Il cuore del Drago Nero

di Callie_Stephanides
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2.
Il Drago Nero non ha colore

Ruben di Trier, maestro d’armi di Rael, amava dire che la vita è una pergamena vergine.
“Gli uomini sono sonetti, o atti da notaro, o poemi epici. È il sangue che fa la differenza.”
Il sangue è quanto inchiostra il foglio e ti racconta.
Ruben aveva combattuto fino alla faglia dell’Icengard, aveva un occhio di vetro e l’umorismo spettrale dei soldati sconfitti dalla Storia. Non ho mai capito se fosse un filosofo, oppure un ubriaco baciato da una vena poetica ma quell’immagine mi piaceva.
La vita come una pergamena da riempire… Ero tanto sicura dei miei mezzi da immaginare maiuscole e capoversi. Poi l’armata di Koiros ingoiò buona parte di Eleutheria ed io compresi che la metafora di Ruben non poteva sopravvivere al delirio alcolico di una notte ispirata.
La vita non è una pergamena vergine, ma un palinsesto: la scrivi ogni giorno, finché non muori. La scrivi raschiando la pelle – anche la tua – e scollandone memorie e polvere e sorrisi e sogni. La scrivi – la ri-scrivi – perché siamo una bozza, non una lirica. Cancellare e dimenticare è l’unico modo che abbiamo per inventarci un domani.
Lo so bene, perché per diventare Ygeia mi sono denudata il capo sino a ferire la pelle.
Lo sa Vinus, che pure aveva una memoria di carne a ricordargli la tragedia di una pagina strappata.
La sua.

*

Ci sono molti modi di sopravvivere al dolore: il pianto, la vendetta, il rancore, l’abulia, il suicidio… Puoi commiserarti, asciugarti del tutto, incattivirti: una ricetta universale non esiste, come non esistono filtri d’amore o pietre in grado di assicurarti immortalità e fortuna.
Vinus scelse la via della dimenticanza. Senza la minima pietà per se stesso, qualità di cui era sprovvisto, ma che compensava con un detestabile sarcasmo, si cercò nello sguardo della Storia e si vide per quello che era: il principe di un mondo morto.
Aveva dieci anni, ma non era più un cucciolo; il Destino gli aveva aperto gli occhi e l’aveva fatto con una pioggia d’aghi. Non era niente, se non carne. Poteva guardarsi alle spalle, comprendere d’essere perduto e morire; poteva sollevare la pesante spada di Zauror suo padre e combattere.
Vinus strinse l’elsa sino a ulcerarsi i palmi. Quel momento fu la sua raschiatura, e la memoria sepolta nella pergamena che chiamava ‘vita’ fu coperta da un fiume di sangue.
C’era anche quello della mia gente.
Ci sarebbe stato, soprattutto, quello dell’uomo di cui ero innamorata.

*

Quando ero bambina, il principato di Venusya costituiva una fortezza naturale e una costante minaccia per la pace di Eleutheria. Più che uno spazio fisico, tuttavia, nutriva la mia immaginazione come un limite naturale, non valicabile. Delle terre boreali di Elithia, si diceva che fosse l’ultima abitabile; l’estremo avamposto prima della faglia dell’Icengard. Oltre c’era un nulla mai esplorato, un deserto di neve e l’inferno delle falesie; c’erano i demoni nati dal cuore di una terra marcia. La prudenza teneva gli esploratori ben lontani da quegli spazi, come l’aristheia di Venusya assicurava il rispetto di confini che la guerra permanente rendeva tuttavia fluidi e mutevoli come acqua. Qualche anno prima che io nascessi, tuttavia, il Collegio negoziò con la corona di Venusya una sorta di tregua. Non si pervenne mai alla redazione di una pergamena ufficiale, ma i dracomanni fecero, da quel momento in poi, visite sempre più rade alla nostra Capitale.
All’epoca Eleutheria occupava ancora buona parte dell’Eumene, la Terra Cognita: dai monti di Lytha all’altopiano dell’Eisenthar; dal golfo di Loch alle Midlands, era tutto un fiorire di villaggi uniti sotto l’egida del Collegio di Trier. Era una civiltà prospera e felice, benedetta dalla pace. Oltre i nostri confini – lo sapevamo – non c’era che l’anarchia degli eserciti.
Venusya occupava l’estremo occidentale delle Midlands. Pochi eleutheridi si erano spinti sin lì, poiché la rara bellezza di quelle terre stava tutta in un popolo selvatico e ostile. Gli ophelidi amavano combattere più di quanto non desiderassero vivere, avevano appetiti voraci e l’energia dei draghi. La Storia li aveva confinati in una landa sterile, fatta di terrapieni rocciosi e rade foreste. L’unica ricchezza di quel suolo disgraziato era l’adamanto, la più indistruttibile delle leghe naturali.
Gli eleutheridi edificavano templi a Dendre, come pegno tardivo di un’ingratitudine senza scusanti; gli ophelidi forgiavano spade, perché non credevano in nulla se non nella forza della disperazione.
I bardi del Nord, che movevano dai villaggi ai confini con le Midlands, entusiasmavano le nostre piazze con lugubri ballate in cui si celebravano i dracomanni, Signori della Guerra e della Morte.
Era il Primo Evo, un’età in cui tutto era ordinato, pulito e iscritto entro un suo ordine immutabile. Così, almeno, credeva la bambina che ero e credeva mio padre e credeva Eleutheria tutta.
 
