Sally – sort of-
Mia
madre mi disse - Non devi giocare
con gli zingari nel bosco.
Ma il bosco era scuro l'erba già verde
lì venne Sally con un tamburello
Sally-
De Andrè
Dicevano
che erano arrivati gli zingari in città. Con i carri, le tende, i cani, i
bambini e tutto il resto. L’aveva detto Abraham, quello che gestiva la
macelleria. Aveva detto che un gruppo di zingari era venuto a comprare della
carne e avevano pagato con soldi, soldi veri! E l’aveva detto con il tono di
chi si aspettava di essere pagato con soldi falsi o con bottoni.
Comunque,
quegli zingari non facevano nulla di male, alla fine dei conti. Avevano
assicurato al sindaco che se ne sarebbero andati dopo la fine dell’inverno,
perché a viaggiare, d’inverno, faceva freddo e Lima era piacevolmente calda,
come se ci fosse una sorta di eterna primavera.
Ogni
tanto, quando il tempo era soleggiato e mite, si mettevano in un angolo di una
piazza e suonavano. Nient’altro. Suonavano per un’ora, due, tre, quattro, senza
stancarsi mai.
La
gente arrivava, si fermava, batteva le mani e regalava un paio di monete,
buttate in un cappello a falde larghe con la stessa noncuranza con cui si
butterebbero i sassi in un fiume.
Fu
in una piazza che lo vide la prima volta. Stava andando dalla ferramenta a
comprare dei cacciaviti (non capiva perché ma i suoi cacciaviti sparivano ogni
volta che si voltava) e aveva sentito quella musica. Non l’avrebbe ammesso
neanche sotto tortura, ma gli piaceva la musica degli zingari. Era così
movimentata, frenetica, pazza, esagerata. Oppure lenta, melanconica, romantica.
Mescolavano strumenti e note in maniera magistrale e magari nessuno di loro
sapeva leggere uno spartito ma che la Madonna gli fosse testimone, tutti loro
suonavano come se Dio avesse messo la musica stessa nelle loro mani.
Si
fece largo nel gruppo di spettatori, riuscendo finalmente a vedere i suonatori
e lui.
Lui non l’aveva mai visto. Portava
dei vestiti dai colori sgargianti che lo facevano sembrare un pappagallo di
quelli che teneva in bottega il signor Paul e volteggiava qua e là suonando un
tamburello. Ballava, insomma. Sorrideva al pubblico e aveva due occhi azzurri,
limpidi e brillanti che sembravano sorridere mille volte più delle sue labbra.
Rimase
lì, immobile, in mezzo alla gente, a guardarlo ballare per ore e ore,
dimenticandosi completamente della ferramenta, del cacciavite, di sua madre che
si sarebbe arrabbiata se non finiva il suo lavoro, del signor Longman che si
sarebbe arrabbiato se non gli consegnava quel dannato tavolo finito entro il
giorno dopo e dei soldi che a casa non bastavano mai.
-
Lo spettacolo è finito.- disse una vocetta delicata, da elfo, che s’insinuò nei
suoi pensieri come l’acqua di un ruscello fra le rocce.
-
Cosa?- domandò cadendo palesemente dalle nuvole. Il ragazzo sorrise,
poggiandosi una mano su un fianco – Lo spettacolo è finito. Non vedi che è
buio? Anche noi dobbiamo riposare.
-
Ah, sì, beh, è giusto- balbettò torcendosi le dita, senza riuscire a raccogliere
abbastanza coraggio da riuscire ad alzare lo sguardo e guardare negli occhi la
ninfa, l’elfo, l’angelo, qualsiasi cosa fosse – sì, allora vado.
-
Aspetta. - si voltò di scatto, arrossendo, quasi come se gli avesse chiesto di
baciarlo, amarlo, portarlo via, sposarlo e vivere per sempre felici e contenti
in una casa con due gatti e un canarino – Non dimentichi qualcosa?- disse
spingendogli il cappello contro il petto.
