Charon's Gift
Disclaimer: Ho
chiesto a Babbo Natale che mi portasse Draco per Natale. Dal momento
che non mi è ancora stato recapitato, potete considerare
lui, Hermione Granger e tutti gli altri personaggi di
proprietà di JKRowling. Questa storia è scritta
per mero diletto personale, nessun diritto si ritiene leso.
Nota della Traduttrice:
Questa volta ho scelto di tradurre una one-shot che ho trovato
semplicemente stupenda. Anche se, forse, quella estiva non è
la stagione adatta per pubblicarla: l’atmosfera che la
impregna è indubbiamente invernale e natalizia, ma non nel
consueto significato che si dà al termine. Philyra912 ha
scritto questa one-shot per il Celebrate the Season with Draco and
Hermione, scambio di fanfiction indetto dalla community
dmhgficexchannge a fine 2005. La storia si colloca nel periodo
natalizio dello stesso anno degli eventi del Principe Mezzosangue.
Un’ultima
nota, questa one-shot è ovviamente autoconclusiva. Tuttavia
Philyra912 ha pianificato di scrivere una long-fic che ne sia il
seguito. Al momento potete trovare l’unico capitolo di questo
nuovo progetto nel suo account su fanfiction.net.
Spero che vi
piaccia come è piaciuta a me. Buona lettura e…
commentate!
Charon’s
Gift
Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vengo per menarvi all’altra riva
nelle tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo
-Caronte, Inferno, canto III vv. 84-87, La
Divina Commedia, Dante Alighieri
Era così freddo quell’inverno. Così
freddo, e ancora non aveva nevicato. Non una volta. Né mai,
fin dall’ultimo ottobre, il sole aveva svelato il suo volto
attraverso le soffocanti coltri di nubi. Un grigiore penetrante aveva
inviluppato le innaturalmente tranquille strade di Londra. Con
l’avvicinarsi della fine di Dicembre, le tradizionali
decorazioni natalizie avevano fatto la loro comparsa, ma,
quell’anno, erano prive di vivacità, splendore,
gioia. Anzi, sembravano bizzarramente volgari e inappropriate, come
risate in una casa in lutto. Il mondo sembrava stesse soffrendo, o,
forse, morendo. Forse erano vere entrambe le cose.
Hermione Granger avrebbe potuto pensare che quel tipo di inverno era il
corredamento giusto per quell’atmosfera, se fosse stata nello
stato d’animo per poter pensare a qualcosa del genere. Al
momento, invece, era troppo esausta, troppo tesa, troppo concentrata
sul soffocante compito di sopravvivere un altro giorno e vedere le
persone che amava sopravvivere con lei, per poter dedicare tempo ed
energie a qualsiasi altro pensiero. Supponeva che la guerra dovesse
avere quell’effetto sulle persone.
Curioso, questa parola – “guerra”.
Così breve e allo stesso tempo così mostruosa e
terribile. Così tanti significati compressi in
così poche lettere.
Non era come lei aveva pensato che sarebbe stata. Aveva creduto che la
guerra sarebbe scesa su di loro nella forma di una sola, singola, epica
battaglia, con l’Ordine della Fenice e i combattenti per la
Luce e la Giustizia schierati in fiere e magnificenti schiere a
confrontarsi sul campo contro l’oscuro esercito di Voldemort.
Un grido del loro amato leader, lo scintillio dei suoi caldi occhi
azzurri ricolmi di giusta vendetta e indicibile potere. La cicatrice di
Harry, un faro sul campo di battaglia. Le urla dei Mangiamorte, mentre
cadevano e fuggivano. Il finale strillo, agghiacciante, dello stesso
Signore Oscuro, mentre le verdi fiamme scaturite dalla bacchetta del
Bambino Sopravvissuto lo avviluppavano. Lei stessa e Ron,
lì, a sostenere Harry, mentre collassava per il sollievo e
per la spossatezza, senza aver mai lasciato il suo fianco.
Ma questa non era la guerra; ora lo sapeva, ora che infuriava intorno a
lei da quasi sei mesi. Era stata una ragazza stupida e naif ad averla
immaginata diversa. La guerra vedeva il loro leader sigillato in una
bianca tomba di marmo, nel momento in cui loro avevano più
bisogno di lui. La guerra era vivere in una paura costante, un mai
abbassare la guardia, mai sentire un momento di sicurezza e pace. La
guerra vedeva le persone che lei amava, rispettava, in cui credeva,
riportate al quartiere generale con la medaglia dei caduti addosso.
