All’inizio doveva essere un mix tra Sex and The City e Friends. Una commedia piacevole e gentile, qualcosina con cui
svagarsi e bla bla bla.
Non avevo idea che i personaggi mi si
sarebbero ritorti contro, come marionette petulanti che tagliano i fili a chi
li sta muovendo, e che si sarebbero mossi come pareva e piaceva a loro.
Una volta finitola
ho deciso di rivederla, ricorreggerla, mettermi le mani tra i capelli e agire
di conseguenza mettendo dei paletti che devo spiegarvi, onde evitare, poi,
inutili lamentele, quindi partiamo pure in quarta.
Questa fanfiction
è OOC: è lo è per i motivi esplicati
sopra; ma ho il dovere di dirvi che i personaggi hanno dai diciannove anni in
su. Questo non è il 4° campionato di beyblade
da molti autrici descritto, e si suppone che i loro caratteri siano maturati,
sviluppati, cambiati.
Malgrado la maggior parte di loro sia assolutamente
IC, vi sono quei pochi che a mio avviso non sono nel personaggio – ve ne
accorgerete – e ho preferito mettere quest’avvertimento per evitare di dar
fastidio a qualcuno fan sfegatato del character;
Questa fanfiction
è Lime e di rating arancione: prende pur sempre spunto da Sex and the city, vi sono alcune scene
dove il sesso è ben camuffato ma lo si percepisce lo stesso, e il rating ho
preferito alzarlo tanto – a mio avviso è fin troppo alto, ma non si sa mai –
per proteggere tutti. Abbiamo occhioni delicati, qui…
Questa fanfiction
è una commedia, benché talvolta il
tono sia un po’ più serioso dei miei lavori precedenti, e ho posto sentimentale al posto di romantico per
essere coerente con la trama della fanfiction.
DISCLAIMER (OBBLIGATORIO)
La band delle Cloth Dolls è stata inventata e
realizzata ispirandomi a quella dei Pretty Reckless, realmente esistente. Le canzoni che inserirò sono
specificatamente loro e immesse nella fanfic perché
adatte al contesto e ideali nella situazione, non a scopo di lucro.
Ogni riferimento a persone o fatti
realmente esistenti è puramente casuale; o quasi…
E, ora, dopo tutto questo tono serioso e
da maestrina, posso finalmente rilassarmi…
“Overboard” (=
‘Alla deriva’) è nata a Febbraio 2011, prendendo spunto da una
delle mie tante chiacchierate notturne con Avly – le
nostre conversazioni sono sempre foriere di elucubrazioni mentali pazzesche o
idee geniali – e, dai primissimi del mese, mi sono cimentata in questo nuovo
progetto con entusiasmo e grinta, accantonandolo soltanto per i Missing Moments di
RMA.
Avevo da subito chiaro che se non avessi
stilato la scaletta e non mi fossi fatta aiutare da qualcuno sarei stata nei
pasticci: Avly e Lily_92 mi sono state accanto, la
prima correggendo come beta i capitoli, la seconda, come la più cara delle
amiche, pronta a sostenermi e a supportami sempre,
ogni qualvolta ne avessi bisogno, per infondermi il coraggio e lo sprint
necessario per affrontare il tutto.
Senza di loro, sarei stata nei pasticci.
(Per non dire qualche altra cosa. u_u)
Spero non vi siate annoiati a leggere
tutta questa filippica ma, credetemi, è veramente necessaria al fine di capire
alcuni punti della storia e di evitare, più in la inutili critiche (visto che ho notato che la maggior parte dei
lettori non legge gli avvertimenti e poi si lamenta se in una fanfic ci sono certe scene… -____-‘’’’)
Detto tutto questo, vi lascio al primo
capitolo,
Spero veramente vi piaccia,
A Lily_92:
Questa fanfic-telefilm
non sarebbe stata la stessa
Senza i suoi flash mentali
e i suoi scleri che hanno contribuito
Ad ispirarmi e ad
entusiasmarmi anche quando tutto pareva scemare.
Il ringraziamento è
d’obbligo, così come la dedica, che ci sta tutta!
Overboard
A woman left lonely
will soon grow tired of waiting,
She'll do crazy things, yeah, on lonely occasions.
A simple conversation for the new men now and
again
Makes a touchy situation, when a good face come
into your head
And when she gets lonely, she's thinking 'bout her
man,
She knows he's taking her for granted…
A Woman left Lonely – Janis Joplin
***********************
Rivestendosi in fretta, stette
bene attenta a non svegliare il ragazzo che era stato preso da un colpo di sonno
non indifferente.
Mordendosi le labbra, allungò le
braccia per prendere la pochette che, se non ricordava male, era stata lanciata
verso la poltrona ed era andata a finire contro il comodino non si sapeva bene
come; la verità era che, in quei momenti, in quelle sere, non si sapeva mai di
preciso cosa accadeva, specie con più di tre drink in corpo.
Non badando al leggero mal di
testa che minacciava di non farla ragionare, ed imponendosi di dover andare
all’università a tutti i costi, raccolse le sue cose, facendo sparire ogni
traccia di sé e del suo passaggio;
sbuffò impercettibilmente al pensiero di non aver chiuso occhio quella notte:
l’aveva semplicemente trascorsa a fare… Qualcosa di meglio.
Si chiuse la porta del monolocale
alle spalle più piano che poté, e una volta fuori, si accinse ad andare alla
ricerca del primo bar disponibile: un caffè e una buona colazione sarebbero
stati l’ideale per darsi una bella svegliata, senza contare che doveva prendere
l’autobus per arrivare a casa.
