A
Rose's Tale
La
bambina che parlava con le rose
Quando,
alla maggior parte della gente, chiedono qual è il suo primo
ricordo, spesso risponde che è qualcosa di confuso. Il mio,
invece,
è rimasto nitido nella mia mente fino ad oggi.
Il
mio primo ricordo è una rosa e, col tempo, mi sono convinta
che quel
ricordo abbia segnato la mia intera vita.
Quando
mia madre scoprì di essere incinta di me, il medico non le
nascose
che sarebbe stata una gravidanza difficile, a causa delle sue
già
precarie condizioni di salute. E così è stato.
È morta dandomi
alla luce.
La
rosa del mio ricordo era appesa sopra la mia culla. Ce l'aveva messa
mio padre, perché, secondo lui, era ciò a cui
somigliavo di più
quando mi ha vista, appena nata.
Mio
padre faceva il fioraio. Aveva una piccola bottega ad Atene che gli
permetteva di sbarcare il lunario, grazie alla clientela fissa che
preferiva i suoi fiori 'normali' a quelli 'magnifici' della bottega
dell'Acropoli.
Non
era un uomo attaccato ai soldi né schiavo della concorrenza.
Accettava col sorriso tutto ciò che di buono gli capitava e
con
filosofia ciò che, invece, era meno buono.
Non
mi ha mai sgridata, nemmeno le poche volte che gliene ho dato motivo,
ma semplicemente rimproverata, perché capissi il mio errore
e non lo
ripetessi. E io capivo sempre quello che voleva dirmi, anche se erano
concetti troppo complessi per una bambina di pochi anni, e lui capiva
che io capivo, e diceva che aveva scelto bene il mio nome.
Mi
chiamo Psiche. Significa 'mente' in greco.
Non
è un nome comune ai giorni nostri, ma a me è
sempre piaciuto
proprio perché mi distingueva, così come i miei
capelli. Quando
sono nata sembravano di un caldo biondi fragola, poi, crescendo,
hanno assunto un'inusuale tonalità rosa. Quando quella
stranezza
divenne evidente, mio padre, che si chiamava Kostas, mi disse che, se
volevo, potevo cambiare quel colore in uno più normale, ma
rifiutai.
“Sono
così perché io sono una rosa, giusto,
papà?” gli dissi.
Lui
non rispose, ma si limitò a sorridere.
In
poco tempo divenni la mascotte del quartiere. I clienti non mancavano
mai di lasciarmi un sorriso, una carezza o, quando erano molto
generosi, una caramella o un cioccolatino.
La
figlia dei proprietari del bar vicino al nostro negozio veniva spesso
a chiamarmi per giocare insieme con le sue bambole. Ne aveva tante e
tutte diverse, ma io sceglievo sempre la stessa. Somigliava molto ad
Alice, la bimba che cadeva nel buco per inseguire il bianconiglio
e arrivava nel Paese delle Meraviglie, la cui immagine
l'avevo
vista sulla copertina di un libro in biblioteca. Il giorno del mio
quinto compleanno Georgia, la mia amica, me la regalò. Fu il
giorno
più felice della mia vita, fino ad allora, e non me lo
dimenticherò
mai, come non scorderò mai il giorno che la mia vita la
cambiò per
sempre.
Quel
giorno scoprii che anche mio padre era un uomo normale e, come gli
altri, si arrabbiava.
Eravamo
nel retrobottega e mio padre stava sfogando la sua rabbia su un
triste cespuglio di rose dai fiori spenti e piccoli. Le rose non
erano il nostro prodotto migliore, ma qualcuna riuscivamo sempre a
venderla. Secondo mio padre, però, le rose di quel cespuglio
erano
invendibili.
Era
strano che papà si arrabbiasse per così poco,
dopotutto nel negozio
c'erano molti altri fiori belli che avremmo potuto vendere.
Arrivò,
poi, un altro uomo nel retro, e tutto mi fu chiaro. Il camion con gli
altri fiori aveva avuto un incidente lungo il tragitto e non era
stato possibile recuperare il resto del carico. Quel cespuglio di
rose, l'unico sopravvissuto, sembrava solamente voglioso di
raggiungere gli altri fiori.
