«Attenta
Icy, stai andando addosso alla guardia.»
Mi
risvegliai all’improvviso, Teresa aveva ragione, stavo
andando dritta verso il mitragliatore di una delle guardie che
presidiava la teca. Nella ex cappella di Palazzo Crossbow, la casa di
moda famosa in tutto il mondo, veniva esposta al pubblico per la prima
volta la coppa di Mnemosyne. Il cubo di vetro che custodiva
l’oggetto si trovava su un altare a poca distanza dalla
parete dell’abside ed era sorvegliato da quattro guardie
armate fino ai denti. Due a destra e due a sinistra. E tutto per una
specie di piatto concavo di una ventina di centimetri di diametro. Ma
d’altra parte eravamo lì per quello, per
contemplare quel piccolo reperto tutto d’oro, tanto prezioso
da dover essere difeso come un fortino dall’assalto dei
beduini.
Se
avevo appena rischiato di caracollare addosso a una guardia era
perché avrei dovuto evitare di bere champagne a digiuno.
Già la testa iniziava a ondeggiare, anche se ero ancora in
quella fase piacevole di leggerezza e spensieratezza che ti regala il
primo calice. Solo in quel modo, ultimamente, riuscivo ad allentare un
po’ il freno e sciogliermi. Le Jimmi Choo che avevo ai piedi
iniziavano a reclamare la mia attenzione: guardai in giù, un
vero supplizio non c’era che dire. Ma anche
l’abbigliamento faceva parte degli obblighi derivanti dalla
posizione che ricoprivo alla Crossbow. Teresa, collega e sedicente
amica, in quel momento, mi stava stranamente incollata come
un’etichetta. Teresa Gaviraghi era l’addetta ad
istruire le cause per plagio e contraffazione a tutela della Crossbow
Fashion ed essendo la contemperazione costi benefici un calcolo
squisitamente economico, le sue cause prima di essere intentate
dovevano passare da me. Non l’avevo propriamente al mio
fianco. Come sua abitudine stava rispetto a me un pelo più
indietro. E tuttavia con la coda dell’occhio potevo tenere
sotto controllo il corpicino magro e abbrustolito, frutto di anni di
diete, fitness e solarium. Quella sera sfoggiava un total look in cui
la “D” e la “G” gettavano lampi
dorati su un vestito strizzato. Muoveva spesso il polso scuotendo
l’orologio, anche questo “Dolce e
Gabbana”, gettando lampi di luce riflessa sulla volta
affrescata. Gli occhi grigi e vicini sembravano inseguire i giochi di
luce. Sempre standomi appiccicata teneva infatti reclinata
all’indietro la nuca dai capelli raccolti e platinati ma lo
sguardo non si soffermava su niente in particolare. Teresa non
osservava gli affreschi. Senza farsi notare, lanciava sbirciatine verso
la sottoscritta. Era in attesa che facessi qualche gaffe con
l’altro sesso. Poi con Micol, avrebbe riso di
“Icy” la fredda.
«Non
hai tutta questa dedizione quando siamo in ufficio», notai
con voce più stridula di quanto avrei voluto.
Teresa
accostò le labbra al bicchiere fingendo di bagnarsi la bocca
e fece spallucce: «Che palle quest’anticaglia. Ci
perdiamo tutto il “movimento”. Torniamo di
laaaa?»
Per
“di là”, con cantilena milanese, Teresa
intendeva lo showroom al di là del chiostro. La
multinazionale della moda di piazza Santi Apostoli quella sera aveva
dato il meglio di sé. Lo showroom di palazzo Crossbow era al
massimo del suo sfolgorio di stucchi dorati e barocchi, vetrate
piombate a losanga, colonne bianche, nicchie dove rifulgevano
abiti scultura dai colori sgargianti che si riflettevano sui marmi
preziosi e intarsiati dei pavimenti. Tutto questo, in quel momento
sembrava lontano secoli dalla cappella angusta e antica che ci
circondava.
Mi
guardai intorno e vidi Micol, mia collega “in
seconda”, profilarsi all’ingresso del piccolo
oratorio.