Arrossì
ancora di più – Oh, sì, giusto, scusami, scusami davvero ero tipo, perso,
sì, perso nei miei pensieri, assolutamente perso, ecco io- si cacciò una mano
in tasca e ne estrasse tutti i soldi che aveva. Ma la mano tremava e la presa
era poco ferma e i soldi gli caddero dal palmo, riversandosi a terra. Rimasero
immobili a fissare le monetine che rotolavano qua e là – Oh, mio Dio!- guaì
chinandosi per raccoglierle – Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così tanto-
balbettò afferrando freneticamente le monetine. Il ragazzo si chinò – Ti
aiuto.- disse ridacchiando.
-
Perché ridi?- domandò osservandolo con la coda dell’occhio.
-
Perché sei buffo.- rispose il ragazzo – C’è ne sono altre?- domandò guardandosi
attorno.
-
No, le ho tutte.
Il
ragazzo restò a guardare le mani piene di monete dell’altro – Sei sicuro di
voler dare così tanto denaro?Guarda che quello che metti in questo cappello non
tornerà mai più da te.
-
Perché?
-
Questo è un cappello magico!- esclamò agitando il cappello vuoto nell’aria. Poi
rise – No, scherzo, è un normale cappello, anche piuttosto sporco. Solo che,
ecco, non vorrei che tu facessi cose di cui potresti pentirti.
-
Non mi pentirò.- assicurò buttando le monete nel cappello. Il ragazzo lo guardò
e sorrise e lui sentì che sì, non si sarebbe mai pentito.
-
Posso chiederti una cosa?
-
Cosa?
-
Come ti chiami?
Il
ragazzo s’infilò il cappello in testa – Troppo presto mio buon amico, troppo
presto. Ragazzi!- gridò voltandosi verso i suonatori, che stavano
chiacchierando poggiati a un muretto – Andiamo, che è tardi!
E
lui era rimasto lì, immobile e deluso come un bambino che Natale non solo
scopre di non aver ricevuto regali, ma anche che gli hanno rubato l’albero.
Il
ragazzo si stava allontanando con i suonatori. Si voltò, sorrise e si tolse il
cappello dalla testa. Neanche una monetina rotolò sulle sue spalle – Non c’è
trucco e non c’è inganno!- esclamò esibendosi in un grande inchino.
Lui
rise e applaudì.
Il
giorno dopo aveva litigato con il signor Longman, ma alla fine era riuscito a
consegnare quel dannatissimo tavolo e si sentiva piuttosto fiero di se stesso.
Se ne stava seduto sul bordo di una fontana, una rosa stretta fra le dita, lo
sguardo fisso sul crocchio di persone che gli impediva di vedere il ragazzo
ballare, ma quel giorno non gli importava un gran che.
Al
tramonto, fu lui a venire alla fontana, il passo leggiadro e rapido, il
tamburello ancora in mano – Non sei venuto a vedere lo spettacolo.- disse
puntandogli contro il tamburello, quasi offeso – Com’è, già non ti piace più?
Sorrise
leggermente imbarazzato – No, no, assolutamente- disse alzando una mano – solo
che preferisco parlarti da solo, invece che strizzarmi in mezzo alla folla.
Ecco, guarda, ti ho portato una cosa- gli porse la rosa, ancora bagnata
dell’acqua della fontana- l’ho tenuta con il gambo in acqua fino adesso, quindi
è ancora bella fresca.
Il
ragazzo guardò a rosa – Ecco io- disse allungando una mano per prenderla –
grazie. - sussurrò portandosela al viso, respirando a pieni polmoni l’odore
dolce e forte di quel fiore.
-
Mi merito di sapere il tuo nome, ora?- domandò con un leggero tremolio della
voce, chiedendosi se non stesse andando troppo oltre. Magari poteva offenderlo
e perdere per sempre l’occasione di sapere quel nome tanto agognato.
Il
ragazzo si sistemò la rosa dietro l’orecchio, lo guardò, sorrise e disse - No.
-
Lui
aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di ritrovarsi le labbra dello
zingaro sulla guancia, un bacio piccolo, leggero e caldo che lo portò sull’orlo
dello svenimento – Ma questo te lo sei meritato.
Saltellò
via, accompagnato dal suono del tamburello – Ti aspetto domani e ti voglio in
prima fila, capito?
Lui
sorrise e annuì.
Il
giorno dopo aveva ancora la camicia e i pantaloni sporchi che usava in
falegnameria. Aveva mollato a metà il letto dello sceriffo Grosby per andare a
vedere gli zingari e non ne era affatto pentito.