Aveva visto i portoni di Hogwarts, l’unico posto in cui
s’era sentita accettata e speciale, venir chiusi e sigillati
a doppia mandata. La guerra era unirsi all’Ordine della
Fenice alla giovane età di diciassette anni, era passare la
sua estate in un duro corso di avanzate tecniche di difesa e di
attacco. Era piangere sopra i corpi dei caduti. Era costringere i suoi
genitori a nascondersi per la loro stessa sicurezza e non aver contatti
con loro da oltre quattro mesi.
Soprattutto, la guerra era attesa, ed era quella la cosa peggiore. Le
mura della casa al Numero 12 di Grimmauld Place – la sua casa
temporanea e il quartiere generale dell’Ordine della Fenice
– erano scure e cariche di dolore. I suoi amici e i suoi ex
insegnanti si muovevano attraverso i suoi corridoi con occhi vuoti e
braccati e con facce tirate. E per tutto il tempo, facevano una cosa
sola: aspettavano. Era come se tutto il mondo fosse sull’orlo
di un precipizio senza fondo, e Hermione viveva nel costante terrore
che la prossima morte, la prossima missione fallita, la prossima
perdita nei confronti del sempre crescente esercito
dell’Oscuro Signore avrebbe potuto essere la spinta decisiva
per far crollare la loro causa oltre il baratro.
Stavano perdendo. Non ne parlavano tra loro, ma tutti lo sapevano.
Hermione pensava di essere stata una delle ultime a rendersene conto.
Poteva individuare chiaramente il preciso momento in cui tutta la sua
fiducia sulla loro vittoria l’aveva abbandonata.
Era stata una tetra notte sul finire di novembre, in cui
l’intera casa aveva trattenuto il respiro
nell’attesa del ritorno di Remus Lupin, Nymphadora Tonks,
Charlie Weasley, Kingsley Shacklebolt e Ginny Weasley. Era stata la
prima missione di Ginny da quando era diventa un membro
dell’Ordine (sua madre s’era rifiutata di
permettere che la ragazza ne facesse parte, ma dopo che Molly era stata
uccisa in strada, mentre tornava dal mercato, nessuno era riuscito a
frapporsi alla decisione della più piccola dei Weasley).
Doveva essere una missione semplice, puro pattugliamento, ma erano
comunque preoccupati. Hermione, ormai, era sempre preoccupata.
Erano via da tanto tempo, troppo tempo. Le due
erano arrivate e passate e ancora nessuno al quartiere generale aveva
preso la propria strada per andare a letto. Caffé forte e
silenzio teso abbondavano quella notte.
Tornarono che erano quasi le tre, quattro sui loro piedi e
l’ultimo tra le esili e deturpate braccia di Lupin. Mentre
adagiava Ginny dolcemente, la testa rossa sul tavolo e i suoi occhi
vitrei fissi in quelli di Hermione, Hermione aspettò che le
sgorgassero le lacrime. Non arrivarono mai.
E fu lì che capì. S’era arresa, o, per
lo meno, era lì che aveva capito di essersi arresa da tempo.
Dopo aver mormorato delle condoglianze a uno stoico Ron ed aver dato un
confortante abbraccio a Harry, la cui espressione impietrita faceva
fisicamente male agli occhi di Hermione, ritornò alla stanza
che divideva con Ginny e andò a dormire, senza nemmeno
cercare di evitare di guardare allo sfatto, sciupato e per sempre vuoto
letto di fianco al suo. Non aveva pianto, ma non aveva nemmeno riso.
Non ricordava come c’era riuscita.
Il letto di Ginny era rimasto vuoto, ma anche sfatto. Hermione non era
riuscita a costringersi a eliminare quell’ultimo, esile
ricordo di lei. Era stata viva, quando aveva stropicciato le lenzuola
nel sonno – tutti loro erano stati vivi.
Dopo la morte di Molly Weasley, Hermione s’era presa su di
sé il compito e la responsabilità di guida
materna, in quella grande, eterogenea e spezzata famiglia che viveva
nel quartier generale. La maggior parte dei membri
dell’Ordine non viveva a Grimmauld Place, o, nel caso lo
facessero, di rado rimanevano lì abbastanza a lungo
perché Hermione li potesse numerare tra le persone a cui
doveva fornire il suo aiuto e appoggio. Quelli che lei considerava
membri del suo gruppo reagivano alla guerra in maniera varia e
diversificata, e ben presto incominciò a chiedersi come la
Signora Weasley fosse riuscita a non impazzire, affossata dal groviglio
di preoccupazioni per i suoi figli, reali o adottivi che fossero.