Mio
padre, esasperato, colpì l'alberello con le cesoie e
tornò in
negozio per chiudere, seguito dal corriere. Io rimasi lì, a
fissare
il cespuglio pensando a come aiutare papà, e mi vennero in
mente le
sue parole la prima volta che mi rimproverò.
“È
importante che tu capisca ciò che si può fare e
ciò che non si può
fare. Molti altri genitori, al posto mio, ti avrebbero già
dato una
sculacciata per quello che hai fatto ma io no, perché so che
basta
spiegartele, le cose, perché tu ti comporti come si
deve”
Mi
avvicinai al cespuglio e mi inginocchiai di fronte a lui, presi un
respiro profondo ed iniziai a parlargli.
“Per
favore, cespuglio, puoi crescere di più? Il mio
papà ha bisogno
delle tue rose, sennò non possiamo prenderci da mangiare.
Tutti gli
altri fiori sono morti in un incidente, abbiamo solo te e devi
aiutarci, ti prego”
Non
percepii subito quella strana sensazione che mi percorse il corpo,
quel calore strano, perché ero troppo concentrata ad
osservare ciò
che stava accadendo. Le rose mi avevano ascoltata e avevano iniziato
a crescere e a diventare di un rosso brillante e pieno di vita. I
rami del cespuglio si allungarono così come le radici, che
ruppero
il vaso di terracotta e si insinuarono tra le travi di legno del
pavimento per raggiungere il terreno sottostante.
Mio
padre sentì probabilmente il rumore di cocci rotti e si
precipitò
nel retrobottega per vedere che non mi fossi fatta niente.
“Psiche,
cosa...?” iniziò a chiedere, prima di ammutolire
di fronte a ciò
che stava accadendo davanti ai suoi occhi.
“Psiche,
allontanati!” mi intimò subito, prendendomi per un
braccio e
mettendomi in piedi, ma io opposi resistenza.
“No,
papà, non fa niente, gli ho detto io di crescere”
gli spiegai, pur
sapendo che era quasi impossibile che mi credesse.
“Psiche,
non è il momento di fare la spiritosa” mi
rimproverò, infatti, ma
io insistetti.
“È
vero, papà! Guarda... per favore, stai spaventando
papà, non
crescere più. Così va bene”
E
la pianta mi obbedì di nuovo, arrestando la sua incredibile
crescita.
Mio
padre fece saettare per qualche attimo lo sguardo da me al cespuglio,
ora rigoglioso e carico di rose rosse come mai se ne erano viste. La
sua mano continuava a stringere il mio braccio e, a parte la testa,
il corpo sembrava totalmente paralizzato.
“Cosa...
come...” iniziò poi a balbettare, indicando le
rose.
“Mi
dici sempre che basta spiegarle le cose. Io le ho spiegate a quel
cespuglio e lui ha capito e ci ha aiutati” gli spiegai con
ingenua
semplicità.
Mio
padre biascicò ancora qualcosa e ringraziò il
cielo, prima di
abbracciarmi come mai aveva fatto. Quando sciolse l'abbraccio, mi
guardò poi con serietà.
“Psiche,
ti piacerebbe aiutare papà con i fiori?” mi
chiese, tremante.
“Ma
io non so contare i soldi” risposi con sincerità.
“Non
dovrai farlo, dovrai solo curare i fiori qui, come hai fatto adesso,
ma solo se è una cosa che ti piace fare e se hai voglia di
farla.
Non voglio costringerti a fare nulla, chiaro?”
Sembrava
timoroso mentre mi spiegava tutto quanto, ma io capii quello che
voleva dirmi.
“Io
l'ho fatto per aiutarti, papà. E voglio aiutarti anche
domani,
finché Georgia non mi viene a chiamare per giocare”
“Certo,
piccola mia” accettò mio padre, con le lacrime
agli occhi, per poi
abbracciarmi nuovamente.
Il
giorno dopo le rose che avevo fatto crescere andarono a ruba,
ripagandoci in buona parte del guadagno perso per l'incidente. Il
mattino seguente giunse il nuovo carico. Piena di entusiasmo, provai
a parlare anche agli altri fiori, ma ottenni risultati più
mediocri
che con le rose. Le vendite, comunque, aumentarono notevolmente,
così
come il carico di lavoro per mio padre, che però non mi
chiese mai
di rinunciare al mio pomeriggio di giochi con Georgia.