Ancheggiava
in un miniabito mozzafiato evidenziando il corpo tutto curve
pericolose, con una certa tendenza ad arrotondarsi sui fianchi. Reggeva
due bicchieri, uno dei quali lo sollevò nella mia direzione
offrendomelo. Micol Lambert era l’addetta alle cause per
diffamazione e anche le sue azioni legali erano sottoposte alla mia
preventiva valutazione di opportunità. Era sulla quarantina,
ben portati ovviamente. I capelli vaporosi erano mesciati di rosso al
punto giusto e sulle labbra appena ritoccate riluceva un
rossetto carminio: totale mancanza di autorevolezza. Era un problema.
Spingeva spesso la controparte a resistere in giudizio. Era
un’altra che non si poneva nemmeno il problema di sembrare
una professionista credibile.
Le
indicai con un gesto del bicchiere di offrire il secondo calice a
Teresa. Io avevo già fatto il pieno.
«Guarda,
neh, - cinguettò Teresa -, Micol è una
“giusta”. Non porta i pantaloni, lei, e ha scelto
un …un abito da cocktail. Non questa tristezza mia
cara», aggiunse percorrendomi dall’alto in basso
con gli occhi piccoli e grigi.
Strinsi
le labbra per reprimere una rispostaccia. «Sì,
grande autorevolezza!», commentai a mezza bocca.
«Cosa
ne capirai mai di moda!» Teresa si scostò per
avvicinarsi alla teca.
In
quel momento la piccola folla di persone che aveva circondato
l’espositore si era dissolta attratta all’esterno
dalla musica che risuonava dallo showroom nell’altra ala del
palazzo.
In
quella specie di cripta dove ci trovavamo, anche noi avevamo finalmente
accesso all’oggetto misterioso.
Teresa
strinse un po’ gli occhi e stirò le labbra sottili
in un ghigno:
«Crossbow
impazzisce per questo coso.»
«È
una coppa.» A forza di sentire la storia, l’avevo
imparata bene.
Il
disco d’oro risplendeva come un piccolo sole. Era una ciotola
piatta con una sporgenza che si elevava proprio nel mezzo. Il tutto era
scolpito ad altorilievo. La sporgenza era in realtà una
donna elegantemente vestita assisa su un trono, circondata da uomini e
donne alternati come in un girotondo, tutt’intorno.
«Ma
non sarà un tantino esagerato: addirittura il
mitra?» Micol indicò la canna plumbea che sporgeva
verso di noi.
«Non
credo proprio, con quello che l’ha pagata da
Sotheby’s», replicai.
«Quanto?»
«Un
milione di euro, c’era scritto sul giornale», dissi
impettita mentre tenevo gli occhi incollati sulla teca.
«Che
assurdità, neh! Tutti questi soldi per un
piatto…»
«Dorinda,
tu che sai sempre tutto, com’ è possibile che una
roba del genere valga così tanto?»
Mi
strinsi nelle spalle. Micol era l’unica che a volte faceva lo
sforzo di usare il mio vero nome. Tutti mi chiamavano
“Icy”. «Be’ è pur
sempre una coppa d’oro molto antica, dicono che risalga
addirittura ai primi secoli dopo Cristo. Sempre che sia
vero», borbottai.
Mi
avvicinai anche io un po’. Da quella distanza non vedevo
ancora bene le decorazioni. Le donne e gli uomini intorno alla dea,
avevano abbigliamenti e gesti diversi. Chi teneva le mani aperte, chi
incrociate sul petto. Erano i dettagli a incuriosire. Si trattava di
sedici figure, avevo letto da qualche parte, ma era impossibile capire
quando terminasse il giro. Ogni volta comparivano particolari che
inizialmente non avevo notato.
Con
la coda dell’occhio captai un movimento ai margini del campo
visivo e mi scossi. Avevo la sensazione che fosse passato parecchio
tempo. Quella coppa aveva uno strano potere. Un po’ stordita
mi girai sulla sinistra. Qualcosa di scuro sbucava da dietro una grande
statua posta di lato all’altare. Non si era trattato di un
movimento brusco o improvviso ma fluido e quasi invisibile.