I gemelli non scherzavano più. Dalla morte di Ginny,
Hermione era praticamente certa di non averli neanche mai visti
sorridere.
Arthur Weasley era, come sempre, un’anima gentile,
tranquilla, educata con tutti. Hermione spesso sentiva i suoi
singhiozzi e pianti nella sua stanza vuota, durante la notte.
La scarna figura di Lupin era ormai diventata scheletrica, e le
innumerevoli persuasioni e preghiere di Hermione non riuscivano a farlo
mangiare. Parlava poco, tranne che con Tonks, i cui occhi erano grandi
e vuoti sul suo volto. La ragazza era diventata terribilmente ombrosa e
nervosa, e raramente la si vedeva al di fuori della sua stanza se non
aggrappata disperatamente al braccio di Lupin, come se nessun altro a
parte lui potesse salvarla dai suoi orrori, immaginari o reali che
fossero.
Ron era rimasto un compagno leale e il fido secondo, nonostante tutte
le sue perdite e privazioni. Il suo dolore e lo stress si manifestavano
in una serie di piccole dipendenze che facevano sentire Hermione
impotente. Durante il giorno, mai lo si vedeva senza una sigaretta tra
le labbra o un tazza di caffé, così forte che
Hermione si stupiva non bruciasse il suo contenitore come acido puro,
tra le mani. Di notte, sembrava essersi preso come punto
d’onore ridursi all’incoscienza con il bere.
Peggio, tuttavia, di tutti gli altri messi insieme, era Harry. Aveva
tentato duramente di diventare il leader che tutti loro avevano
bisogno, e aveva anche fatto un lavoro ammirabile, considerando che non
era ancora diciassettenne quando s’era fatto carico della
responsabilità. Passava le ore in riunioni strategiche,
pianificava ogni missione e ogni battaglia, combatteva in prima linea,
e trascorreva ogni singolo istante libero in cerca degli Horcrux.
Hermione lo sapeva, però, anche se nessun altro sembrava
riconoscerlo. Neanche Harry ci credeva più. Erano, si
diceva, i suoi occhi che lo tradivano. I suoi occhi – oh, i
bellissimi occhi di Harry, che sempre erano stati ricolmi e
scintillanti di vita e speranza. Ora le ricordavano il colore del vetro
dei fondi di bottiglia, che così spesso aveva trovato sulle
spiagge da bambina; piatti e fragili, e irrimediabilmente spezzati.
Voleva piangere per Harry, ma non aveva più lacrime da
spargere.
Nonostante la cupezza delle loro vite attuali, Hermione s’era
rifiutata di rinunciare ad alcune cose. Si concedeva un lungo, bollente
bagno una volta a settimana, come sempre aveva fatto da prefetto,
quando lo stress accumulato diventava troppo. Insisteva che chiunque
non fosse via in missione si sedesse a cena insieme, ogni singola sera.
Si rifiutava di lasciar che Harry si rinchiudesse nella sua stanza,
quando non era impegnato in una riunione dell’Ordine, o che
mangiasse i suoi pasti come se ognuno di essi potesse essere
l’ultimo (ignorando con testardaggine il mormorio sinistro
nella sua testa che le diceva che in effetti quella poteva essere la
verità). E infine, non aveva permesso loro di dimenticarsi
del Natale, non importava quanto l’avessero voluto.
Agli inizi di Dicembre, aveva insistito per tirar fuori le decorazioni
natalizie che Molly Weasley aveva portato dalla Tana, quando la sua
famiglia s’era trasferita a Grimmauld Place in via quasi
definitiva. Arthur Weasley aveva acconsentito alla sua richiesta, e poi
s’era ritirato nella sua stanza. Hermione supponeva volesse
rimanere da solo con i ricordi di sua moglie e dei suoi figli, di chi
aveva già sacrificato alla guerra, ancor prima della morte
di Ginny. Non poteva dire di biasimarlo, neanche quando s’era
irrefutabilmente rifiutato di entrare nel salotto dove le decorazioni
luccicavano e risplendevano.