Le sei del mattino: per avere
sonno ce l’aveva eccome, ma tanto, tempo due ore, e avrebbe ricevuto la
telefonata giornaliera da parte di sua madre, ragion per la quale dormire
sarebbe stato inutile.
Non appena intravide l’insegna di
un bar, vi si fiondò immediatamente, ordinando un caffè forte e un cornetto
alla crema: a Tokyo, nel suo quartiere, non l’avrebbero nemmeno riconosciuta in
quella mise da Venerdì sera, che avrebbe grandemente stonato in una tranquilla
zona di Tokyo specie il Sabato mattina dove tutti erano a dormire; invece lì, a
New York, nell’Upper West Side, nessuno la squadrava più di tanto.
Le persone erano abituate a
vedere di tutto, e non era certo una ragazza che di prima mattina si presentava
in un bar vestita come se dovesse andare ad un concerto rock, che poteva
scandalizzare.
Quella era New York, la grande
mela, la metropoli non dormiva mai, che ventiquattr’ore su ventiquattro era
sempre affollata e caotica: non si poteva mai sapere con chi ci si sarebbe
svegliato il giorno dopo, né cosa sarebbe avvenuto nelle ore successive; era
imprevedibile, magica, capricciosa, ma non si poteva fare a meno di
amarla.
“Grazie.” esclamò, contenta, non
appena il barista le pose dinnanzi caffè e cornetto; ebbe appena il tempo di
zuccherare la bevanda, quando la tv dietro di lei annunciò un’edizione
straordinaria.
“Notizie dal mondo dello
sport.” fece il giornalista. “Si è da poco conclusa ad Atene la
conferenza stampa che vedeva riunirsi le maggiori rispettabilità del mondo del
beyblade: il presidente Daitenji, per la
BBA, ha annunciato l’apertura di un nuovo campionato mondiale
a New York, e l’inizio è previsto per la prossima settimana.”
La ragazza sgranò gli occhi
castani per poi aggrottare le sopracciglia con fare sospettoso.
Di già? Ma prima ci sono le selezioni nei paesi d’origine, solo dopo
poche settimane vi è l’effettivo inizio del torneo…
Ascoltò attentamente la parte
restante della notizia, ma più il giornalista sproloquiava, meno era convinta;
bevve il caffè tutto d’un fiato e scosse la testa, piluccando il cornetto.
C’è puzza di marcio. E poi perché avrebbero dovuto dare una notizia
così alle sei e mezza della mattina?
Lasciò velocemente i soldi sul
bancone ed uscì, decisa a prendere l’autobus: doveva tornare a casa e
collegarsi ad internet: non c’era tempo per star lì a bighellonare.
La cenere cadde lentamente dalla
sigaretta, e un paio di occhi verdi la osservarono severamente volare via,
trascinata dal vento: incredibile come essere leggera talvolta pregiudicasse
pregi e difetti, pro e contro.
Meglio essere come la cenere
della sigaretta bruciata, che una volta che cadeva andava dove trascinata, in
balia del vento e di tutti, oppure meglio stare con i piedi ben piantati per
terra, e decidere per sé dove andare, e dove non voler andare?
Era sempre stata una ragazza
ritrosa, Mariam: pungente, acida, riservata, erano
più le persone con le quali si mostrava scostante che le persone che potevano
vantare una vera e propria amicizia con lei.
Ma, nella vita, era sempre così:
c’erano le persone che facevano amicizia anche con i muri, che amavano la
gente, il rumore, gli imprevisti, la vita…
E c’erano quelli come lei.
Una misantropa schifosa. Ecco come l’aveva apostrofata Dunga in più di un’occasione, e lei non stava a
crucciarsene: era vero.
Lei odiava la gente, preferiva i
posti appartati e silenziosi a quelli chiassosi e pieni di confusione. Lei non
faceva amicizia con il primo che passava; lei selezionava, scannerizzava,
sondava e poi, soltanto poi, decideva se il gioco valeva la candela.
Le persone erano cattive,
potevano ferire, e sin dalla più tenera età, mentre gli altri bambini si
circondavano di amichetti e giocattoli, Mariam si era
distinta dal gruppo per il suo guardo freddo e per il fatto che, oltre a suo
fratello, non aveva legato con nessuno.
Cretina…
Con un’altra boccata di fumo
gettò fuori anche un altro insulto per se stessa: l’ennesimo. Mai si era fidata
come si era fidata di lui, mai aveva dato tutto il suo cuore ad una persona
quanto aveva fatto con lui… E il risultato qual era stato? Cuore spezzato e lei
in lacrime. Lei, lei, lei che non
piangeva mai.
Bastardo.
Una delle domande che si era
sempre posta e alla quale non avrebbe mai trovato risposta sarebbe stato il perché. Tante cose.
Perché, tra tutti, si era innamorata
proprio di lui; perché si era comportato così; perché più si riprometteva di
non pensarlo più lo pensava.
E perché i ricordi dovevano
necessariamente bruciare. Bruciare come fuoco.
“Il capo villaggio ci vuole
vedere.” suo fratello le lanciò un’occhiata preoccupata, affacciandosi dalla
porta di casa.
Mariam
fece una smorfia, spegnendo la sigaretta ed alzandosi pigramente: da quando era
tornata da Washington non aveva più voglia di fare nulla, era sempre apatica,
spenta, e se punzecchiata era acida fino all’inverosimile.
“Hai sentito la notizia al
telegiornale?”
La ragazza inarcò un
sopracciglio. “Avrei dovuto?”