Il
cespuglio grazie al quale avevo scoperto quel mio talento rimase
piantato nel retrobottega ed era il primo a cui dedicavo le mie
attenzioni la mattina, perché era l'unico che sembrava
capire
appieno ciò che gli chiedevo. Con gli altri fiori non
sentivo la
stessa sintonia, lo stesso brivido caldo che mi percorreva il corpo.
Una
settimana dopo la mia scoperta era il giorno del mio sesto compleanno
e mio padre mi regalò un vestito nuovo e uno zainetto con
una rosa
ricamata sopra. Quattro mesi dopo, a settembre, avrei dovuto
cominciare la scuola elementare insieme a Georgia e decisi che quello
sarebbe stato il mio zaino per la scuola.
Il
destino volle, però, che iniziassi la scuola molto prima
degli altri
bimbi, nonché da tutt'altra parte.
Un
giorno venne in negozio un ragazzo e la prima cosa che notai di lui
fu che era esageratamente bello. Doveva avere massimo quindici anni,
ma sembrava già un uomo adulto e possedeva un'eleganza nei
movimenti
che mai avevo visto. Quando lo vidi, smisi di parlare con le mie
rose, totalmente rapita dal suo fascino. Anche lui mi scrutò
intensamente, nell'attesa che mio padre finisse di servire una
cliente, quindi scambiò poche veloci parole con lui. Intuii
che
stessero parlando di me quando lo sguardo cordiale di mio padre si
fece preoccupato e guardò per un attimo nella mia direzione.
Non
sentii cosa disse al ragazzo, ma lo accompagnò personalmente
da me
e, seppur con riluttanza, ci lasciò soli per servire i
clienti in
negozio.
“Ciao,
Psiche” mi salutò lui, accovacciandosi vicino a me
e sorridendo.
Il neo vicino all'occhio sinistro sembrò più
evidente.
“Ciao”
risposi educatamente, ma con un certo imbarazzo.
“Ti
piacciono le rose?” mi chiese, accennando col capo al mio
cespuglio.
“Mmh,
mmh” annuii col capo. “Se ne vuoi una devi chiedere
a papà, io
non so contare i soldi”
“Grazie,
ma io ho già le mie, di rose”
Dal
nulla, il ragazzo tirò fuori la rosa più bella
che avessi mai
visto, ma quando feci per toccarla, me la tolse da sotto le dita.
“Attenta,
queste rose non si possono toccare” mi mise in guardia e
inevitabilmente mi sentii offesa, pensando che mi reputasse una
sprovveduta.
“Lo
so, anche le mie hanno le spine che pungono” gli feci notare,
ma
lui scosse la testa.
“Già,
ma non sono velenose come le mie” mi spiegò a voce
bassa perché
solo io sentissi, lasciandomi senza parole. Non avevo mai sentito
parlare di rose velenose, né da mio padre né da
altri.
“E
come fanno ad essere velenose?” gli chiesi, pendendo
totalmente
dalle sue labbra.
“È
un segreto che non posso rivelarti, a meno che tu non mi spieghi come
fai a creare queste bellissime rose”
Mi
ritrovai spiazzata di fronte a quella condizione, perché
nessuno
sapeva del mio talento, a parte mio padre. Era stata una sua precisa
scelta quella di non rivelare niente a nessuno. Come faceva quel
ragazzo a sapere?
“Io...
non faccio niente, lo giuro!”
“A
me puoi dirlo, Psiche” mi assicurò con dolcezza,
accarezzandomi la
testa. “Io sono come te”
Detto
questo, il ragazzo chiuse gli occhi e un'aura dorata iniziò
ad
emanare dal suo corpo. Mi sentì pervadere dalla stessa
sensazione
che provavo quando parlavo ai fiori, solo innumerevoli volte
più
forte. Quella luce dorata, poi, sembrava in grado di illuminare tutta
la stanza.
“Che
cos'è?” gli domandai, estasiata.
“Si
chiama cosmo, e ne possiedi uno anche tu” mi
rivelò il ragazzo.
