CAPITOLO I:
Solo l’ultimo sforzo!
Se dovessi fare un
bilancio nella mia vita credo che il numero adatto sia un bel dieci.
Non fraintendiamoci, non
come voto, no, per quello credo che basterebbe un cinque, a voler
essere generosi un cinque più.
Il dieci è il
numero ricorrente nella mia vita ultimamente.
Dieci i secondi in cui
penso di essere giusta in qualsiasi situazione, dieci i minuti di
ritardo fisso al lavoro, dieci le ore di sonno che mi servirebbero per
essere fresca e pimpante di prima mattina, dieci i giorni di arretrato
nel pagare l’affitto, dieci settimane che non parlo con i
miei genitori, dieci mesi che non varco la soglia della palestra, dieci
anni che non mi innamoro davvero di una persona.
Dieci i ragazzi che in
tutti questi anni ho conosciuto e ho pensato che potessero essere
“quello giusto”.
Tutti e dieci sono
rimasti nella mia vita, come cugini, cognati, amici.
Ognuno di loro ha
incontrato me, ci è uscito e poi si è felicemente
accasato con una a caso tra amiche, parenti e colleghe.
“Siete sole,
single e disperate? Beh statemi vicine e prima o poi l’uomo
giusto vi sconvolgerà la vita.”
Come ho già
detto sono dieci anni che non mi innamoro e quindi tutti questi fiaschi
non mi hanno turbato poi molto, a parte quel bruciore allo stomaco ogni
volta, quella consapevolezza dilagante che si, c’è
tanta gente in giro migliore di me, sia per l’aspetto fisico
sia per le qualità “morali” ma tutte
intorno a me devono stare?
Ma a parte qualche
momento di sconforto sono felice che la gente intorno a me sia felice!
Giusto?
Molto felice, felice da
morire, felice alla follia, felice come una Pasqua. Felice.
La ragazza si guardò intorno spaesata, appena in tempo per
accorgersi di essere arrivata, si alzò velocemente,
infilandosi per un pelo tra le porte automatiche che si stavano
già chiudendo pensando da aver appena scritto una bugia. Un
enorme bugia sul suo diario.
Una bugia immensa in un diario non ha senso.
Dovrebbe essere il “luogo”
in cui si è completamente sinceri, almeno con sé
stessi e no, lei non era felice. Affatto.
Certo non era il tipo che si rinchiudeva in una stanza a piangere o si
ingozzava di popcorn davanti a film strappalacrime, ma comunque sapeva,
sapeva perfettamente, di non essere davvero felice.
Lo sentiva.
Ferma sulle scale mobili che l’avrebbe portata fuori dalla
metro, afferrò il diario con la spessa copertina di finta
pelle rossa, infilò l’indice tra le pagine
trovando quella su cui aveva appena scritto e ci scribacchiò
velocemente una nota a margine.
P.S: No, cavolo, questo
è il mio diario e no, cavolo, qui non
dirò bugie, quindi no, cavolo, non sono felice.
Il sole splendeva limpido e tranquillo nel suo cielo immenso e lei
camminava frettolosa tra la folla che si accalcava verso la stazione
della metro, dopo vari tentativi riuscì ad allontanarsi e a
camminare con maggiore velocità.
Era in ritardo, come sempre. Ma i danni si potevano ancora contenere.
Insomma dieci minuti sono concessi a chiunque!
E lei non era chiunque, no?
Lei era il numero tre.. No forse quattro, in ordine di importanza per
la cerimonia giusto?
Sposa, sposo, prete e poi c’era lei.
La damigella d’onore. O meglio la testimone della sposa.
Odiava quella pessima abitudine che si stava diffondendo anche in
Italia delle damigelle della sposa.
Perché un’abitudine americana deve essere
necessariamente copiata?
Perché quattro persone devono vestirsi con lo stesso
identico vestito dai toni pastelli, precedere la sposa facendo
svolazzare ovunque petali di rose come bambine di cinque anni e
fingersi anche felici?