Jessie sospirò: sapeva che sua
sorella stava passando un periodaccio, e sapeva anche che, nonostante spesso e
volentieri si mostrasse apatica, nonostante potesse essere un’acida del cavolo,
in realtà, interiormente, stava soffrendo, e tanto. Sperava solo che tutto
questo finisse, e presto.
“Siete arrivati, finalmente.” la
voce di Dunga attirò l’attenzione dei due fratelli: Mariam lo fulminò con lo sguardo, poi entrò in casa
dell’autorità del villaggio senza curarsi di lui.
“Salve, ragazzi.” l’anziano capo
li fissò sorridendo leggermente. “Come componenti degli Scudi Sacri, fin’ora
avete svolto un ottimo lavoro, ed è giusto che continui ad essere così: oggi è
stata annunciata l’apertura di un nuovo torneo di beyblade a New York, e
sarebbe il caso che andiate.”
Bastarono quelle poche parole per
far implodere il cuore di Mariam: improvvisamente
sentì la testa vorticarle, le orecchie fischiarle e il sangue scivolarle via
dalla faccia.
“Cosa?” emise un sussurro appena
accennato, inghiottendo a vuoto.
“Ti senti bene, figliola?”
l’anziano la fissò preoccupato, aggrottando la fronte.
“I-Io non posso.” lo sussurrò con
gli occhi persi nel vuoto: i ricordi le si riversarono addosso con la
prepotenza di un film a tutta velocità, e il respiro prese a farsi accelerato.
“Perché?” fu la domanda di Dunga a strapparla dai flashback e a portarla con forza
alla realtà; si voltò un attimo a guardarlo, e in un attimo ritrovò tutta la
sua compostezza. Non aveva senso. Il suo atteggiamento non aveva senso. Si
stava comportando come una donnicciola spaventata dalla sua stessa ombra:
possibile bastasse uno stupido ragazzo a ridurla in quel modo?
“Nulla.” Sbottò, ritrovando la
sua proverbiale freddezza. “New York? E sia.” In fondo, esistevano cose
peggiori e, dopotutto, c’era ancora una cosa che non aveva sperimentato: la vendetta.
“Non prenderai freddo vestita
così?”
Ecco, era proprio così: le parole
potevano fare peggio di una coltellata, ed era vero; Mao di sforzò di
sorridere, ma tutto quello che le uscì fu una smorfia e, improvvisamente, si
sentì ridicola.
‘Patetica’ era proprio una parola interessante: fino a quanto potevi
spingerti a esserlo per colui che amavi?
“E’ quello che le ho detto io, ma
non ha voluto sentire ragioni.” sbottò Lai, incrociando le braccia al petto;
Mao chiuse lentamente gli occhi e, quando li riaprì, pochi minuti dopo, riuscì
ad ostentare la solita espressione di sempre.
In fondo lei era Mao, la dolce
Mao. Quella comprensiva, che non alzava mai la voce; quella energica e un po’
mammina. Magari poteva sopportare, giusto?
Pechino era proprio bella: luci,
colori sovrastavano tutt’intorno. Era grande.
Così diversa dal loro villaggio, così cosmopolita, un crocevia di culture e di
popolazioni… Non vi era mai stata, e ne stava rimanendo pressoché affascinata.
“Potete dire quello che volete:
Mao stasera è più bella del solito.” fu l’esclamazione di Mystel
a farla arrossire e balbettare un ringraziamento sconnesso: incredibile come,
talvolta, si sentissero certe parole da qualcuno, e si desiderasse ardentemente
che provenissero dalla bocca di un altro.
In un abito rosso che faceva
intravedere le sue gambe tornite e mostrava appena l’inizio del suo bel
decolleté, la ragazza aveva speso ore a prepararsi: Pechino non era il
villaggio, era la città, la capitale, la metropoli, e lei voleva andarci
vestita di tutto punto.
Non appena Lai le aveva visto
indosso quell’abito rosso aveva dato di matto, ma Mao aveva resistito, sperando
in un qualche suo commento: che era
stato praticamente uguale a quello di suo fratello.
L’amore bruciava, consumava,
distruggeva.
Non sapeva come aveva fatto a
convivere così a lungo con questo sentimento, ma era arrivata al limite, o
quasi: si sentiva come se da un momento all’altro si stesse per spezzare in
due, come se una mano le artigliasse lo stomaco.
Perché Rei si ostinava a far
finta di nulla? Perché la teneva in bilico così, e non sopraggiungeva per farla
stare in equilibrio? Se lo mandava al diavolo le faceva capire che doveva
essere paziente, e che presto le cose si sarebbero sistemate, se si avvicinava
troppo le faceva capire che non era pronto.
Vent’anni.
Nell’ultima telefonata Hilary
aveva scherzato, sostenendo che solitamente le donne iniziano a piangere per i
loro compleanni dopo i trentacinque, e questa frase le aveva strappato un
sorriso tra le lacrime.
Ma non avrebbe mai pensato di
passare il compleanno più brutto della sua vita, piangendo e disperandosi,
capendo che aveva appena iniziato una nuova era della sua vita.
Aveva praticamente trascorso
tutta un’esistenza dietro un ragazzo che non la considerava e che era troppo
occupato con il beyblade per badare a lei.
Che vita era?
“Allora andremo a New York, c’è
poco da fare.” la voce di Lai arrivò decisa, sicura alle sue orecchie. “Un
nuovo campionato del mondo sta per iniziare, e non ci coglierà impreparati.”
New York…
Mao alzò il viso alla luna di
Pechino, che sembrò, per un attimo, brillare solo per lei, dopodiché si morse
le labbra.