Tutti avevano tollerato i suoi sforzi di portare lo spirito natalizio
nella casa, ma a parte questa indulgenza collettiva, i suoi sforzi
avevano incontrato solo apatia, nel migliore dei casi, e occhiate
risentite e cupe, nel peggiore. Il vischio, arrangiato intorno alla
porta d’ingresso, sembrava essere continuamente sul punto di
avvizzire, nonostante l’incantesimo SempreVerde con cui
l’aveva avvolto accuratamente. Le calze che avrebbero dovuto
essere appese intorno alla cappa del camino, erano state infine tolte
tutte. Hermione s’era resa conto che non avrebbe sopportato
il doverle rimuovere una ad una alla caduta del loro proprietario. Le
luci e i fili argentati e dorati erano sgargianti e fastidiosi, quasi
crudeli. Persino l’albero di Natale (che aveva decorato da
sola, mentre le note di una triste canzoncina festiva giravano sulla
radio magica) sembrava esile e trascurato, quasi come se stesse
morendo. Il che, supponeva, era la verità. Tutto stava
morendo.
Era seduta davanti a quell’albero, ora. Lo guardava brillare
tristemente alla fluttuante luce del fuoco del camino. Era la Vigilia
di Natale, un momento che le famiglie avrebbero dovuto passare assieme,
condividendo gioia e risate. Era un momento in cui i miracoli sarebbero
dovuti accadere, e in cui tutti avrebbero dovuto essere insieme per
vederli.
E invece della felicità, delle celebrazioni, e
dell’eccitazione che associava alla Vigilia di Natale,
Hermione si ritrovava da sola, con lo sguardo fisso sul suo patetico
albero, facendo del suo meglio per alleviare le sofferenze degli altri,
e ritrovandosi tra le mani il frutto del suo pessimo lavoro. Tutti i
componenti di quella sua famiglia acquisita, distrutta e lacerata,
s’erano scusati per l’occasione e s’erano
rintanati nelle loro stanze, da soli con quali che fossero i pensieri
che li tormentavano in quella desolata serata. Lei aspettava
pazientemente che l’alcool nel suo bicchiere portasse il
benedetto torpore, nella speranza di scemare quel dolore acuto che le
era cresciuto dentro.
Sapeva che era sciocco farlo. Sapeva, persino se Ron e gli altri non
l’avevano capito (perché il più giovane
dei Weasley non era certamente l’unico a cercare rifugio nel
fondo di un bicchiere di firewhiskey) che non c’era torpore
che soffocasse il dolore. Il torpore era il dolore.
Era quell’orribile vacuità che li stava uccidendo,
quel sordo allontanarsi da se stessi che stava sfoltendo i loro ranghi
con più velocità e efficienza di quanto un
Mangiamorte avesse mai potuto sognare.
E improvvisamente, tutto quello fu troppo. Non poteva più
sopportarlo per un altro istante – la solitudine, la paura,
quell’orribile, vuoto posto nel suo cuore, dove una volta
c’era stata la speranza. Balzò in piedi, dalla sua
posizione accovacciata, difensiva, sul divano e lasciò la
stanza, senza prestar attenzione allo schiaccianoci cangiante dal volto
triste e dispiaciuto, che aveva schiacciato nella sua corsa.
Afferrò il suo mantello dall’attaccapanni vicino
alla porta e uscì all’esterno così
velocemente che il ritratto della Signora Black, leggermente appisolata
nella sua cornice, non si rese nemmeno conto che fosse successo
qualcosa. Hermione corse sui marciapiedi logori e sporchi
finché le torreggianti, desolanti mura di Grimmauld Place,
numero 12, non furono lontane e fuori dalla portata del suo occhio. Si
permise qualche secondo per riprendere fiato, e mentre rimaneva
lì, in piedi, diede un’occhiata a quanto la
circondava. Le ci vollero solo pochi attimi per capire dove il suo
subconscio la stava conducendo. Respirò profondamente,
chiedendosi se il suo cuore poteva davvero riuscire ad andare
là, o se non avrebbe retto al passare un’altra
notte così disperatamente da sola. Si guardò
attorno, nella strada abbandonata, poi gettò le precauzioni
al vento e si Smaterializzò con un piccolo pop
che riecheggiò come un colpo di pistola nella notte.
Aprì gli occhi e fissò con il cuore pesante i
cancelli di ferro davanti a lei. Odiava tanto i cimiteri. Ironico e
orribile, e tragico che non riusciva ad immaginare di passare quella
notte da nessuna altra parte. Raccolse tra sé il proprio
coraggio e iniziò il lungo percorso verso la sua meta.
