Elena
guidava.
E
lasciava i pensieri salire alla mente, come se rimescolasse un tea in una
tazzina.
Amava
la matematica perché era universale e univoca. Non c'era bisogno di ricorrere a
lusinghe, ma solo al raziocinio ed alla fantasia per capirla, perché non c'è
materia più ricca di creatività e fantasia della matematica, e, proprio per
questo, equa e unica.
Amava
la matematica perché era rigorosa e, nonostante questo, creativa e in grado di
creare un nuovo punto di vista.
Amava
l'astrazione e l'esattezza e la fantasia.
Amava
creare, risolvere problemi che astraessero e non fossero toccati dalla mancanza
di onestà ed imprecisione. Soprattutto, si sorprendeva a pensare, era al tempo
stesso la cosa più umana e fantasiosa esistesse e la più perfetta. Apprezzava
l'eleganza di una teoria, la delicata bellezza di una funzione e la raffinata
semplicità di un teorema.
Amava
la matematica perché era pulita ed era così e poche storie, la soluzione
diventava univoca una volta trovata la più lineare ed elegante.
Si
era infilata nel percorso più lungo, con le sue prime storie sbagliate, come se
la prima lezione data dalla scienza non l'avesse appresa, nonostante tutto, e
fosse un hobby da sviluppare da sola, un conforto e un'isola di cui nessuno
sospettava.
Suo
fratello, lui che era un genio matematico, le diceva che amava la matematica
perché era rassicurante. Lei rispondeva che l'amava perché era onesta. Era
quella e poche balle, anzi, nessuna. Solo verità e onestà.
Ed
era libera, libera e entusiasmante e creativa, come solo la ricerca può essere.
Era come esplorare un territorio vergine, qualcosa di nuovo. Era lei, e solo
se stessa, con un linguaggio perfetto. Un linguaggio in cui ogni sovrainsieme
spiegava il contenuto, quasi in un gioco di scatole cinesi. L'affascinava
l'idea di qualcosa senza fine, in cui non c'era possibilità di altro che non
fosse infinito, che non fosse perfetto.
Era
come essere fidanzati, ma senza il rischio di essere traditi, era come essere
ubriachi, ma senza il rischio di fare incidenti in macchina. Era essere
completi.
E'
difficile spiegare cosa voglia dire, ma fare ricerca è qualcosa che riempie
l'animo del tutto e non lo lascia andare via. E' buffo dirlo, perché è una
vocazione, ma è una vocazione più strana di quella del prete o del medico. Ed è
strano, perché è anche come un innamoramento per tutta la vita.
Era
buffo pensarlo, ora che insegnava al liceo, tutte le mattine la sveglia alle
sei per raggiungere quella scuola ai confini del mondo, per quella supplenza annuale
in quel liceo classico, convinta che un giorno o l'altro sarebbe finita fuori
strada mentre raggiungeva la sede, persa in qualche riflessione.
Era
strano vedere quei ragazzi, con le loro vite brulicanti, con i loro sogni
ancora in boccio, le vocazioni, le famigli assenti o presenti individuabili
solo da uno sguardo. La intenerivano, quando non risolvevano i semplici
programmi di matematica della scuola o li sentiva lamentarsi delle versioni di
greco (e riflettere che una laurea in lettere classiche e un dottorato li aveva
raccolti anche lei, tanto tempo prima, prima di quello, prima di capire la
lezione e finire per volere solo chiarezza nella sua vita, per tornare alle
linee pulite e perfette, per capire che importa solo studiare, non la materia,
perché è gioia e vita allo stato puro).
Ed
era strano inerpicarsi su quelle colline, tra le pecore tranquille, i pascoli
verdi e gli alberi, ricordare le ambizioni e i sogni, sfioriti con la primavera
della vita. Perché nulla aveva trattenuto i sogni che aveva nutrito, cullato in
seno, i sogni di diventare famosa e importante, una grande studiosa,
un'accademica ammirata, prima che tutto crollasse in un giorno solo, e la
semplicità la tentasse, l'amore per la ricerca le impedisse di prenderla come
la sconfitta che non era. Perché studiare e fare ricerca non potevano
portarglielo via, non potevano impedirglielo, perché era parte di lei, lo
sarebbe sempre stata. E, quindi, un lavoro, perché non si vive di sogni e
libri, ma anche di pane, e quegli studi di matematica, da capo, quasi come a
voler affrontare altro. Era lì, ora a guidare, a lasciar vagare i pensieri, a
ricordare le sue lauree, una trentacinquenne che viveva con i genitori, che
aveva sempre lavorato, fin da giovane, brillante, prima della classe che
inanellava borse alle prime delusioni.
E
rifletteva su quanto fosse stata strana la vita con lei, con un senso di
ammissione su se stessa, su quel matrimonio perfetto finito con un incidente in
macchina, e su quei teoremi che aveva risolto e che non pubblicava, perché non
aveva senso pubblicarli, dato che aveva abbandonato l'ambizione quando era
morto suo marito.
Ed
Elena guidava, continuava a guidare, lasciando libero il pensiero di spiegarsi.
E guidava, perché, per quanto la vita fosse dura e sarcastica, aveva un grande
amore e poteva definirsi "libera".