Solo
allora alzai lo sguardo e mi colpì la stranezza della
situazione. I pochi visitatori che sostavano nella cappella al nostro
arrivo erano spariti del tutto e anche Micol e Teresa se ne erano
andate.
Ero
ancora annebbiata e tanto presa a chiedermi come fossero scomparsi
tutti senza che io me ne accorgessi che sulle prime non mi avvidi di
ciò che aveva cominciato ad accadere.
Qualcosa,
che in realtà era qualcuno, stava avanzando sinuoso sul
pavimento nella penombra tra il piccolo altare laterale e quello della
teca, alle spalle delle guardie che sorvegliavano la coppa. Era un
uomo, diamine, sulle prime mi era sembrato un animale. Tutto vestito di
nero con abiti aderenti e un berretto scuro calato sugli occhi. Il suo
corpo si contraeva in un movimento simile a un’onda, rapido e
sicuro come se fosse un rettile in caccia, con l’addome teso
sotto un paio di spalle possenti.
“Muoversi”:
era difficile affermare che si muovesse. Il fatto era che un attimo
prima avanzava e poi era sparito di nuovo dietro l’altare
della teca. Ero quasi certa di aver avuto un’allucinazione
quando sentii la bocca prosciugarsi.
L’intruso
con un unico movimento sicuro sbucò da dietro
l’altare e aggredì alle spalle una delle guardie
passandogli un braccio intorno alla gola.
La
guardia crollò a terra in un grido soffocato.
Altri
due sorveglianti si girarono in direzione dell’assalitore,
mentre quello aggredito si accasciava.
Mentre
una delle guardie superstiti sollevava la mitraglietta verso lo
sconosciuto, questo gli aveva già piantato la mano allo
stomaco.
Il
secondo agente colpito si raggomitolò tenendosi il ventre e
le ginocchia si piegarono sotto il suo peso. Quando cadde a terra di
schiena le braccia si aprirono, rivelando i palmi delle mani, rossi e
brillanti di sangue.
Lo
sconosciuto colpì il braccio del terzo addetto alla
sorveglianza che gli si era avventato contro. E lo fece servendosi del
calcio di una pistola. Sembrava avere una scorta inesauribile di mosse.
Sgusciava letteralmente dalle mani degli uomini in divisa. Non avevo
mai visto una cosa del genere, sembrava un film o un combattimento
finto. Non era possibile che quell’uomo si muovesse in modo
insieme tanto impercettibile e tanto letale.
Indietreggiai
di un passo. Mi trovavo nel posto sbagliato al momento sbagliato senza
trovare neppure la voce per gridare. Ero rimasta da sola nella piccola
navata a tu per tu con il rapinatore. Voleva la coppa? Che se la
prendesse pure!
La
sensazione che prima ci fossero quattro, vigilanti sembrava sbagliata.
I corpi a terra degli uomini in divisa erano solo tre.
«Fermo.»
Una voce si levò alle mie spalle, quasi a rispondermi. Non
feci in tempo a voltarmi. Ero paralizzata dal terrore e
l’uomo alle mie spalle era troppo veloce. Qualsiasi cosa
dovesse succedere sarebbe accaduta.
Mi
sentii stringere il braccio da una morsa che mi fece ruotare a forza di
180 gradi. Quella stessa presa mi imprigionò e mi
attirò contro il corpo di un uomo, schiacciandomi la faccia.
Era un uomo basso e sentivo sotto la pelle del viso la stoffa ruvida
della giacca, il freddo dei bottoni. Puzzava di naftalina e di sudore.
L’unico occhio che riuscivo ad aprire vedeva la superficie
bluastra di un’uniforme. Mi ritrovavo con il naso compresso
contro la divisa del quarto agente, quello che avevo perso di vista.
Quello che avrebbe dovuto proteggermi e che invece…
«Getta
le armi», la voce rimbombò nel petto
dell’uomo che mi stringeva. Ne sentivo il battito forsennato
del cuore contro l’orecchio, o forse il cuore era il mio e
stava volando via.
La
voce dell’agente si fece sentire di nuovo, era stridula,
impaurita: «Getta il coltello. Alza le mani.»
