Habla con Ella
A qualcuno che
ricorderà
E comprenderà.
Lei c’è. C’è stata sempre, ogni volta che ho avuto bisogno
di aiuto, di conforto, o semplicemente di una parola buona. Di qualcuno che mi
facesse sentire di nuovo un essere umano, e non un rifiuto che gli ingranaggi
del Destino hanno misteriosamente sottratto ad ogni discarica… a meno che
l’intera mia esistenza non sia un’unica, sconfinata discarica a cielo aperto.
Ma lei mi impedisce di crederlo; basterebbe la sua presenza
muta a riscattare questo cumulo di pattume e macerie emotive, a trasformarlo –
posso osare il paragone? – in un tempio. Un tempio alla Bellezza e alla Bontà. Kalokagathía.
I miei occhi non si sono mai posati sul suo viso e sono
certo che le fotografie non le rendano giustizia, ma non sento affatto il
bisogno di verificare ciò il cuore mi ha detto molto tempo prima che potessi
farmi una qualsiasi idea del suo aspetto fisico: ho percepito – fin dal primo
momento, o quasi – la Bellezza della sua anima, e nient’altro conta.
Nient’altro? Be’, non esageriamo… Ho sognato spesso di fare
l’amore con lei, sempre più spesso, a mano a mano che le nubi si infittivano
sul nostro rapporto; nubi evocate dalla mia insipienza, dalle mie paure e da
tante altre cose che lei riassume sotto l’etichetta “immaturità”. Con ragione,
credo, anche se mi sembra un termine riduttivo. Almeno, non sono così ingenuo
da credere che il sesso possa curare questo genere di ferite emotive e sono
lieto di affermare che neppure nelle mie fantasie ho mai immaginato niente del genere;
al contrario, l’unione dei corpi è sempre stata conseguenza ed espressione
della concordia ritrovata tra gli spiriti, di quella concordia così naturale e
spontanea - sbocciata inattesa come un fiore fuori stagione - che a volte mi
domando se non ci sia del vero nelle leggende sulle anime gemelle. Mi sembra di
conoscerla da sempre, di capirla da sempre… o forse è solo perché siamo
talmente simili, in molte cose, che non di rado, discorrendo con lei, ho
l’impressione di guardarmi allo specchio?
Ma io non possiedo, non ho mai posseduto la sua Bontà. La
sola qualità di cui mi senta privo è anche la più importante e una simile
carenza mi rende, oggettivamente, indegno di affetto.
Suppongo che il mio difetto si chiami “Egoismo”. La sua
lingua, tagliente come il diamante, saprebbe certo incidere a fuoco nel mio
cervello un termine dieci volte più adatto, ma mi accontenterò di questo. Non
possiedo quel genere di bontà altruistica che spinge qualcuno a porre il
prossimo – non necessariamente una persona determinata, badate, ma “il
prossimo” in senso cristiano – al centro dei propri pensieri o azioni, o almeno
a tradurre costantemente in pratica il precetto neminem laedere. Al
contrario, la mia soddisfazione personale ha la precedenza su tutto e – per
quanto io ritenga di aver sempre rispettato gli altri due precetti, honeste
vivere e suum cuique tribuere – posso calpestare il prossimo senza
battere ciglio, pur di raggiungere lo scopo del momento. Dei sentimenti altrui
mi importa meno di zero. D’altra parte, a ben pochi è importato qualcosa dei
miei… ma questa non è una giustificazione, solo una causa del mio
comportamento.
Ma la regola soffre alcune eccezioni: poche, pochissime
eccezioni, o meglio, pochissime persone, ciascuna delle quali, per me, è
unica, splendida, inimitabile… tanto da avere un posto nel mio cuore, un posto vivo,
in mezzo a tante croci.
Ciascuno di questi pochissimi, a suo modo, mi ha salvato la
ragione, forse la vita e certamente la possibilità di sentirmi un essere umano,
uomo in mezzo ad altri uomini. Ciascuno di loro è mio, anzi, è me.
Il resto dell’umanità potrebbe finire all’Inferno in questo
stesso istante e mi limiterei a scrollare le spalle, ma per salvare uno solo di
loro sarei pronto ad andarci io; un pensiero blasfemo, lo so, ma, del resto,
c’è ben poco di cristiano in tutto il mio atteggiamento, non è così? Io chiedo
agli amici un rapporto totale, ma offro altrettanto. Non mi interessano
conoscenze superficiali, bensì le pieghe – e a volte le piaghe – più riposte di
un’anima, ma sono altrettanto disposto a schiudere le mie. Troppo
disposto, probabilmente; troppo rapido, troppo avventato.
E così, ho fatto qualcosa che non volevo e mai avrei voluto
fare: l’ho ferita. Immagino di aver ferito molte altre persone, nel corso della
mia vita, e spesso volontariamente, ma mai una di loro. Per me sono
sacri. Lei è sacra. L’unica donna, tra loro. Un miracolo che non credevo
possibile. E adesso…
Osservo i periodi andare in frantumi, disarticolati in
schegge impazzite, come se volessi frantumare lo specchio narrativo del mio
fallimento.
Una nocetta intima, anche adesso, si compiace per il bello
stile.
Merde pour la
poésie.