“Davvero?”
presi a guardarlo con tanto d'occhi. Lui annuì.
“Sì, ed è grazie
a lui che riesci a creare questi fiori meravigliosi, mentre col mio
posso rendere le rose velenose”
“Anche
il mio è d'oro come il tuo?” chiesi ancora, spinta
da
un'irrefrenabile curiosità.
“Non
so di che colore sia il tuo, non è ancora abbastanza
sviluppato”
“E
come hai fatto a vederlo, allora?”
“Il
cosmo non è solo quest'aura dorata che vedi intorno a me.
È
qualcosa che è dentro di noi, un piccolo universo da cui
possiamo
trarre energia” mi spiegò con pazienza.
“Io
ho un universo... dentro di me?” scandii, incredula.
“Sì,
un piccolo universo che posso vedere attraverso i tuoi occhi”
Sorrisi
meravigliata, quindi mi lasciai di nuovo travolgere dalla
curiosità.
“Posso vedere il tuo?”
“Se
ci riesci” acconsentì il ragazzo, per poi
lasciarsi scrutare dal
mio sguardo intenso e concentrato. Già dopo qualche secondo
sbuffai,
convinta di poter vedere soltanto il nero delle sue pupille, ma poi
in quel nero vidi qualcosa di luminoso e pulsante, come una stella. E
poi un'altra e un'altra ancora. Tutte quelle stelle divennero,
infine, un piccolo cielo che continuava ad espandersi. Era il suo
cosmo.
“L'ho
visto! Ho visto il tuo universo! Era un cielo pieno di
stelle!”
esclamai al massimo della felicità.
Il
ragazzo rise della mia gioia e mi tenne le mani mentre saltellavo per
la stanza. Ma attese poco, prima di interrompere quel tripudio di
felicità.
“Sì,
sei stata bravissima, ma adesso devo dirti una cosa molto
importante”
Smisi
allora di saltare. Avevo il fiatone, ma non riuscivo a smettere di
sorridere. Mi feci, comunque, attenta, come quando dovevo ascoltare
mio padre che mi spiegava qualcosa di importante.
“Il
potere che possiedi, di parlare coi fiori, potrebbe diventare
qualcosa di molto più grande, se allenato. Io sono venuto
sin qui da
un luogo dove si fa proprio questo, si allenano i talenti come te a
diventare più forti, a coltivare le loro capacità
perché possano
sfruttarle al massimo. Ognuno di noi ha un universo dentro di
sé che
era piccolo come il tuo e che, col tempo e il duro lavoro, è
diventato grande come il mio”
“È
tipo una scuola?” domandai, interessata.
“Esatto,
una scuola speciale per persone speciali come te. Io ti propongo di
venire con me in questa scuola e di diventare mia allieva. Ti
seguirò
per tutto il tempo che sarà necessario affinché
sviluppi al massimo
il tuo potere”
Pur
non sapendo ancora nulla di quel mondo che mi aveva descritto in
poche parole, sentivo che quella era la strada giusta da
intraprendere. Quel cosmo che avevo visto in fondo ai suoi occhi era
così caldo e accogliente che mi era stato impossibile non
sentirmi
attratta da lui. Ma ero ancora una bambina e, come tale, legata per
prima cosa alla mia famiglia.
“Tanto
poi torno a casa da papà per cena, no?” gli chiesi
ancora, ma per
la prima volta da quando era arrivato, il volto del ragazzo assunse
un'espressione che mi fece capire che non avrei ricevuto la risposta
che desideravo.
“No,
Psiche. Se accetti di venire con me, non potrai più vedere
tuo papà
né nessun altro”
Psiche, Kostas, Georgia ©
Martyx1988
Aphrodite © Masami Kurumada
Buongiorno a tutti! Con questa storia mi piacerebbe (se riesco)
approfondire la storia di Psiche, del suo addestramento e della sua
vita da Sacerdotessa, nonchè alcuni aspetti più
personali che non riuscirei a trattare in Babylon. L'inizio non
è molto lungo, ma ho preferito farlo concludere a questo
punto per poi trattare separatamente il suo arrivo al Santuario.
Spero che anche solo il primo cap sia di vostro gradimento e che arrivi
qualche commento :)
Martyx1988
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