E
come poteva pentirsene? Quel ragazzo ballava così bene, quel giorno, da far
ingelosire gli Angeli.
Aveva
una rosa fra i capelli e una fustaccia rossa attorno ai fianchi. Alla fustaccia
erano state cucite decine di minuscoli campanellini argentei, che tintinnavano
deliziosamente a ogni suo movimento, accompagnandosi alla perfezione con il
suono del tuo tamburello.
-
Oggi eri in prima fila. - disse il ragazzo sedendosi sul bordo della fontana
accanto a lui – Ti è piaciuto lo spettacolo?
Si
voltò osservandolo con’aria trasognata – Immensamente. - sussurrò con un
sorriso ebete stampato sul viso. Il ragazzo sorrise – Hai visto la rosa?- disse
sfilandosi il fiore dai capelli – Ho fatto ricoprire di cera quella che mi hai
dato ieri. È venuta bene, vero?
Osservò
a lungo il fiore – Sì. Ma perché l’hai fatto?
-
Così non appassirà mai. - disse lui scoccando al fiore uno sguardo tenero di
cui si sentì profondamente geloso.
-
Se fosse appassita te ne avrei regalate delle altre.
-
Ma altre rose non sarebbero state questa.
-
Cos’ha di speciale?
-
È la prima- rispose sistemandosela fra i capelli – è l’unica prima rosa. Non ce
ne sarà mai un’altra. La prima e l’unica, l’unica prima.
-
L’hai messa storta.
-
Cosa?
-
È storta- allungò le mani, sistemando il fiore fra i capelli dell’altro – Ora
va meglio.
Fu
solo in quel momento che si accorse che tra il suo viso e quello del giovane
gitano c’era una distanza risibile e che il fiato caldo del ragazzo colpiva direttamente
le sue labbra. Cercò di voltare la testa, ma le mani bianche dell’altro gli
bloccarono il viso e quegli occhi azzurri si piantarono nei suoi – Kurt -
sussurrò con un filo di voce – io mi chiamo Kurt.
-
Io- balbettò avvertendo la faccia scaldarsi sempre di più – mi chiamo Finn.
Kurt
sorrise – Piacere di conoscerti, Finn.
Il
giorno dopo Kurt aveva ancora la rosa fra i capelli, ma la stola era azzurra.
Non ballava. Stava fermo davanti ai suonatori, muovendo appena la testa a ritmo
con quella ballata lenta e delicata, dal suono quasi evanescente. Alzò il
capo e lo guardò. Sorrise e aprì la bocca.
Una
nota. Una sola, lunga, alta, vibrante nota, che si levò nell’aria fino al
cielo.
E
poi cantò.
Finn
si rese conto che stava piangendo solo alla fine della canzone. Erano parole
che non capiva, che non aveva mai sentito, che non avrebbe mai sentito una
seconda volta, ma erano dolci, tristi e toccavano il cuore.
-
Perché piangi?- domandò Kurt.
-
Mi sono commosso.
-
Per la canzone?
-
Per la canzone.
Ancora
un giorno. Kurt stava in piedi poggiato a un muro, pantaloni neri e camicia
azzurra, insolitamente sobrio. Gli sorrise – Oggi niente spettacolo- disse –
voglio che tu venga a cena da me.
-
A cena da te?- Finn lo guardò stupito – Oggi?
-
Oggi.
Finn
si guardò attorno – Ne sei sicuro? Cioè, non saprei, magari quelli del campo
non mi vogliono.
-
La mia gente accetta tutti. È la tua che non accetta mai nessuno.
Kurt
sembrava offeso e a Finn non resse il cuore di vederlo a quel modo – Va bene.
Il
campo era ornato da ghirlande di fiori di carta colorati. C’era un fuoco enorme
acceso al centro di un circolo di cuscini buttati qua e là. Le donne
volteggiavano attorno al fuoco con le gonne lunghe ei vassoi pieni di cibarie
da arrostire. Alcuni uomini accordavano degli strumenti.
-
Ti piace?
Finn
si guardò attorno meravigliato – È bello.