Gli ophelidi portavano sul campo di battaglia una voracità distruttiva: erano macchine da guerra naturali, che non potevi arrestare, solo anticipare. La salvezza di Eleutheria poggiava dunque sulla tecnica: all’Accademia di Trier si studiava l’ottica delle lenti ustorie e la meccanica delle armi da lancio. Se ai giovani dracomanni s’insegnava a mordere, gli Ygei progettavano ingegnose elusioni. Nonostante tutto, sino almeno alla tregua di cui ho detto, il principato di Venusya continuò a macinare e a maciullare terre.
Le cronache parlano di Rigel l’Implacabile, sovrano degli ophelidi e conquistatore dell’Eumene, come di un semidio. A rendere eccezionale il trisavolo di Vinus, che pure sul campo di battaglia ne avrebbe surclassato il nome, quanto a potenza distruttiva, era l’ambizione. Sino al suo avvento – per acclamazione – i dracomanni erano poco più di una tribù del deserto, feroce e letale, ma disorganizzata. Guadagnavano e perdevano terre con estrema facilità, poiché mancava un piano scientifico d’occupazione e un governo in grado di gestire l’estensione progressiva del Principato.
Rigel, che aveva combattuto a lungo contro gli eleutheridi degli avamposti settentrionali e che dunque ci conosceva bene, fondò l’aristheia, l’esercito di Venusya. Inquadrò i maschi più forti in un sistema di centurie e militarizzò in modo permanente la vita del suo popolo, trasformando quella ch’era una vocazione naturale in una professione.
I dracomanni, che per secoli avevano vissuto in clan assoggettati al più forte dei maschi fertili – il principe di Venusya, appunto – si costituirono in un vero e proprio Stato, la cui aristocrazia nasceva e moriva nell’esercizio della guerra.
Mio fratello Rael era figlio d’uno dei capitani. Era sangue scelto.
Vinus, che dell’Implacabile era un discendente diretto, era destinato a dominare l’Eumene.
Questo, almeno, se dalla faglia dell’Icengard non fosse arrivato Koiros.

*

Figlio bastardo di un’unione scellerata, il Terrore venne dal Nord che nessuno aveva mai esplorato. Suo padre era un dracomanno. Sua madre, una delle falesie.
I demoni che abitavano le estreme propaggini delle terre boreali erano creature note più al Mito che non alla Storia. Persino mio padre, che ai miei occhi era la quintessenza del Sapere, ne liquidava l’esistenza in un nome. Erano demoni, creature oscure e corrotte.
Punto.
Invece no: erano carne, erano veleno, erano cervello, erano rabbia. Erano umanoidi costretti a vivere in una tomba di ghiaccio e desiderosi di riscatto.
Che ne sapevamo, noi eleutheridi, dell’incubo di una notte lunga un anno?
 
I dracomanni, nella loro ansia di conquista, si erano spinti ben oltre la faglia che diede poi il nome all’estremo Nord. Fu lì, probabilmente, che quel fatale contatto si ebbe.
Immagina: sei un soldato, sei solo, hai freddo. La notte è ovunque. Il nemico è qualcosa di venefico e strisciante che colpisce a tradimento. Non sai neppure perché combatti, se la terra promessa è un deserto freddissimo. Mentre maledici te stesso e il tuo clan, appare lei, la femmina più bella che tu abbia mai visto.
È morbida, fremente, calda.
È un odore che ti manca, perché le puttane costano un mucchio di piastre e le piastre sono sangue e tempo e vita.
È l’abbraccio di una notte, di una sola notte. Un’illusione del freddo e del veleno.
E l’hai seminata.
 
Il frutto del connubio fu una creatura spaventosa e fortissima: la vidi una sola volta – il giorno del fatale scontro che decise le sorti dell’Eumene – e non l’ho mai dimenticata.
Era un colosso di oltre dieci piedi, Koiros, coperto di scaglie ossee. La sua coda culminava con una cuspide velenosa, e i suoi occhi erano segmentati come quelli di un insetto. A differenza dei comuni demoni, che erano sì pericolosi, ma non molto intelligenti, Koiros aveva il cervello di un dracomanno. Il cervello di una creatura umana.
Mentre Zauror, il padre di Vinus, celebrava un impero che andava ormai dall’Icengard a Kimali, l’avamposto più settentrionale di Eleutheria, Koiros costruiva il suo esercito. Demoni delle falesie, ophelidi transfughi, avventurieri e predoni: chiunque volesse partecipare alla più straordinaria impresa di guerra che fosse mai stata concepita, era il benvenuto; alla testa dell’armata, una creatura invincibile, un dio d’ossa, carne, veleno e, soprattutto, intelligenza distruttiva.

