Lui,
invece, era suo marito da tutta la vita.
- Akito! Com’è andato il viaggio? Per telefono non mi hai
spiegato niente!
Si strinse nelle spalle, mentre puntava i piedi sul
terreno umido per alzarsi in piedi. Non appena se la ritrovò di fronte, così
meravigliosamente vicina, la accolse in fretta fra le braccia.
- Mi sei
mancata…
La sentì ridacchiare contro il suo petto.
- Sei stato via solo per tre giorni! Che uomo debole!
Era inutile. A volte sapeva essere davvero fastidiosa.
Si separò da lei, lanciandole uno sguardo
scocciato.
Lei, per contro, sorrise ancora.
- Come sta lui?
Gli venne spontaneo spalancare un po’ gli occhi. Era la
prima volta che Sana gli faceva una domanda del genere. Forse, era la prima
volta che chiedeva di figlio senza tremare o senza abbassare il capo.
- Sta.. sta bene, grazie.
- Mi fa piacere. Sarà stato contento di
vederti.
Che Sana avesse finalmente accettato l’esistenza di Shin?
- Si, molto contento.
- Bene.
Lei continuava a sorridere, quasi come se volesse fargli
capire che stavolta era tutto ok. Che forse era arrivato il momento di provare
ad affrontare l’ingombrante presenza del bambino che lui aveva concepito con
Fuka.
E a lui venne voglia di urlarle che l’amava.Ogni giorno di più.
- E’ cresciuto tanto, sai?
La vide sedersi sull’amaca, con una mano stretta sul
grembo sottile, mentre con l’altra tamburellava sul tessuto a righe colorate,
come per farli cenno di sedersi accanto a lei.
- Immagino. Ora ha 5 anni giusto?
- 6 tra qualche mese..
- Deve essere un bambino molto bello.
Si strinse nelle spalle, mentre quasi senza accorgersene
alzava una mano fino a raggiungere il volto di lei per accarezzarlo
lentamente.
- Non so. Dicono che mi somigli parecchio.
- Oh, allora sarà di certo bellissimo!
Riuscì a carpire un leggerissimo tremolio nella sua voce,
segno inequivocabile che certi argomenti le facevano ancora molto
male.
- Senti, Akito… io non voglio che tu ti senta obbligato a
non parlarmi di tuo figlio anche quando vorresti farlo. Puoi dirmi tutto quello
che vuoi, lo sai… io ti amo e voglio che tu ti senta libero di raccontarmi
tutto.
Era indubbio il fatto che uno come lui non meritasse una
donna come Sana.
Gli venne una voglia assurda di abbracciarla fortissimo e
di dirle che l’amava da impazzire e che l’avrebbe amata per tutta la
vita.
- Dici sul serio?
- Certo.
Lei sorrise ancora, come per rassicurarlo, come per
dirgli che non doveva affatto preoccuparsi.
E allora lui trovò il coraggio per parlare, per dirle un
pensiero che lo tormentava da tantissimo tempo e che non riusciva più a non
esprimere.
- Senti, Sana… credi che un giorno potrai perdonare anche
lei?
E con quel “lei”, ovviamente, si riferiva a
Fuka.
Già, perché non trovava affatto giusto che fosse stato
solo lui ad essere perdonato. Avevano sbagliato entrambi dopotutto. Non doveva
essere solo Fuka a pagarne le conseguenze.
Stavolta, la vide irrigidirsi mentre il sorriso le moriva
sul volto.
-… non fraintendermi, Sana. So che è difficile, l’ho
provato sulla mia pelle quanto può essere duro riconquistare il perdono. Però
lei ti vuole bene. Ogni volta che vado a trovarli non mi chiede mai di te, ma
glielo leggo negli occhi che vorrebbe sapere come stai.
Vide un lampo di nostalgia illuminarle le iridi
cioccolato. Fu in quel momento che si rese conto che anche a Sana mancava
moltissimo la sua migliore amica.
E che proprio perché sentiva così tanto la sua mancanza,
ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo per poter tornare a fidarsi di lei.
Più grande è il bene che vuoi a qualcuno, più lenta è la
guarigione se quel qualcuno ti ferisce.
- Credo che potrò venire con te quando andrai a trovarla.
E a trovare il tuo bambino.
Non ce la faceva ancora a dire il suo nome. D’altronde,
non poteva pretendere che tutto tornasse alla normalità in così poco
tempo.
Forse le cose non sarebbero mai tornate alla
normalità.
- Allora fino a quel giorno non ne parleremo più.
Promesso
Forse la normalità neppure esisteva..
- Ah, Akito.. devo dirti una cosa molto
importante.
Era solo una condizione momentanea.. quello che ti sembra
normale oggi, può apparirti insolito domani se qualcosa è cambiato rispetto a
ieri
- Dimmi, Sana.
Forse magari a lui neppure serviva, la
normalità.
- Io sono… sono incinta. Aspettiamo un bambino,
Akito!
Tutto cambia di continuo e nessuno ha modo di
evitarlo.
Ma finché sarebbe cambiato insieme alla sua Sana, sarebbe
andato tutto bene.
/*/
*FINE*
Note
dell’autrice: Ok, è ufficiale. Sono commossa come una stupida ragazza
romantica e iper sensibile! Ma questa storia mi ha tenuta impegnata per così
tanto tempo che sapere di essere riuscita a finirla mi riempie di gioia e allo
stesso tempo di tanta, tanta tristezza.
Credo sia normale, dopotutto. Finire qualcosa che hai
iniziato è sempre motivo di soddisfazione personale, ma ti lascia anche quel
retrogusto di amaro in bocca.
Bene, mi sono sfogata anche troppo con voi mie care e
amatissime lettrici! Ma che ci posso fare? Sono una romantica! xD
Spero davvero con tutto il cuore che questa lunghissima
attesa sia stata ripagata almeno un po’ e che i miei sforzi siano stati
apprezzati! Vi chiedo infinitamente scusa per tutto il tempo che ho impiegato
per scrivere questo capitolo. Ma sono stata davvero molto incasinata e sono
dovuta stare via di casa per un po’. Scrivere era diventato quasi impossibile!
Dopotutto, sto pubblicando quest’ultimo capitolo quando il mio orologio segna
l’1:00 esatta, quindi sono ormai abituata a scrivere in orari davvero assurdi!
xD
Bè, che altro dire? Ovviamente aspetto di sapere il
vostro parere! Sappiate che le vostre recensioni sono state davvero molto
preziose per me, quindi non finirò mai di ringraziarvi per tutta l’attenzione
che mi avete sempre riservato!
Bene, non mi resta che darvi appuntamento alla mia
prossima storia.. perché si, ho intenzione di rimettermi a scrivere molto
presto! ;)