Perché?
Non lo sapeva, ma tutti la trovavano una cosa così carina
che non riusciva mai a dire di no, ad opporsi, ed era la nona cerimonia
alla quale presenziava in qualità di damigella
d’onore.
Ovvio, dopo aver fornito loro l’uomo giusto alle spose non
restava altra scelta che ricambiare il favore infilandola in un
orripilante abito dai colori che oscillavano tra il giallo limone
marcio, il verde pisello ammuffito e il rosa confetto scaduto.
Orribile.
Tutti vestiti dalle fogge più strane, piene di balze, di
volant, di pizzo.
E dire che l’Italia era considerato il Paese della grande
moda e del buon gusto.
Evidentemente la propensione a conciare quelle che dovevano essere le
persone di sesso femminile più importanti per la sposa come
bambolotte di pezza e renderle talmente poco desiderabili in modo da
non tentare in nessun modo lo sposo, doveva essere compreso nel
pacchetto matrimonio all’americana che iniziava con
l’annuncio: “Non
immaginerai mai, faccio il matrimonio in stile americano e tu, oh tu
Rica, devi assolutamente essere la mia damigella
d’onore!”
E quella era la nona volta.
C’era un limite a tutto.
- Sarà l’ultima volta. Lo giuro solennemente!-
esclamò a gran voce appena arrivata davanti casa di Mara.
- Oh lo spero proprio, mi sta pestando il piede!- protestò
una voce a poca distanza da lei.
La ragazza spalancò gli occhi facendo un saltello
all’indietro.
- Mi.. Mi scusi!
- Stia semplicemente attenta. Se fa un danno irreparabile sa cosa
può farsene delle sue scuse?
L’uomo che aveva parlato era chino sulla sua lucida scarpa
nera, valutando l’entità del danno che la sua
decolleté dal tacco alto poteva aver fatto, poteva vedergli
solo i capelli scuri, abilmente scomposti.
Che razza di persona parlava senza nemmeno guardare in faccia la gente?
- La sua preziosa calzatura non ha subito nessun danno, stia tranquillo.
Si voltò entrando di gran corsa nella casa super affollata.
Immediatamente il suo nome risuonò per l’intera
casa.
- Rica! Finalmente!
- C’è Rica?
- Dov’è Rica?
- Rica vieni al trucco.
- Rica, i capelli!
- Rica!
- Rica!
- Ricaa!
Maledizione! Ma cos’avevano tutti? Perché la
chiamavano in quel modo? Le sembrava di impazzire, si fermò
in mezzo all’ampio salotto, strinse al petto la
custodia amaranto che conteneva il suo “preziosissimo”
abito lilla, guardando in direzione della porta.
Poteva ancora fuggire? Poteva?
La porta era ormai fuori discussione, Alessia e Margherita stavano
arrivando verso di lei da quella parte ma la finestra era abbastanza
vicina, era il piano terra, forse se avesse corso in fretta sarebbe
riuscita a gettarsi fuori, non avrebbe dovuto farsi molto male no?
Quanto male ci si può fare gettandosi dal piano terra? Era
solo un metro, un metro e venti no?
Non ne aveva idea, ma certamente non poteva farsi troppo male, giusto?
Mosse il primo passo verso quell’unica via di fuga,
sinceramente intenzionata a gettarsi a testa in giù da una
finestra che tra l’altro era pure chiusa, pur di non
affrontare quello.
Ma due mani la afferrarono, la fecero sedere su una sedia mentre altre
due mani si infilavano tra i suoi capelli e altre due mani ancora
iniziavano a solleticarle il viso con pennelli, spugnette e aggeggi
vari.
Mani ovunque!
In quante erano?
Perché non poteva dire semplicemente no grazie, sorridere e
non sentirsi in colpa?
Non ci riusciva.