-
E presto sarà pure meglio. - si voltò e agitò una mano – Papà, vieni un minuto
qui!
Un
uomo si avvicinò ai due. Era vestito in maniera quasi classica, mille volte più
sobrio di Kurt – Dimmi.
-
Ti presento Finn, è un mio amico.
-
Un tuo amico?- l’uomo lo guardò quasi sospettosamente – Da dove vieni, ragazzo?
-
Da Lima, signore- disse Finn stringendo fra le dita il cappello – sono un
falegname.
-
Falegname, eh?- l’uomo sorrise – Anche a me piace costruire qualcosa, quando
posso. Se ti va posso farti vedere qualche oggetto.
Finn
annuì.
Poco
dopo erano seduti davanti al fuoco e mangiavano a mani nude la carne arrostita
– Tu non sembri uno zingaro.- disse Finn tutto d’un tratto, mentre attorno a
loro infuriavano i canti e le danze.
-
Cosa?
-
Cioè, sei piccolo, hai la pelle chiarissima. Gli altri sono tutti molto scuri.
-
Mia madre era una gagé, come te. - disse il ragazzo spiluccando delle verdure –
S’innamorò di mio padre e decise di seguirlo nel suo girovagare. Rimase incinta
di me dopo poco tempo. Ma- abbassò il capo – purtroppo era sempre una gagé.
Questa vita non le si adattava. Morì presto di polmonite.
-
Mi dispiace per tua mamma- disse reprimendo l’impulso di abbracciarlo – e per
te. Capisco come deve essere stato. Sai, ho perso mio padre quand’ero molto
piccolo- sospirò osservando il fuoco – era partito come soldato durante la
guerra di secessione. Semplicemente lui- scosse la testa – non è più tornato.
Kurt
non si fece problemi e l’abbracciò. Profumava di buono ed era caldo e Finn
pensò che poteva benissimo mettersi a piangere lì, in quel momento preciso,
davanti a tutta quella gente.
Il
mattino dopo Finn era soltanto stanco. Lavorò con poca voglia al letto dello
sceriffo, dando gi ultimi ritocchi alle tremende decorazioni floreali per cui
la moglie dello sceriffo scalpitava tanto.
Qualcuno
bussò alla porta della falegnameria – Disturbo?
Finn
alzò lo sguardo e si ritrovò davanti Kurt, vestito sgargiante come un pappagallo
– Non c’eri oggi.
-
Dovevo lavorare. - disse con un sorriso – Ma prego, entra pure. Siediti, se
trovi del posto.
Kurt
si arrampicò sopra un tavolo, dedicandosi poi a fare un mucchietto di trucioli
con molta concentrazione per i venti minuti a seguire.
Fu
quando Finn poggiò lo scalpello che smise di ammucchiare trucioli – A cosa devo
la tua visita?
-
Niente, pensavo che potevamo uscire, oggi - disse dondolando i piedi nel vuoto
– dopo lo spettacolo, ma se hai ancora da lavorare possiamo anche fare un’altra
volta, insomma, non è obbligatorio uscire oggi.
-
No- disse Finn sorridendo – oggi va benissimo.
-
Allora seguimi.
Il
bosco era scuro e l’erba era umida. Kurt si lasciò cadere sotto un albero e
sorrise, facendo cenno all’altro di sedersi accanto a lui.
-
Vieni qua spesso?- domandò Finn passando una mano fra l’erba.
-
Più volte di quante mi piacerebbe ammettere.
Rimasero
fermi a lungo, immersi nella luce verdina che passava fra le fronde degli
alberi. Ogni tanto si sentiva il suono di qualche carrozza che correva sulla
strada vicina, i cocchieri che incitavano i cavalli e sgridavano qualche
passante incauto.
-
È bello qui- disse Finn sistemandosi con la schiena contro l’albero – è calmo.
-
Già.- Kurt poggiò il capo sul suo petto – Ma fra poco verrà l’inverno e non
potremo venire qui.
-
Perché?
-
Perché farà freddo.
-
Porteremo degli abiti pesanti.
-
E se farà ancora più freddo?
-
Accenderemo un fuoco.- Finn gli carezzò distrattamente i capelli, lo sguardo
perso verso l’alto.
-
E se farà ancora più freddo?
