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Non ricordo come accadde. Non ricordo quasi nulla di quel
giorno. Sapevo che dovevo vincere quella gara, che dovevo correre come mai avevo
corso. L’unica cosa che vedevo erano le strisce arancioni del percorso che
dovevo seguire. Niente di più. Non vedevo il pubblico, non vedevo la mia
famiglia che mi faceva il tifo, non vedevo gli altri corridori che tentavano di
raggiungere il traguardo il più in fretta possibile.
Ho scelto lo sport perché non potevo scegliere nient’altro.
Non amo lo studio. Ho un fisico prestante. Ho sempre amato correre. L’allenatore
mi aveva detto che se vincevo quella gara si potevano aprire mille vie per me.
Potevo correre come professionista. Mi aveva detto che c’erano dei signori di
una grande società sportiva in cerca di nuovi talenti e che erano venuti anche
per me. Vincere quella gara significava per me fare centro nella mia vita. Erano
le parole dell’allenatore quelle che mi risuonavano in testa. “Devo vincere,
devo vincere!”
Se nello sport è importante partecipare, io non sono uno
sportivo. Io gareggio per vincere.
Il cuore mi batteva forte, per lo sforzo e l’emozione. Oh
sì, come batte il cuore me lo ricordo sempre. Un martello dietro al petto, fa
quasi male da quanto è forte. Sulla corsia per me ci sono solo io e il mio
corpo. E’ il mio corpo quello che mi fa vincere, per questo ricordo così bene
come stava il mio corpo. Il resto non è importante.
Avvertivo un dolore anche dietro la schiena, all’altezza
delle scapole. Forte, fortissimo, una fitta. Ho pensato un crampo, il peggiore
della mia vita. Ma il dolore non poteva fermare la mia corsa. “Corri! Vinci!” mi
dicevo. E correvo. Nonostante il dolore e la fatica. Nonostante il cuore mi
stesse implorando di smettere e la schiena mi facesse male, sempre di più. Il
sudore cadeva dalla mia fronte come una cascata quando i ghiacci si sciolgono.
Ad un tratto, il traguardo. Era lì, che aspettava solo me.
Una striscia bianca che mi separava dalla vittoria. La dovevo solo attraversare.
Non so dove fossero i miei avversari, ma davanti a me la strada era libera.
“Gambe mie, non traditemi ora!Raccogliete le ultime forze!”
Dovevo correre più veloce che mai, lo scatto finale che mi
avrebbe incoronato vincitore. Più veloce di quanto avessi corso durante tutta la
gara. Odio dirlo, ma non ricordo quando attraversai quella striscia bianca. So
solamente che, a pochi mentri dal traguardo, non sentii più la fatica delle mie
gambe. Sentii che si muovevano più veloce e liberamente, mentre il dolore alla
schiena si faceva allucinante. Penso che fu per quello che svenii. Non ricordo
più nulla. Nulla, fino a quando non mi svegliai, pancia a terra, disteso oltre
il traguardo. Una donna con gli occhi verdi mi stava inumidendo la faccia con un
panno. Non avevo più la maglietta, ma ero stato coperto con una soffice coperta,
che lì per lì mi sembrarono piume. Respiravo a fatica, mentre la donna mi
sciacquava amorevolmente il viso. Il mio allenatore era lì. Non riuscivo a
vederne il volto, ma ne avevo riconosciuto la corporatura.
“Ho… ho vinto?”ho chiesto con fatica
Mi ha risposto con un tono duro, che mai aveva usato con
me, suo pupillo: “Se intendi vincere con raggiungere il traguardo prima degli
altri si”
Ho sentito il cuore alleggerirsi.
“… ma se intendi vincere con il fatto che diventerai
professionista, no.” Il cuore mi si è fermato quando ha detto, allontanandosi:
“Non gareggerai mai più, sporco mutante!”.
Fu allora che compresi che quella coperta di piume veniva
direttamente dal mio corpo. La disperazione più assoluta si impadronì di me. Una
disperazione così assoluta che neanche le lacrime potevano aiutare. Ora penso
che mi sarei suicidato se con me non ci fosse stata quella donna dagli occhi
verdi. Appena ebbi modo di girare la testa, mi resi conto che tutto il campo era
deserto. Solo me e lei, tolto l’allenatore che ormai era solo un puntino.
“Dov’è la mia famiglia?” ho chiesto alla donna con un filo
di voce.
“Shh, non parlare”mi ha risposto la donna, con voce soave
“Cosa sono queste piume che ho addosso!”
“Sono ali. Ali vere, con cui sei arrivato al traguardo. Ti
hanno portato loro”
Ho chiuso gli occhi. La donna mi ha messo una mano sulla
guancia e me l’ha carezzata.
“Mi chiamo Jean Grey, ti posso aiutare. Non sono un’atleta,
ma sono come te. Ti posso portare in un luogo in cui non ci sono pregiudizi per
gente come noi. Con un po’ di impegno ti posso aiutare anche a correre di nuovo.
Ma ti devi fidare di me”
“Io mi fido”
La donna, Jean, mi ha aiutato ad alzarmi. Le ali, se sono
ali, mi creano difficoltà. Sono più pesante. Il dolore alla schiena è passato.
Jean mi ha messo un braccio attorno al busto, sostenendomi.
“Ti dovrai abituare. Vieni, ti accompagno a casa”
E ci siamo allontanati verso gli spogliatoi.
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