Il
respiro mi si fermò e non solo perché avevo il
viso compresso. Il vigilante si stava facendo scudo col mio corpo. Ma
il rapinatore non ci avrebbe certo impiegato molto a levarmi di mezzo.
Il
corpo dell’agente fu scosso da un tremito. Anche se cercava
di sembrare spavaldo capivo che era disperato e accendeva il mio
terrore come una miccia. Sarei stata la prima a beccarmi una pugnalata
o una pallottola.
Gli
istanti trascorsero silenziosi e lunghissimi. Con la faccia
schiacciata, non potevo sapere cosa stesse accadendo alle mie spalle.
Nessuno sparo. Eppure durante i pochi secondi in cui lo avevo guardato,
lo sconosciuto non mi era sembrato uno che si arrendesse,
tutt’altro. Avrei voluto mormorare una preghiera, ma non mi
veniva in mente nulla, neanche una parola.
Trattenni
il respiro e strinsi gli occhi. Ero incapace anche di piangere. La
divisa dell’agente che mi teneva stretta sarebbe stata
l’ultima cosa che avrei visto e poi puff, basta, chiuso,
null’altro. Il tipo che aveva accoltellato tre guardie in
dieci secondi non si sarebbe fermato davanti alla mia vita.
Poi
ci fu lo sparo. Secco, come di una pistola, non a raffica.
Sentii
piano piano la presa allentarsi. Gridai, mi divincolai come una furia
dalla stretta che ancora mi ostacolava e, finalmente libera, potei
girarmi e guardare.
Io
ero viva e così pure l’agente che si era fatto
scudo di me ma tre agenti e il ladro erano morti. Il ladro era riverso
nel sangue sul pavimento, in posizione innaturale, immobile. I capelli
color cenere e lunghi sulla fronte gli coprivano gli occhi, il corpo
era abbandonato. Aveva mezza faccia devastata da un colpo in pieno
viso.
Mi
avvicinai all’uomo a terra senza neppure chiedermi se fosse
morto davvero. Non aveva sparato. Si era fatto ammazzare per non
uccidere un’emerita sconosciuta di cui non aveva visto
neppure la faccia.
Portai
le mani alla bocca. Le gambe mi tremavano e mi veniva da vomitare.
L’orrore, la pietà e il sollievo presero a
contendersi quel po’ di autocontrollo che mi restava.
Barcollai
all’indietro scansando qualcuno, forse il vigilante
superstite, quello che aveva rischiato di farmi ammazzare.
Le
voci cominciarono a ronzare tutto intorno. Molte persone stavano
affluendo nella sala. Urla di fronte ai corpi per terra, voci maschili
concitate impartivano ordini severi. Qualcuno si avvicinava curioso,
altri arretravano spaventati. Qualcun altro dovette mettermi una sedia
dietro le ginocchia e una mano assecondò i miei movimenti
fino a quando non mi trovai seduta.
«Sono
l’ispettore Isacco Gatto.»
Alzai
gli occhi giusto nel momento in cui si metteva davanti a me un tipo con
l’aria da ragazzo. Le mani sui fianchi, mostrava la fondina
in un gesto un po’ arrogante e anche un tantino intimidatorio.
Per
poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Un po’ il
nervosismo, un po’ il cognome ridicolo. Erano passate ore da
quando tutto era successo, ore estenuanti, di attesa, trascorse a
trangugiare cognac che Micol e Teresa insistevano per farmi bere. Ero
distrutta e dovevo avere un aspetto a dir poco sfatto e quella era
l’unica cosa buona, almeno il tizio non avrebbe fatto il
cretino. Lo guardai meglio.
Non
era poi così ragazzo come mi era sembrato a prima vista.
Gatto
si volse intorno con aria un po’ scocciata e occhi vispi, poi
si allontanò per prendere una sedia anche lui e si mise
accanto a me. Rimasi in silenzio.
«Come
si chiama?»
«Dorinda
Martini.»
«Perché
si trovava qui stasera, signora Martini.»
Mi
raddrizzai nelle spalle per quanto mi era possibile vista la
situazione: dovevo rispondere proprio? Ero talmente stanca.