Sorrideva e accettava, sottoponendosi a torture inaudite.
Scelta della chiesa che comportava ore e ore di valutazioni e crisi di
pianto.
Scelta del ristorante che comportava ore e ore di valutazioni e crisi
di pianto.
Scelta del menù che comportava ore e ore di valutazioni e
crisi di pianto.
Scelta delle bomboniere che comportava ore e ore di valutazioni e crisi
di pianto.
Scelta degli addobbi floreali che comportava ore e ore di valutazioni e
crisi di pianto.
Scelta degli abiti delle damigelle che comportava ore e ore di
valutazioni e crisi di pianto.
Scelta della meta per il viaggio di nozze che comportava ore e ore di
valutazioni e crisi di pianto.
Scelta di quale modello di frigo mettere in cucina che comportava ore e
ore di valutazioni e crisi di pianto.
Scelta del nome dell’eventuale primogenito che comportava ore
e ore di valutazioni e crisi di pianto.
E poi c’era il dulcis in fundo.
La tortura delle torture.
La regina dei supplizi.
La cosa che più le procurava sofferenza fisica e mentale.
Scelta del vestito che comportava ore e ore e ore e ore e ore di
valutazioni e crisi di pianto e crisi di pianto e crisi di pianto.
Un calvario.
Perché l’Fbi torturava gli imputati con
interrogatori estenuanti, lampade al neon, privazione di cibo e acqua?
C’era un metodo più semplice ed efficace.
Seguire una sposa durante l’organizzazione del suo matrimonio!
Chiunque, anche il più convinto, anche il criminale dei
criminali si sarebbe redento di fronte ad una simile tortura.
Certamente.
- Allora? Perché sei in ritardo?
Mara comparve nel suo abito che ricordava tanto una delle meringhe
appena sfornate che rubava nel laboratorio di pasticceria di sua nonna
quando era piccola e le pose la fatidica domanda.
Perché era in ritardo?
Perché ogni santo giorno, in qualsiasi occasione lei
ritardava?
Si preparava sempre con largo anticipo, si metteva ad aspettare,
seduta, che fosse il momento giusto per avviarsi ma poi ogni volta
accadeva qualcosa.
Il telefono squillava e un centralinista sottopagato e afflitto dai
debiti la supplicava di accettare una “promozione
imperdibile”, bussavano alla porta e il suo
vicino di casa, un ometto di settant’anni che la trattava
come “la
nipote che non aveva mai avuto”, la invitava a
prendere il caffè da lui in modo che lei potesse spiegargli
il funzionamento di qualche moderno aggeggio tecnologico totalmente
inutile che lui acquistava ma che poi matematicamente non sapeva usare,
la lavatrice finiva il lavaggio ed era un peccato lasciare i panni nel
cestello, se li avesse appesi subito, al suo ritorno sarebbero stati
già asciutti e allora poteva anche fare una nuova lavatrice,
tanto ci volevano solo pochi minuti no? Così i vestiti
quando lei sarebbe rientrata alla sera sarebbero stati già
lavati e pronti per essere messi ad asciugare.
Insomma ce n’era sempre una.
Quella mattina Tommy, il gatto di Bianca, la figlia di altri suoi
vicini si era infilato in casa sua entrando dal balconcino della cucina
e si era barricato sotto al letto.
Nemmeno la sua padroncina era riuscita a tirarlo via facilmente.
Non era servito a nulla la ciotola piena di latte, né quella
zeppa di croccantini al pollo. Nemmeno la scopa che lo spingeva
delicatamente lo aveva impressionato. Si era limitato a miagolare
qualcosa infastidito e a cambiare posizione, acciambellandosi ancora di
più.
Stupido gatto, chissà perché aveva quella
passione proprio per il suo letto.
- Beh io.. Ecco vedi..- provò a spiegare lei, ma la sposa
troncò sul nascere le sue parole.