*

Il giorno in cui Lephtys, capitale del Principato di Venusya fu rasa al suolo, Vinus compiva dieci anni. Il corpo acerbo recava già in sé le insegne del nobile sangue che lo attraversava, sangue di combattenti scelti, selezionati da eoni di lotte e accoppiamenti mirati. Se mio fratello aveva la pelle ambrata e chiome nerissime, Vinus era candido come la neve.
Capelli d’argento e occhi vinosi, sotto le ciglia nascondeva il colore del suo destino: il rosso del sangue che avrebbe inghiottito un intero mondo.
 
L’aristheia era preparata a tutto, ma non a un’armata guidata da un essere invincibile. Koiros trucidò due dei migliori capitani di Zauror, e abbatté la prima linea. Il panico s’impossessò persino dei più capaci. Molti si diedero alla fuga, agevolando il massacro. Il padre di Vinus scese in campo con il fiore della guardia armata, ma non ebbe fortuna: pugnalato dalla coda del mostro, morì sboccando bile e sangue davanti agli occhi inorriditi del suo cucciolo.
Ci siamo, dunque: questo è il primo incontro tra Koiros e il futuro assassino delle Midlands; tra la creatura più potente e spietata dell’Eumene e un principe senza corona.
Koiros sorride – ha la bocca di un predatore.
Vinus trema, ma non abbassa lo sguardo. Non sa che chi lo fronteggia ha già ingiunto l’ordine che condannerà a morte gli ophelidi – sgozzate le femmine. Tutte. Sventrate i cuccioli – ma intuisce che se abbandonerà la spada di Zauror morirà per certo.
Quella spada – la stessa che ucciderà il mio uomo – diventa in quel momento il suo tutto: un’amica, una sorella, un’ancora. La sua muscolatura non è abbastanza sviluppata da sostenerne il peso, eppure l’impugna. A due mani, gambe divaricate per abbassare il baricentro e conferire una maggiore stabilità alla difesa, stringe l’elsa e aspetta.
La Morte.
“Vai tu.”
Koiros gli contrappone Lethor delle falesie, il suo luogotenente. Vinus deglutisce a fatica, ma non abbandona la posizione. Il demone lo fissa con un misto di compatimento, scetticismo e disgusto; poi, sottratta la spada a uno dei corpi che ingombrano quel che resta della sala del trono, si prepara a finirlo in un unico colpo. Gli taglierà la testa e la esporrà, assieme a quella di Zauror, nella piazza centrale di Lephtys, perché si sappia che Venusya non esiste più.
Vinus non pensa.
Vinus è istinto e intelligenza bellica allo stato puro.
Vinus intuisce che la paura è una condizione chimica legata al tempo, perché quando ti trovi il nemico davanti non hai modo di pensare, solo di colpire e di morire. Se ti fermi a riflettere, avrai una paura folle di essere ferito, di provare dolore, di non tornare indietro e quei pensieri ti cementeranno al suolo; impastoiato, annasperai e sarai ammazzato.
Vinus, però, il tempo di pensare non ce l’ha; in compenso risponde al primo cozzo e poi al secondo e poi para un affondo e, da ultimo, a Lethor fa saltare via un occhio. Proprio così: e quell’occhio che rotola ai piedi di Koiros è l’obolo con cui si paga l’inferno.
“Tu mi piaci,” ride il mostro. “Tu puoi ancora servirmi.”
 
Mentre Freil, ormai agonizzante, deponeva il piccolo Rael tra le braccia di mio padre, Vinus veniva tradotto in catene davanti all’esercito invasore. Della gloriosa stirpe degli uomini-drago non restavano che poche unità, destinate comunque all’estinzione: non c’erano più femmine, non c’erano più cuccioli.
L’ultimo, d’altra parte, aveva già dimenticato d’essere tale.
Il primo ricordo di Vinus si riaccende qualche settimana più tardi, nel bel mezzo della grande marcia per il Nord. Ha i polsi incatenati e gli occhi asciutti. Il maschio che lo precede ha perduto un braccio e ha la coda mozza. Vinus lo riconosce dalla lorica di adamanto nero: è Gordon, il secondo attendente di suo padre. È chi chiamano il Drago Nero.
Non una parola, tra loro, solo un cenno che le vale tutte: la mano callosa gli sfiora i capelli ancora corti e lì resta.
Pesa.
Io ti crescerò e ti proteggerò, mio principe.
Non è quello che Vinus vuole, ma se lo farà bastare.
Per il momento.





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