«Sono
una dipendente, sono responsabile finanziario della Crossbow
fashion», dicendolo cercai con gli occhi Steve Crossbow.
Stava un po’ distante per il momento, ma avrei giurato che di
lì a poco avrebbe rubato la scena a chiunque si fosse
permesso di conquistare un po’ di attenzione nel suo regno,
me compresa.
«Cosa
è successo?»
Che
domanda del cavolo. Racchiudere quegli attimi in un giro di parole era
impossibile, soprattutto perché ciò che aveva
osato fare quell’uomo era così assurdo, non era
normale insomma!
Deglutii.
Meglio andare con calma, cominciare dall’inizio:
«Ero proprio qui con Micol Lambert e Teresa Gaviraghi, le mie
colleghe.»
Crossbow,
che intanto doveva essersi avvicinato, si materializzò
accanto a me e mise una mano sulla mia. Potevo avvertire il tocco
freddo e la pelle raggrinzita da novantenne.
«Ringraziando
gli Dei, la coppa è salva.»
Fu
un gracidio insopportabile.
Non
avevo parole per descrivere come mi sentivo. Quattro persone di avevano
rimesso la vita. Io ero appena scampata alla morte. E quel
vecchio rimbambito pensava alla coppa. Intanto la guardia che mi aveva
usato come ostaggio veniva scortata fuori da alcuni agenti. Sperai lo
stessero conducendo verso il carcere a vita, anche se ne dubitavo. Lo
sentii spiegare di aver sparato “a colpo singolo”
perché disponeva di una sola mano per azionare la
mitraglietta. Certo, con l’altra mano bloccava me! Avevo
voglia di strillare.
Il
signor Crossbow sfoggiava la solita chioma impomatata bionda e quel
sorriso lucidato: ogni volta che lo vedevo pensavo alla dentiera che la
sera doveva galleggiare in un bicchiere sul suo comodino.
«È
lei, la mitica. L’araba fenice di tutti gli archeologi, la
coppa che faceva parte del tesoro di Pietroasa.»
Trattenni
a stento uno sbuffo nonostante l’adrenalina che ancora mi
scorreva in corpo: come se Pietroasa fosse dietro casa
dell’ispettore Gatto! Per noi dipendenti era tutto un altro
paio di maniche, avevamo sentito tutti quanti quella storia un
centinaio di volte, il signor Crossbow non faceva altro che raccontarla
ed era diventata la favola della ditta.
L’espressione
dell’ispettore Gatto mi fece supporre di aver indovinato e
lui non ne sapeva un bel nulla.
«La
coppa che qualsiasi uomo vorrebbe possedere. La coppa
dell’immortalità.
Adoro...”Mnemosyne”!»
Il
signor Crossbow era partito per la tangente perché si
accostò con le mani alla teca di vetro antiproiettile e si
ipnotizzò quasi davanti a quell’oggetto che si
diceva essere fabbricato in oro degli Urali. Evidentemente anche dopo
duemila anni l’oro, anche se proveniente dai misteriosi
Urali, restava tale e quale all’oro della catenina che mi era
stata regalata da mia nonna.
«Le
coppe del tesoro erano due», spiegò Crossbow. Si
era ripreso dalla trance e ora guardava l’ispettore negli
occhi.
«”Due”,
in che senso?»
«Sì,
due. Il tesoro di Pietroasa comprendeva, insieme ad altra chincaglieria
di valore, ben due coppe, - continuò Crossbow - non solo la
coppa di Pietroasa ma anche la coppa di Mnemosyne. Il tesoro fu
scoperto per caso nell’Ottocento e poi trafugato da uno
studente di teologia dal museo delle antichità di Bucarest.
I preziosi furono ritrovati all’interno del pianoforte dello
studente, ma, a quel punto, purtroppo, c’era solo una delle
coppe.»
«Sarebbe
la cofana di qua?» L’ispettore Gatto
indicò con un gesto del pollice la coppa alle sue spalle.
Alzai gli occhi al cielo: che signorilità!
Crossbow
lo liquidò con un cenno della mano. «Ma no!