“Raùl!”
la voce rabbiosa della rossa raggiunse il fratello, anche se a metri di
distanza: era sempre così; lui combinava i danni e fuggiva, lasciando lei in
balia degli eventi.
“Raùl,
¿qué te pasò?”
Julia raggiunse il gemello con due ampie falcate; era incredibile come, pur
facendosi sovrastare in altezza, riuscisse comunque a mantenere un cipiglio da
generalessa
“Non ho fatto niente…” il gemello
inghiottì a vuoto: sapeva perfettamente che quando gli occhi verdi della
sorella brillavano in quel modo c’era una sola cosa che gli bazzicava nella
mente: si salvi chi può.
“Non puoi farti battere dalla
prima ragazzina che ti si para davanti, joder!” Julia aveva i capelli scombinati, il viso a chiazze
rosse e un’aria furibonda. “Habemos un campeonato del mundo, qué mierda!”
Il ragazzo abbassò lo sguardo con
aria colpevole, mordendosi le labbra. “Lo so, mi dispiace.”
“Basta così.” con un battito di
mani, il loro allenatore, Romeo, li richiamò all’ordine: “Raùl,
ti sei fatto battere come uno sciocco, ed è disdicevole per il campione della
Spagna; ma, Julia, un po’ più di elasticità?”
La rossa gli scoccò un’occhiata
penetrante, dopodiché girò sui tacchi, andandosene; per quel giorno era stata
anche abbastanza nervosa, suscettibile, isterica, prendendosela con tutti.
La verità era che non ce la
faceva più.
Lei adorava suo fratello. Erano
cresciuti insieme, erano gemelli, ma non potevano essere più diversi: se Julia
era esuberante e vivace, Raùl era timido e riservato,
tutto il contrario della tipica irruenza latina.
E questa cosa stava iniziando a
pesare.
Pesava a lei, che si sentiva
sempre più attaccata e legata, costretta, quasi, ed era sicura pesasse anche a
lui, costretto all’ombra di una sorella sotto la quale non era facile vivere.
Due giorni e sarebbero partiti
per New York: da lì, il nuovo, entusiasmante campionato di beyblade. Una nuova
sfida, una nuova avventura, nuove emozioni. E nuovi litigi con Raùl.
Non vedo l’ora…
Rientrò nell’appartamento con in
una mano quattro tomi di letteratura cinese, e nell’altra il pranzo: avrebbe
dovuto smetterla di mangiare roba da take- away, o,
prima o poi, le sarebbe stata ricoverata per una bella appendicite.
Ma, d’altronde, non ho scelta…
Rilasciò i volumi di letteratura
da parte e iniziò a mangiare: aveva una fame assurda; era stata al college fino
alle due per dare un esame – che aveva superato con il massimo dei voti – ed in
quel momento si stava accontentando di mangiare qualcosa al volo perché poi
doveva passare all’Avalon per provare con le ragazze.
Un altro non riuscirebbe a sostenere questa vita: io non riuscirei a
reggere una vita noiosa.
Aveva appena iniziato a mangiare
il suo pollo messicano che il cellulare aveva preso a squillarle
insistentemente: possibile che fosse già Trisha? Era
così tardi?
Mao?
“Ehi!” la ragazza inghiottì
rumorosamente un boccone, salvo poi buttarlo giù con un po’ d’acqua.
“Ti disturbo, Hilary?” la voce
pareva preoccupata ma, almeno, non più angosciata come quella di due settimane
fa, quando compiuti gli anni, erano state lacrime amare buttate giù.
“Il mio harem è assolutamente
contrariato, ma per un’amica posso zittirlo.” tra un boccone e l’altro, la
ragazza si preparò all’ennesima sfuriata da parte di Mao all’indirizzo di Rei, ma,
ormai, ci era abituata.
Invece, ci fu un lungo sospiro.
“Inizia il campionato.” proferì la cinese, con voce incolore. “Sai che si terrà
a New York e che inizia direttamente tra un paio di giorni?”
La bruna accavallò le gambe.
“L’avevo sentito dire, e francamente, c’è qualcosa che mi puzza. Ma, fino a
quando non vi vedrò chiaro in tutta questa faccenda, non dirò una parola.”
Si sentì un altro sospiro.
“Dovrei chiederti un favore.”
Hilary sbuffò drammaticamente.“Oh,
no, un altro! Sappi che lo metterò sul conto, e la tua anima sarà venduta al
diavolo per un paio di Levi’s!”
Ma la cinese probabilmente non
era nemmeno troppo in vena di scherzare. “Tra due giorni sarò lì e la mia
squadra alloggerà all’hotel Plaza: tu mi potresti
ospitare?”
Il ragazzo sorrise largamente non
appena mise piede sul suolo americano: l’idea che un nuovo campionato del mondo
iniziasse, con tutte le avventure ed i brividi che gli avrebbe trasmesso aveva
il potere di iniettargli dritto nelle vene una carica di energia non
indifferente; sentiva già l’adrenalina in circolo e l’entusiasmo viaggiare,
prendendo possesso di lui.
Ormai erano anni che conosceva
bene quelle sensazioni: giocava a beyblade sin da
piccolissimo, e aveva iniziato a partecipare ai tornei mondiali da quando aveva
dodici anni, non ci sarebbe stato mai nulla che lo avrebbe distratto dalla sua
passione più grande.
“Ciao New York.” Fece con tono
consapevole, fissando l’aeroporto che si stagliava attorno a lui e pigliando al
volo la sua valigia.
Cacciò un urlo quando, però, si
vide vicino uno zombie di fattezze non umane: stava per chiamare gli acchiappa
fantasmi quando si accorse che… “Daichi?”