-
Staremo stretti e ci scalderemo a vicenda.
Kurt
alzò il viso e le loro labbra s’incontrarono. Fu un momento. Solo un momento,
che nella mente di Finn si allungò fino a coprire intere ore, rallentandosi
fino allo stremo.
-
Perché?- domandò con la gola secca, lo sguardo ancora perso fra le fronde.
-
Perché hai detto una cosa bella. Quello era un premio.
-
Posso avere un altro premio?
-
Solo se dici un’altra cosa bella.
-
Kurt.
-
Che c’entra il mio nome, adesso?
-
La cosa bella sei tu, Kurt.
Kurt
sorrise dolcemente, poggiandogli una mano sulla guancia – Credo che ti meriti
un altro premio.
Altro
giorno, altre carrozze, altri passanti incauti, un tramonto che portava l’odore
dell’inverno e delle foglie che cadevano.
Finn
passava lentamente le dita fra i capelli di Kurt – La verità è che non ho mai
baciato nessuno.
-
Nessuno nessuno?- domandò Kurt, le dita che vagavano sul petto di Finn,
disegnando piccole opere astratte.
-
Non ho mai avuto la curiosità di baciare una donna. E, beh, non puoi metterti a
baciare i maschi in giro per Lima, anche se vorresti. Come minimo finiresti in
prigione. Voi potete baciare i maschi?
-
Diciamo che non è una cosa disapprovata, ma non è che t’incitino a farlo.
-
Io ti piaccio?- la buttò lì, quasi come una considerazione sulle nuvole o sui
raggi di sole sempre più pallidi e sempre meno caldi.
-
Finn Hudson - sbottò Kurt guardandolo storto – io non bacio i gagé così, perché
mi va. Tu mi piaci. - poggiò il viso sul suo petto e sospirò – Tu sei buono.
Sei speciale.
Finn
sorrise al vento e lo strinse a sé.
A
Natale Kurt si presentò nella falegnameria vestito di rosso – Lavori anche
oggi?
-
Nessuno lavora al posto mio. - disse Finn sorridendo – A cosa devo la visita?
Kurt
gli si avvicinò e lo baciò sulle labbra – Buon Natale, Finn.
-
Ti amo.
Kurt
lo guardò stupito. Finn rimase fermo. Le parole erano fluite fuori delle sue
labbra normalmente, quasi come non fossero altro che respiro. Diventò
abbastanza rosso da non stonare accanto al vestito di Kurt e non riuscì neanche
a trovare il coraggio di fare anche solo una singola mossa – Io, ecco-
-
Ancora buon Natale, Finn.- sussurrò Kurt prima di saltellare fuori del negozio.
Finn
rimase a fissare la porta.
-
Ho paura.- Kurt era in piedi davanti a lui. Affondava nella neve fino alle
caviglie e sembrava evidentemente intirizzito – Ho paura.
-
Di cosa?- domandò Finn sistemandosi contro l’albero – Di cosa hai paura, Kurt?
-
Della neve.- disse il ragazzo guardando a terra – La neve si è portata via la
mia mamma. Porterà via anche me, prima o poi, ne sono sicuro.
Finn
gli si avvicinò e l’abbracciò forte, sollevandolo da terra – Non finché ci sono
io.
Kurt
sorrise – Sei caldo.
La
neve si scioglieva, la terra era molle sotto le loro scarpe e sui rami spuntavano
i primi boccioli.
-
Non hai più paura, non è vero?- domandò Finn stringendogli le braccia attorno
alle spalle – La neve è andata via e tu sei ancora qui. Nessuno ti porterà via.
Kurt
gli prese una mano e la baciò – La primavera, Finn - sussurrò – la primavera mi
porterà via.
Quando
Finn non lo vide ballare in piazza pensò che era solo perché avevano deciso di
riposarsi. O magari erano andati in un'altra piazza oppure avevano scelto altri
orari oppure avevano fatto festa fino a tardi e tutti dormivano oppure Kurt era
rimasto con suo padre a guardarlo scolpire una di quelle piccole statuette a
forma di animale. Finn non aveva fatto altro che assillare Burt chiedendogli
d’insegnare anche a lui come si faceva a fare bestioline così dettagliate, ma
l’uomo si era sempre rifiutato.