C’era l’altra! Questa è la coppa di
Mnemosyne, quella scomparsa.»
L’Ispettore
evidentemente era un po’ duro di comprendonio ma alla fine ci
arrivò: «Ok, ma lei come l’ha avuta?
»
Crossbow
si raddrizzò in tutta la sua altezza ed assunse un piglio
fiero: «Me la sono aggiudicata da Sotheby’s
quindici giorni fa, carissimo ispettore. Un opportuno investimento e
una equipe di prim’ordine verranno a capo del suo segreto.
Non è emozionante?»
Seguì
un breve silenzio durante il quale Gatto annotò veloce
qualcosa a mano su di un piccolo blocco. Poi lo richiuse e
assottigliò lo sguardo verso di me.
«Non
credevo che Kuja si sarebbe fatto beccare.» Non ce
l’aveva propriamente con me anche se sembrava fissarmi,
pareva piuttosto che parlasse da solo. Anche se vibrava nella sua voce
qualcosa di vagamente accusatorio.
«Chi?»
«Kuja.»
L’Ispettore indicò col mento la salma del
rapinatore che era stata coperta con un lenzuolo in attesa di essere
messa nel sarcofago posato accanto. Se la stavano portando via quelli
della polizia mortuaria. «Era un boia, uno che faceva le cose
pulite e, cazzo, non lo avevamo mai beccato, mai.»
Be’
l’avevano beccato stavolta.
“Kuja”,
che nome curioso.
Mi
venne voglia di andare a sollevare il lenzuolo per vedere la faccia
dell’uomo che non aveva avuto la prontezza di fare fuoco su
di me e ci aveva rimesso la vita. In quell’attimo un senso di
gelo mi oppresse il petto e il pensiero ritornò:
sacrificarsi così per una sconosciuta, e chissà
se quel Kuja aveva qualcuno che lo aspettava a casa, se…
L’ispettore
Gatto sembrò leggermi nel pensiero. «Era un
mercenario signora Martini, capace di liquidare tutti in questa stanza
pur di arrivare al risultato. Mi stupisco che non lo abbia fatto,
insomma che…» All’improvviso sembrava
quasi pentito di ciò che stava dicendo, ma oramai avevo
intuito il senso e avevo anche colto con chiarezza la sua insinuazione.
«Che
non mi abbia uccisa.»
«Si
può dire così...», espirò
l’Ispettore senza spostare gli occhi dalla sigaretta che si
stava rollando metodico. Era già la terza da quando aveva
cominciato a interrogarmi.
Mi
venne un bisogno improvviso di fare qualcosa, un peso iniziava a
gravare sulla mia coscienza e avevo l’impressione che
più passava il tempo più l’angoscia
aumentava.
Non
riuscivo a tenere le mani ferme in grembo, le contorcevo tormentando un
fazzoletto che qualcuno mi aveva dato mentre gli occhi mi si gonfiavano
contro la mia volontà per un’ondata di emozioni
che gorgogliavano a fior di pelle. Andava tutto a rovescio. Il mio ex
marito che era stato un grandissimo stronzo; la guardia, che avrebbe
dovuto proteggermi, che invece aveva messo a rischio la mia vita; e
l’uomo invece, che aveva fatto il più grande atto
di generosità che avessi mai ricevuto, ora era un corpo
freddo dentro un sarcofago di metallo grigio. Tutto a rovescio. E non
avevo neppure potuto dirgli un grazie.
«Quando
ci sarà il funerale?», chiesi d’impulso.
Finalmente
l’ispettore se la sfilò dalle labbra quella cazzo
di sigaretta.
«Dipende
dal magistrato, ma credo presto.» Mi fissò a lungo.
«Posso
chiederle di avvertirmi?» Frugai nella borsetta alla ricerca
di un bigliettino da visita. «Mi faccia sapere, la
prego.»
Dovetti
rispondere a un altro paio di domande sul come e quando e poi
finalmente fui libera di andarmene.
Teresa
aveva insistito per accompagnarmi ed era stata davvero dura convincere
lei e Micol che potevo farcela da sola ad arrivare a casa.