Il professore, accanto ai due,
ridacchiò. “Lo sai che l’aereo fa brutti scherzi, su. Piuttosto, vediamo di
trovare l’uscita.”
Il giapponese aggrottò le
sopracciglia, salvo poi ricordarsi qualcosa, qualcosa di importantissimo: si
diresse verso la porta sovrastata dalla scritta ‘Arrivals’, e una volta lì, prese a
guardarsi intorno freneticamente, il cuore che batteva forte per l’emozione.
Doveva essere lì, doveva essere
lì, doveva essere lì…
Ma dove..?
Quella zona era sistematicamente gremita
di gente che aspettava i propri cari: tra abbracci, persone che si
sbracciavano, teste e pelli di tutti i colori, il ragazzo stette un po’ di
minuti ad allungare il collo freneticamente, l’attesa di un anno lungo lettere,
e-mail e telefonate che si faceva sentire come non mai.
Fu all’improvviso che la vide: gli
stava correndo incontro, e non era cambiata, era sempre la stessa, lo capì
quando gli saltò in braccio e gli stampò un bacio sulla guancia.
“Mi sei mancato tanto.” Hilary
lottò per ricacciare indietro delle lacrime di gioia, dopodiché si allontanò bruscamente
da lui. “Ma guardati… Sei un gigante!”
Prese a ridacchiare, e mordendosi
le labbra per l’emozione: quei dodici mesi non erano stati facili per nessuno
dei due, e ora che si erano ritrovati vicini sarebbe stato difficili farli
mollare per almeno un paio d’ore.
Lui annuì, pieno di sé e consapevole
del suo metro e settantotto. “Sei tu che al confronto sei una margheritina di
campo, tappetta.” prendendola per la nuca e soffiandole sopra, in un gesto che
faceva sempre quando erano piccoli, scoppiarono a ridere entrambi.
Il professore e Daichi li
raggiunsero poco dopo. “E’ partito a razzo e non c’è stato verso di fermarlo…”
spiegò, ammonendo con un sospiro il suo amico. “Ciao, Hila,
come stai?”
“Tutto bene, prof; vedrete, New
York è… Assurda.” fece, schiacciando loro
l’occhiolino.
“Se le ochette hanno invaso pure l’America
stiamo apposto.” Daichi, che stava sicuramente
meglio, mise le braccia dietro la nuca in un’espressione altera.
Hilary scosse la testa,
fissandolo divertita: quel ragazzino le era mancato, così come le erano mancati
le loro scaramucce, i loro battibecchi… Per
quella volta gliel’avrebbe fatta passare.
“Prof, tu non hai notato nulla di
strano nell’accennare il campionato del mondo di beyblade?”
L’interpellato la fissò
profondamente. “Beh, sì, ma non mi sono crucciato più di tanto…”
La ragazza annuì, scrollando le
spalle. “Magari esagero.”
L’hotel Plaza
era esattamente come se l’era immaginato: luminoso, sfarzoso, lussuoso e degno
di celebrities, non di rumorosi campioni del mondo
che avrebbero fatto una confusione assurda.
Spense l’ultimo mozzicone di
sigaretta per terra per poi entrare nell’atrio, snobbando il portiere. E chi se ne importava se i suoi abiti per
quell’hotel a cinque stelle erano poco ricercati.
“Muoviti.” abbaiò Dunga. “Ci hanno già dato la stanza.”
Fulminarlo con lo sguardo fu
naturale. “Chiudi il becco.” replicò, stizzita.
“Placatevi.” Ozuma
sospirò brevemente, andando verso gli ascensori.
Mariam
fece per rispondere male anche a lui, ma una voce molto conosciuta la bloccò
all’improvviso. “Mari!” si voltò per ostentare la prima espressione rilassata
da mesi: Julia era davanti a lei, pareva appena arrivata. “Chica, ¿qué tal? Creo qué-”
Eccola lì, la solita irruenza
della spagnola: non si smentiva mai. Non l’aveva vista neanche da due secondi e
già l’aveva sommersa di parole. Ma sapeva lei cosa ci voleva per farla
smettere.
“Julia.” il suo nome. Solo il suo
nome pronunciato alla spagnola, con la
J aspirata, e bastava quello a farla sgonfiare come un
palloncino.
“¡No me llamar
asì!” sbottò infatti, divertendo Mariam.
Da quando due anni prima avevano
scoperto che in realtà il suo nome andava pronunciato con la prima lettera
risucchiata e non come si ostinava a farsi chiamare lei, alla maniera europea,
le ragazze avevano concordato di accontentarla e chiamarla come la sua attrice
preferita, la Roberts. La maniera ispanica sarebbe subentrata solo quando ne
combinava una delle sue.
Meglio cambiare discorso, vah. “Le
altre?”
“Mao dovrebbe essere atterrata
ora, e Hila… Quella ormai, è parte integrante della Grande
Mela.” fece, alludendo alla loro amica comune che, da un anno a quella parte si
era trasferita nell’Upper West Side per frequentare la Columbia grazie ad una
prestigiosa borsa di studio vinta all’ultimo anno di liceo.
“Chi è parte della Grande Mela?”
il tono di voce che lo chiese fu ironico e divertito, e quando le due si videro
venire incontro una ragazza dalla chioma castana ondulata, con stampato sulle
labbra un gran sorriso, non poterono far altro che riflettere come uno specchio
d’acqua: e sorrisero anche loro. “Un anno che non ci vediamo e le vostre facce
che non cambiano mai: rinnovatevi per la miseria!” risero nuovamente, non ne
poterono fare a meno, e Hilary le stritolò in un abbraccio caloroso, che tanto
diceva dell’anno in cui non si erano viste.