- Non propinarmi la scusa del gatto perché non ci casco
stavolta. Siamo già in ritardo di venti minuti e devi ancora
finire di prepararti..
“Non oso
immaginarmi il ritardo che avrai quando sarai tu a sposarti”
continuò Rica tra sé e sé, anticipando
le parole della sposa.
Le dicevano tutti la stessa cosa.
-Non oso immaginarmi il ritardo che avrai quando sarai tu a sposarti!-
concluse quella infatti, scuotendo la testa e posandosi le mani sui
fianchi somigliando ancora di più a quella enorme meringa
che le ricordava l’infanzia.
- Non ci vorrà molto, credo che mi stiano strappando tutti i
capelli così non ci sarà bisogno di acconciatura
e penso che anche gli occhi stiano per essere asportati.. Cosa diavolo
state..?- provò a dimenarsi ma la sposa la trattenne per una
mano.
- Non osare muoverti. Lasciale lavorare, forse riusciremo a non far
cambiare idea a Max e lo troverò ancora all’altare
quando arriverò in chiesa con un “mostruoso”
ritardo.
Ormai afflitta dal senso di colpa Rica si accasciò sulla
sedia, sopportando con coraggio l’ennesima tortura.
La chiesa era piena zeppa e l’odore di fiori era talmente
intenso da risultare perfino rivoltante.
Si fece coraggio, cercando di non pensare che per qualche orribile
minuto sarebbe stata lei il centro dell’attenzione.
Il tempo di attraversare la navata gettando manciate di petali fucsia
sul pavimento.
Afferrò il cestino e iniziò la sua parata
sforzandosi di non ricordarsi che indossava quell’osceno
abito color lilla lucido con volant di una tonalità
più chiara che le lasciava scoperti i polpacci non proprio
perfetti e che le dava l’aria della bambina di sei anni
daltonica e senza il minimo gusto.
E fu in quel momento che lo vide.
Capelli scuri un po’ lunghetti che sfioravano il colletto
inamidato della camicia bianca, il pizzetto curato, gli occhi nocciola,
brillanti.
Carichi d’amore.
Ok, era Max, lo sposo, e lo sguardo pieno d’amore era
indirizzato oltre le sue spalle, all’inizio della navata dove
presumibilmente la sposa aveva appena fatto il suo ingresso al braccio
del padre.
Gli occhi non erano più puntati su di lei.
I fiori dentro il cestino erano finiti e lei si era messa seduta nella
prima panca insieme alle altre damigelle.
Eppure un tempo Max aveva guardato lei negli occhi e per una frazione
di secondo, entrando in chiesa, era stato bello immaginare che quello
sguardo pieno di amore e di aspettative fosse davvero indirizzato a lei.
Ma no.
Lei era la damigella della sposa. Ancora.
E lo sposo era un suo ex. Ancora.
Certo non un ex importante.
Lei non aveva ex importanti, a parte uno che comunque ormai era sposato
da tempo.
Però Max era uscito con lei ed era così che aveva
conosciuto Mara.
Ancora.
Sorrise stringendo il manico del cestino ormai vuoto.
Quasi tutte le sue amiche e colleghe si erano sposate.
Forse le sarebbe aspettato un periodo di calma.
Niente più matrimoni per qualche anno.
La pace assoluta.
L’ultimo sforzo.
Solo l’ultimo sforzo.
Ed
eccomi qui con un'altra avventura! Sono pazza, lo so! Ho altre sotrie
da finire ma questa storia si sta praticamente scrivendo da sola, non
riesco a smettere! Quindi eccoci qui! Spero che vi piaccia, io ne sono
stranamente soddisfatta. Mi raccomando fatemi sapere che ve ne pare!
Bacioni. Manu!
Al prossimo capitolo vi metto le foto e il banner.
Mara con abito da sposa
Max vestito da damigella(senza offesa per nessuno ma a me non piace)/a> Per chi non l'avesse capito questa è Rica:
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