Tirò
un calcio a un sasso e tornò a casa.
Tre
giorni dopo era davanti al campo su cui si erano accampati tutto l’inverno.
L’erba era gialla, riarsa e piegata su se stessa e sembrava chiedesse pietà.
Sarebbe
rimasto lì senza capire ciò che stava succedendo per giorni e giorni se non
fosse stato per un piccolo angelo biondo di otto anni con la busta del pane
sotto braccio – Se ne sono andati tutti- disse guardandolo con certi occhioni
azzurri e luminosi che faceva male al cuore vederli – durante la notte, qualche
giorno fa, signore.
Lasciò
un dollaro al bambino e corse verso la strada, bloccando la prima diligenza che
trovò.
Si
fermò alla città più vicina e lì cercò Kurt, ma non c’era. Quindi prese la
prima diligenza che trovò e andò alla città vicina e li cercò Kurt, ma non lo
trovò.
Quindi
prese la prima diligenza che trovò e andò alla città vicina e lì cercò Kurt, ma
non lo trovò.
Quindi
prese la prima diligenza che trovò e andò alla città vicina e lì cercò Kurt, ma
non lo trovò.
Andò
avanti così tutta l’estate, con sua madre che gli mandava lettere angosciate a
cui lui rispondeva una volta sì e dodici no, i vestiti che diventavano più
larghi e le tasche che diventavano più vuote sotto il sole cocente.
Tornò
a Lima d’inverno. Qualcuno lo guardò in faccia, altri lo ignorarono, alcuni lo
salutarono.
Lui
andò fino alla piazza. Kurt era seduto a gambe incrociate sul muretto della
fontana, la rosa ancora fra i capelli spettinati, i vestiti rovinati, il volto
smagrito.
Finn
arrancò fino alla fontana e cadde in ginocchio davanti a lui – Volevo venire
con te- disse con la voce rotta – e ti ho cercato.
Kurt
si chinò verso di lui, stringendolo disperatamente fra le braccia – Volevo
restare con te- disse fra le lacrime – e ti ho aspettato.
-
Ci siamo cercati senza mai trovarci. - balbettò Finn ridendo, le lacrime che
gli solcavano il volto.
-
Siamo degli stupidi.
-
Assolutamente.
-
Ti amo. - Finn sgranò gli occhi e Kurt si stupì di quanto naturalmente quelle parole
fossero uscite dalle sue labbra. Era stato come espirare.
Finn
pianse più forte e affondò il viso nelle pieghe della sua camicia. La neve
cominciò a scendere lentamente.
Quando
Carole arrivò in piazza dovette farsi largo tra il crocchio di gente per
riuscire a vederli.
Coperti
dalla neve, abbracciati, sorridenti, freddi come ghiaccio. Avvicinò una mano al
volto del figlio, togliendogli la neve dal viso. L’altro ragazzo lo conosceva,
veniva spesso nella falegnameria. E Finn aveva detto che voleva cercarlo e che
non voleva stare senza di lui.
Si
asciugò una lacrima e pensò che sarebbe stata una buona cosa farli seppellire
vicini. Perlomeno non si sarebbero sentiti soli, là sottoterra.
A.Corner___
Parto
di un giorno d’ispirazione. Forse la mia ultima fic dell’estate. E sì mie care,
purtroppo dovrò lasciar perdere la scrittura. Tra test d’ammissione
all’università, vacanze e mini-naja è già tanto se trovo il tempo per sbattere
la testa contro un muro.
Passando
oltre. Non sono una grande esperta delle tradizioni gitane e non sono neanche
sicura che nell’America del 1890 ci fossero tutte ‘ste comunità gitane in
giro per l’America. Qualcosa ho trovato, ma lasciamo perdere, ‘kay? Facciamo
finta che le mie parole sono somme e supreme e che non scrivo castro nate
storicamente inesatte.
Visto
che a questo giro non ho spiegato un tubo di nulla se non l’essenziale,
spieghiamo due cose:
Finn
e Kurt hanno entrambi venticinque anni. L’anno è il 1980. Non ho altro da
spiegare.
Ah,
gagé è la parola che indica i non-zingari.
Fine.
Buonanotte
gente.