“Voy a esperar Mao en el bar del hotel: ¿vamos?” propose la spagnola.
“Guarda che il conto sarà
stellare anche solo per andare lì e sedersi.” Mariam
aveva le sopracciglia inarcate.
Julia e Hilary si scambiarono uno
sguardo eloquente che la diceva lunga sul loro modo di vedere le cose. “E chi
ti dice che devi pagare tu?”
Due Gin Fizz,
due malibù, e due mohito
dopo, le ragazze decisero di prendere, finalmente, anche qualcosa di
analcolico.
“Mettere tutto sul conto di Ming Ming. Molto maturo.” Mariam sbuffò
per l’ennesima volta, sorseggiando, però, il suo malibù
con fragola.
“Lei l’anno scorso ce ne ha fatte
di peggio: non è stato proprio il simbolo della maturità aprire il campionato
del mondo di bey con un concerto e mettere come riquadro, in televisione, al
posto del pubblico, le nostre facce.” Le ricordò Hilary, accavallando le gambe.
“Questo è solo un piccolo risarcimento.”
“Per cosa?” una voce dietro di
loro le fece voltare di scatto: Mao era dietro di loro, con tanto di valigie ed
aria stanca, ma ciò che contava era che fosse lì, ed ora erano di nuovo tutte e
quattro.
“Tesoro!” Hilary prese subito
un’altra sedia e la pose accanto a sé. “Come ci hai trovate?”
La cinese scrollò le spalle. “Vi
si vede da fuori.” Fece, alludendo alle grandi ed eleganti vetrate decorate con
delle sontuose tende a baldacchino. “Ma ve li potete permettere tutti questi
drink qui?”
Julia fece un gesto di
noncuranza. “Oh, noi no; ma Ming Ming sì.”
Mao fece scattare la sua mano
verso l’alto. “Cameriere! Un cosmopolitan!” e furono
risate.
“Dichiaro ufficialmente conclusa
la stagione dei drink, per stasera.” Mao si portò una mano alla testa. “Se ne
bevo un altro mi dovrete portare a dormire in braccio.”
Mariam
annuì. “Concordo.” fece, cacciando un sospiro. “Non che mi farebbe male
ubriacarmi.” dichiarò, con una smorfia.
Le altre tre si voltarono
contemporaneamente verso l’irlandese: sapevano che stava male, che aveva
qualcosa che non andava, ma sapevano anche quanto fosse ritrosa e riservata la
loro amica: decideva di confidarsi con i suoi personalissimi tempi e, se non
l’aveva fatto a distanza di mesi e mesi, vi era qualcosa di grosso in ballo.
“Perché in questi mesi non ci hai
scritto?” Mao articolò la domanda lentamente, capendo che stava per dar vita a
quella genere di questione che, però, presto o tardi si sarebbe pur dovuta
affrontare. “Che cosa ti è successo?”
La mora alzò i suoi occhi verdi
al cielo, impedendo a tutti i costi ai flashback di sopraffarla, ma fu inutile;
quando i suoi lineamenti si irrigidirono si morse le labbra, come a
colpevolizzarsi di una debolezza troppo grande per potersela permettere. “Non
posso più stare con la mia squadra.” Soffiò. “Gareggiare con loro è un conto,
ma non voglio sentirmi addosso i loro…Sguardi assillanti e le loro battute; ne
ho fin sopra i capelli.”
Julia annuì. “Te entiendo: adoro
mio fratello, ma deve imparare a cavarsela da solo; il mio atteggiamento ha
spianato la strada a lui in più di un’occasione… E l’ha resa difficile a me. Mi
duole dirlo… Pero es una presencia incomoda.” sospirò, ravviandosi i capelli.
“A proposito di fratelli…” Mao di
prese la testa tra le mani. “Non sopporto più il mio finto fratello: anche
perché provo verso di lui sentimenti tutt’altro che… Fraterni.”
Ci fu un sospiro generale,
dopodiché tutte si voltarono verso l’unica che non aveva parlato e che
sorseggiava tranquillamente il suo Gin Fizz: Hilary
non aveva fatto una piega, continuando ad ascoltare le amiche, ma, quando si
era sentita troppo osservata, aveva inarcato le sopracciglia.
“Che c’è?”
“Tu non hai nulla di cui
lamentarti?” mugugnò Mao. “Quelle occhiaie, ad esempio? Troppo studio?”
Hilary dapprima aggrottò la
fronte, poi esibì un sorriso malizioso. “Queste, mia cara, non sono occhiaie da
studio; sono occhiaie da sesso.”
Julia fischiò, facendo
ridacchiare tutte. “La chica… Nosotras aquì a lamentarci, e lei a scopare con i Newyorkesi.”
La brunetta rise. “Se c’è una
cosa che ho imparato è che le lamentele non portano proprio a nulla.” con
un’alzata di mano, richiamò l’attenzione di un giovane cameriere. “Un altro
giro di Cosmopolitan, per favore.” quello annuì,
deliziato dalla vista di tante ragazze in una volta sola, e gli alcolici
arrivarono subito dopo.
“Patetico, a momenti ti si
infilava nella scollatura.” brontolò Mariam, guardandolo
male. “Morto di figa.”
La bruna scoppiò in una sonora
risata. “Abitando a New York impari che certe cose sono all’ordine del giorno;
che dietro ogni grande donna… C’è un maschio che le guarda il culo.” fece, con
un tono di chi la sapeva lunga.
“Su, ragazze, brindiamo a noi che
ci siamo ritrovate ed ai ragazzi che ci fanno disperare.” fece, alzando il
bicchiere in aria. “Sia santo chi ha scoperto l’alcool: è questo che da anni
aiuta le donne ad abbassare i loro standard.”