Avevo
un gran bisogno d’aria, di schiarirmi le idee. Non sarei
nemmeno voluta andare a quella maledetta festa, fin
dall’inizio non volevo.
Me
l’aveva detto Anita che sarebbe stata una serata movimentata.
L’indomani le avrei tirato le orecchie perché o
non aveva scelto l’aggettivo giusto o doveva cambiare foglie
di tè per leggere i fondi.
Presi
per il Pantheon e poi per piazza Navona. Roma era magica a
quell’ora, come sempre ogni notte, mai del tutto deserta da
aver paura, mai affollata da dare fastidio, semplicemente perfetta.
Poi, dopo ciò che avevo passato, il mondo mi sembrava
scintillante e meraviglioso come non mai. Non sapevo cosa avrebbe
potuto riuscire a spaventarmi in futuro dopo un’esperienza
simile. Avevo visto la morte in faccia.
Eppure,
grazie a quel Kuja, non ero morta.
Se
fosse stato così spietato come diceva l’ispettore
Gatto, Kuja o come accidenti si chiamava avrebbe fatto fuoco su di me
senza pensarci. Invece no. Ed era morto. Sentii di nuovo una stretta al
petto. Doveva essere qualcosa di simile a quando si provoca un
incidente con la macchina e l’altro guidatore muore, un senso
di responsabilità e di colpa tremendi, anche se non te la
sei andata a cercare.
Arrivai
a Via dei Coronari maledicendo i sampietrini, infilai la chiave nel
portoncino di legno e lo chiusi alle mie spalle. Nella portineria una
vaga luce proveniva dal retro, indicava che Armando era ancora sveglio
a guardare la tv.
Iniziai
a salire i gradini di marmo consumati, ma dopo i primi quattro tolsi le
Jimmi Choo e proseguii scalza, il tacco era ormai quasi andato.
Avvertii il freddo sotto i piedi che mi arrivò dritto al
cervello. Ero sul pianerottolo del secondo piano quando sentii lo
scrocco di una serratura:
«Psss
…Dorinda. »
Mi
voltai nient’affatto stupita verso la porta a fianco alla
targhetta con su scritto “Anita Davidova,
spiritista”.
Dalla
porta schiusa emerse la giovane russa, di bassa statura a differenza
delle sue conterranee e con capelli neri come pece. Sapevo che non era
una che andava a letto a orari normali, ma Anita era ancora truccata
come se fosse pronta per uscire anziché andare a dormire. Mi
avvicinai.
«Che
ci fai ancora in piedi a quest’ora?»
Assottigliai
le palpebre scuotendo la testa con disapprovazione. Quella ragazza
faceva troppo spesso le ore piccole, come faceva a studiare di giorno
se non dormiva la notte! Era un mistero.
La
venticinquenne mi guardò con un sorrisetto furbo stirato
sulle labbra tinte di un rossetto color prugna, quasi nero. Ma il
sorriso le morì in faccia non appena gli occhi mi
inquadrarono, dovevo essere un cencio.
Lo
sguardo bistrato si incupì sotto le sopracciglia aggrottate.
«Cosa
ha successo?» Anita continuava la sua guerra privata contro i
verbi ausiliari della lingua italiana.
«Oh
guarda, è una cosa talmente lunga… E poi nessuno
lo sa meglio di te!»
Anita
tentò di passarsi una mano sui capelli corti che erano
spinosi per via del gel che li irrigidiva. Poi li sfiorò
appena come per sincerarsi che tutti gli aculei pungessero nel modo
giusto: «Vabbe’ non mi interessano le cose
secondarie, raccontami il fatto importante della serata!»
Per
un attimo la guardai perplessa pensando per la prima volta che forse
qualcosa la intuiva davvero. Si pagava gli studi di ingegneria
meccanica con la lettura delle carte e altre amenità simili.
Una cosa nata per fare previsioni sui fidanzati delle amiche era
diventata una specie di fonte di reddito.
Sbuffai.
«Cosa vuoi sapere entro …- guardai
l’orologio – …cinque secondi?»
Mi
sorrise come una bambina davanti alle caramelle.
«Solo
una cosa: lo ha incontrato stasera il tuo Re di coppe?»
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