Quanto hai pianto, piccola mia ? Quanto ti ho fatto
piangere? Quante volte ti sei data della stupida e anche peggio, per esserti
fidata di me?
E come posso, adesso, dirti che di me potrai sempre fidarti?
Che sono un idiota patentato, è vero, ma che ci sarò sempre, quando avrai
bisogno di me, proprio come tu ci sei per me? Perché a questo e non ad altro
servono gli amici; e se poi potessimo essere qualcosa di più… cosa
aggiungerebbe ad un rapporto già tanto speciale?
No, basta. Non posso piangere ancora. Anche volendo, non
avrei abbastanza lacrime; e poi, sembra che io pianga con i polmoni, come se
una mano invisibile me li strizzasse per spremerne qualche goccia di pianto.
Sono proprio un limone inacidito, secco.
Ma allora perché questa “ferita profonda, che stride nel
petto”?
Perché “un popolo potente ha rivolto la destra vittoriosa
contro le sue stesse viscere”…
Non importa quanta letteratura possa affastellare; questo
dolore è crudo, non si lascia mascherare né lenire.
Siamo troppo legati perché potessi ferirti senza ferire
anche me stesso.
Forse soprattutto me stesso. Dimmi, chi dei due ha
più bisogno dell’altro?
Vorrei riuscire a dirti il tormento rovente della tua voce
gelida, il rancore che vibra attraverso l’etere, saetta dritto al cuore. Al mio
cuore.
Non hai bisogno di vendetta: le Eumenidi mi sovrasterebbero
anche se non udissi più la tua cara voce, o se un Nume pietoso ne allontanasse
quei toni di acciaio affilato. Chissà se ti rendi conto di quanto la tua voce
possa assomigliare ad una lama di Toledo.
Getto lo sguardo fuori della finestra, verso l’orizzonte
ceruleo, la distesa d’acqua che un tramonto estenuato acquerella appena con una
sfumatura rosea. Cieli e sere di Riviera, già presaghi di un’Estate imminente;
invogliano a uscire, magari a sorseggiare un aperitivo sul balcone, o a
perdersi nelle infinite sfumature dell’azzurro marino.
Ma tanta bellezza, per me, è sempre stata sprecata, non hai
raggiunto il mio cuore. Mai.
Tu, tu sola ci sei riuscita, mia preziosa Aurora dalla dita
di croco; tu sei il tocco della Speranza in quest’esistenza insulsa, ma una
Speranza ferita, che forse agonizza e forse sopravvive…
E i tuoi occhi, la sola parte di te che la mia mente sia
incapace di immaginare, assumono, nei miei incubi, le sembianze della Sfinge.
La falsa serenità di questo paesaggio fiabesco mi colpisce,
certo, ma che non comprendo. Forse dovrei cantarti trasfigurata in alcione,
capace di cogliere i fiori di spuma sulla cresta delle tempeste; e volare
accanto a te, io cerilo ormai vecchio nell’anima, sostenuto da un tocco
premuroso. Ma, al momento, sembra impossibile che le libecciate, i cavalloni
che martellano gli scogli con furia cieca, siano qualcosa di più che un pallido
sogno d’Inverno; al momento, non si vedono tempeste, se non dentro di me.
Chissà se ti darò modo di leggere queste righe?
Correrò il rischio di essere frainteso, deriso, respinto una
volta di più?
La domanda, in fin dei conti, è retorica: che cos’ho da
perdere?
Un’ultima occhiata al cielo che inizia all’imbrunire;
ultima, come ultimo dev’essere questo paragrafo, se voglio evitare di
ripetermi. Ma, a ben vedere, tutto quello che ho scritto non è forse una colossale,
inutile ripetizione? Cosa non sono riuscito a dirti, quali corde non ho
tentate? Detesto gli interrogativi senza risposta; dopotutto, vorrei essere io
a “sciogliere il famoso enigma”… e, invece, in questo momento mi sento
piuttosto la Sfinge. Cos’è questo, un indovinello o un guanto di sfida
letterario? Entrambe le cose, forse. Calaf e Turandot. All’alba vincerò? Vedremo.
Sul manoscritto l'inchiostro
sarò
e mi avrai nero su bianco,
saranno gli occhi o i
tarocchi, però
saprò quello che ancora non
so;
mi dirai di sì o mi dirai di
no,
mi dirai di sì o mi dirai di
no.
Note:
Per il titolo, sono debitore al grande Pedro Almodòvar.
Merde pour la poésie non è una frase mia, ma di Arthur
Rimbaud; non ricordo, però, a che proposito l’abbia pronunziata.
I brani tra virgolette sono reminiscenze: del
suicidio di Didone in Virgilio; dell’incipit di Lucano, forse il mio
poeta latino preferito; e dell’Edipo Re di Sofocle.
“Eumenidi” è il nome greco delle Furie.
Cerili e alcioni sono i maschi e le femmine di martin
pescatore, che, secondo una leggenda molto diffusa nell’antichità, nidificano in pieno inverno, dunque in tempo di tempeste, ma in un breve periodo di sereno, i cosiddetti “giorni alcionii”. L’intero passo è una reminiscenza del lirico Alcmane.
I versi in chiusura sono tratti da Angelo Branduardi, L’Apprendista
Stregone.
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