Julia scoppiò a ridere. “Ma
allora brindiamo all’alcool!”
“All’alcool!” concordarono tutte,
facendo scontrare i loro bicchieri in maniera che tintinnassero.
“Julia, mi dici come mai, il mese
scorso, su facebook, ho visto che la tua relazione
con Javier è terminata?” Mao stava sorridendo, ma aveva lo sguardo di chi la
sapeva lunga.
La spagnola fece una smorfia. “¡Que tonto! Se vuoi la verità, non riuscivo
a star dietro a lui y a mi hermano al mismo tiempo.”
“Niente principe azzurro?” non
appena la cinese lo disse, Hilary e Mariam alzarono
contemporaneamente gli occhi al cielo.
“Si todos tienen un
principe azùl… Il mio ha preso una strada
sbagliata, si è perso ed è troppo testardo per chiedere indicazioni.” la rossa
sospirò, finendo di sorseggiare il suo drink.
“Ma siccome non esiste…” Hilary
sorrise.
“Ragazze, tornando al discorso di
poco fa, mi sembra di capire che tutte e tre vogliate ovviamente gareggiare a
questo campionato, ma vendereste un rene piuttosto che sopportare certe
persone.” qui le ragazze ostentarono delle facce comicissime. “Okay, allora vi
propongo una cosa: la mia coinquilina due settimane fa è tornata in Ohio; se ve
la sentite di sopportarmi, potreste sempre venire a vivere con me: casa mia non
è grandissima e staremmo strettine, ma è sempre meglio di nulla…” propose, stringendosi
nelle spalle.
“Ci sto.” Mariam
e Mao lo dissero in coro, Julia annuì in maniera frenetica.
“Possiamo cominciare a portare la
nostra roba da te anche ora?”
Hilary sbatté gli occhi. “Che
entusiasmo… Sì, certo che sì. Prima però non dovreste avvisare i componenti
delle vostre squadre?”
E tutte fecero una smorfia: Mao sbuffò,
sentendo già le urla di Lai e prevedendo i litigi, Mariam
si alzò senza dire una parola, probabilmente andando direttamente dagli Scudi
Sacri; Julia si prese la testa tra le mani: in quel frangente sì che erano
dolori.
“Va bene, io vado: arrivo
subito.” la cinese lo disse con un tono e uno sguardo che non ammettevano
repliche, e sia Hilary che Julia capirono che si stava preparando
psicologicamente ad affrontare sia la squadra che il fratello.
“Voy tambien.” la spagnola si alzò
dall’elegante poltrona di seta dell’hotel, e la bruna fece altrettanto.
“Vengo con voi: mica mi lasciate
qui con il conto di Ming Ming, vero?!”
Mariam
si stava portando da sola il suo zaino e la sua valigia, spostandola dal primo
piano all’atrio, ma quando sentì delle voci che le diedero fastidio, le venne
naturale andare a vedere cosa stesse succedendo; vi era una stanza socchiusa, e
quando intravide una chioma chiara che conosceva bene, la collegò subito alla
sua amica.
Mao era nella stanza, di certo ad
ascoltare suo fratello urlare; ma possibile che quel ragazzo non sapesse fare
altro?!
“I Bahiuzu
fanno parte della tribù della Tigre Bianca, e la tribù non si disgrega! Mao! Andare a vivere da sola a New York!
Che cosa direbbe il capo?”
“Se avesse un po’ di cervello
vedrebbe che ha vent’anni, che deve fare le sue esperienze di vita e la
lascerebbe andare.” non aveva potuto fare a meno di intromettersi: tono di voce
acido, sguardo tagliente… Mariam non poteva farci
nulla, detestava chi sparava cavolate, e il fratello della sua amica ne stava
sparando in gran quantità.
“Tu cosa vuoi? Mao fa parte di
una tribù, di un villaggio! Ha dei doveri, delle responsabilità!”
Mariam
roteò gli occhi. “Anch’io faccio parte di un villaggio, di una tribù, eppure Ozuma si è mostrato più aperto mentalmente di te
permettendomi di andare. Che poi la questione sarebbe andare a vivere con
Hilary, l’immagine della correttezza, della trasparenza, e della puntualità,
mica con una che si fa di cocaina battendo la strada!” sbottò, acida,
incrociando le braccia.
“Che succede?” quando entrò nella
stanza, Rei venne subito fissato male da Mariam; Mao,
invece, si affrettò ad abbassare lo sguardo.
“Mia sorella vuole andare a
vivere con Hilary e le sue amiche nell’Upper West Side, e a quanto pare ci
andranno anche lei e non so chi altri, e se io non do il permesso non sono
abbastanza aperto mentalmente!” eruppe Lai.
“Saremo io, Mariam
e Julia nella casa di Hilary, non vedo che impiccio potrebbe darti!” ringhiò
Mao, andando a prendere la sua valigia, facendo capire che aveva già preso la
sua decisione e che nulla poteva farle cambiare idea.
Rei aggrottò le sopracciglia.
“Hilary è una bravissima ragazza, e di Mao ci fidiamo, non è così, Lai?” quello
borbottò un cenno d’assenso. “Se Mao promette di telefonare, di farci avere
frequentemente sue notizie e di non farci stare in pensiero, le lasceremo fare
quest’esperienza.”
Kon, sei un emerito coglione.
Mariam
scosse la testa, inarcando le sopracciglia.
Mao strinse le labbra,
mordendosele a forza, per poi atteggiarle forzandole in un sorriso triste:
eccoli là… Il fratello geloso e il fratellone dolce. Ma sempre fratelli erano.
Che tristezza…
Un bussare deciso li fece
voltare: erano Kiki e Gao: “Il presidente Daitenji ci vuole tutti nella sala
conferenze dell’hotel; sembra urgente.”
Julia aspettava le ragazze
tenendo loro il posto, era seduta su una delle poltrone della sala convegni
dell’hotel, e ne aveva occupate altre tre per le amiche. Nell’attesa accavallò
le gambe, prendendo la borsetta ed estraendo da essa lo specchietto, - dopo
tante ore di viaggio e a malapena dieci minuti per andare in camera a
rinfrescarsi, avere qualcosa fuori posto sarebbe stato il minimo! - ma un
brusco movimento di qualcun altro fece cadere il tutto rovinosamente per terra.
“¡Vaya..!”
Questo qualcun altro si chinò a
cogliere la borsetta e gliela porse e, quando si ritrovò a contatto con due
occhi color ghiaccio, Julia si perse.
Si perse nella stanza, nei
battiti accelerati del suo cuore, nella moltitudine di emozioni che quegli
occhi stessi scatenarono.
“Fernandéz.”
Yuri Ivanov non sorrise: lo fecero quelle lame di
ghiaccio per lui. “Ciao.”
Le pose la borsetta tra le mani e
se ne andò, lasciandola stordita, semplicemente attonita a domandarsi perché,
dallo scorso campionato, quel gelido ragazzo russo le facesse quell’effetto
assurdo.
Le sue amiche arrivarono un
istante dopo, e lei stette ben attenta ad accoglierle con un sorriso di trionfo
sulle labbra, indicando loro dove sedersi. “Mio fratello non è stato molto
contento, ma gli ho fatto capire che un po’ di distacco avrebbe fatto bene sia
a me che a lui.” fece, partendo in quarta e rivolgendosi a Hilary. “Le mie
valigie sono già state portate a casa tua da un taxi.”
La bruna sgranò gli occhi. “Ho la
sensazione che entreranno i vostri bagagli e usciremo noi.” Tutte
ridacchiarono.
Mao prese a guardarsi intorno,
meravigliata. “Sapete mica cosa deve dirci il presidente? Non possono essere
solo delle banali regole di campionato…Voglio dire, guardate: c’è la CNN! Qui la roba è grossa!”
Mariam
strinse gli occhi verdi. Ho una brutta
sensazione… “Speriamo non sia nulla di grave…”
Dovettero passare tre quarti
d’ora prima che il presidente richiamasse l’attenzione su di sé, e
immediatamente tutti notarono l’aria stanca e le occhiaie marcate sul viso
dell’uomo.
“Andrò dritto al punto senza fare
inutili giri di parole né convenevoli vari: la crisi mondiale finanziaria non
ha risparmiato il mondo del beyblade, anche se per molto tempo ci siamo illusi
che non fosse così. Abbiamo organizzato un campionato mondiale perché avevamo i
fondi grazie agli sponsor, che da un giorno all’altro ci hanno abbandonato. Ora
non possiamo far altro che annullare il campionato, ma posso dirvi solo una
cosa: sto lavorando notte e giorno per trovare altri fondi, altri sponsor e per
mettere in piedi un altro campionato, perché amo il mondo del beyblade quanto
voi, e non mi arrenderò. Grazie per l’attenzione.”
La notizia fu accolta da qualche
secondo di silenzio, per poi essere seguita dai flash dei fotografi e dalle
domande dei giornalisti.
Hilary si ritrovò a fissare le
sue amiche: avevano tutte un viso smarrito, spaesato. Era evidente che la
notizia era pressoché assurda, ma era pure certa il fattore che tramite quella
conferenza stampa il presidente avrebbe presto trovato quello che cercava.
Altrimenti chi lo sente Takao?
Di certo, per le sue amiche
andare a vivere con lei per quel periodo non sarebbe stata certo una cattiva
idea… Con quei visi spaesati e provati dai diversi periodacci
che stavano affrontando, la giapponese con un sorriso consapevole si convinse
che alla fine tutto quello che ci voleva loro era soltanto un po’ di quella
vecchia, sconclusionata, stupenda, famigerata New York.
Niente fungeva più da scuola di
vita che quella città stessa.
E io lo so bene.
Continua.
Okay, avete letto gli
avvertimenti – per forza, se no botte! e.e – avete
letto il primo capitolo.
Prima di dire che vi passo la
parola, lasciate che io mi stenda cinque minuti: sono stata sette mesi in
fibrillazione ed ora la mia creatura sta a poco a poco nascendo! *_*
Sono patetica, lo so.
Ditemi che ne pensate, non
risparmiatevi niente: adoro le recensioni. Quelle vere, quelle intense, quelle
scritte con il cuore, e adoro anche le critiche. Ma devono essere costruttive.
Se mi dite che una situazione è brutta e la finite lì – esempio – non ha senso,
e la critica, oltre ad essere stupida, è infondata. Motivate le vostre
recensioni, scrivete, scrivete e scrivete.
Sono un po’ su di giri e nessuno
se ne è accorto. u___________u
Dopo questa ci sentiamo Martedì
13 con il nuovo capitolo: “So What?!”.
Si iniziano a pestare i piedi, guys, la domanda è: a chi, e come?
Lo scoprirete solo vivendo,
quindi che nessuno muoia!
…
E dopo questo sproloquio da
mezzanotte e passa di una che ha mal di pancia per la troppa paura, vi auguro
la buonanotte.
Alla prossima.
Vostra per sempre,
Hiromi