La neve iniziò a cadere, mentre si avvicinava alle fresche
lapidi delle tombe giacenti sotto le stanche membra di una sterile
quercia. I fiocchi di neve si posavano sulle sue ciglia e si
scioglievano sulle sue guance. Agli angoli dei suoi occhi, i fiocchi
s’erano sciolti e lentamente scivolavano sul suo volto, in
una falsa imitazione delle lacrime che non riusciva a spargere.
Le lapidi, incise con nomi dolorosamente famigliari, erano disposte le
une accanto alle altre, un esercito unito in morte, così
come lo erano stati in vita. L’Ordine aveva iniziato a
seppellire lì i propri caduti, dopo che alcune delle tombe
erano state dissacrate dai Mangiamorte. Quel piccolo angolo del
cimitero era pesantemente protetto contro le maledizioni e la magia
Nera di qualunque tipo. Allarmi e barriere protettive erano disposte
tutto intorno per permettere ai nobili morti un riposo sereno.
Erba morta ricopriva alcune delle tombe più vecchie, mentre
altre, quelle dove riposavano le perdite più recenti, erano
coperte da null’altro che terra, e sembravano incredibilmente
esposte e indifese sotto gli sferzanti rami della quercia. Hermione si
voltò verso la lapide più recente, dove la terra
rigirata era così recente che avrebbe potuto setacciarla con
le mani, se lo avesse voluto, e lì si
inginocchiò.
La guerra e le perdite l’avevano resa forte, ma non
abbastanza da trascorrere un Natale senza la compagnia di coloro che
amava con quella disperazione e malinconia riservata solamente a chi si
è perso. Sedendosi sul suolo duro, gelato, Hermione
aspettò la mezzanotte, guardando la neve cadere lentamente e
ricoprire le tombe, fino al punto che distinguere terra ed erba fu
impossibile e che solo chi li aveva dovuti lasciar andare poteva sapere
da quanto gli occupanti di quei sepolcri fossero assenti dal mondo.
Mentre la profonda notte lasciava il posto alla prima ore del nuovo
giorno, Hermione era arrivata più vicina a sorridere di
quanto non le fosse capitato da molto, troppo, tempo. I muscoli del
volto che controllavano quel movimento, erano rigidi per il disuso e
quel pensiero le fece venire voglia di piangere ancora.
“Buon Natale”, sussurrò ai silenti
sepolcri. Nonostante la desolazione di quello che la circondava,
Hermione si sentiva stranamente in pace. Non era ancora disposta a
rinunciare alla bellezza di quel giorno.
Aveva rinunciato a così tanto per la sua causa, e si
rifiutò di sentirsi in colpa per non aver permesso alla
guerra di portarle via anche quello. Il Natale significava miracoli e
redenzione. Sicuramente, sicuramente, aveva ancora
lo stesso significato dopo tutto quello che aveva visto e perso?
Un movimento improvviso ai confini della sua visione provocò
l’immediata reazione, dovuta ai mesi d’allenamento
e di paranoia. Da seduta, si rimise in piedi e si accovacciò
dietro a una lapide torreggiante, la bacchetta in mano, pronta ad
essere usata; il tutto nel tempo che una volta le sarebbe servito per
rendersi conto se era successo qualcosa. Cautamente, scrutò
dal di sopra della pietra tombale, i suoi occhi lesti nella ricerca
dell’intruso inatteso nel cimitero innevato.
Lo individuò rapidamente, e per la prima volta in settimane,
sentì qualcos’altro oltre alla disperazione. La
furia che si riversò nelle sue vene portava via con
sé i mesi di sofferenza e paura accumulati, trasformando il
peso del dolore in cenere e fumo. Si sentiva più leggera di
quanto non lo fosse stata in settimane, più viva di quanto
non lo fosse stata in mesi. Il fuoco del suo odio la stava liberando, e
una certa sorpresa la colse nel constatare che la neve intorno a lei
non si stava sciogliendo per il calore.
A non più di trenta metri da lei, il viso girato verso una
piccola, appartata lapide d’ottone, c’era Draco
Malfoy. I suoi capelli erano lunghi (come quelli di suo padre,
rimuginò tra sé Hermione con cattiveria) e li
portava sciolti sulle spalle. Il suo abito e il suo mantello, neri come
una notte senza luna, si muovevano attorno alla sua esile e flessuosa
figura. Il suo volto era bello e pallido quanto i pendii alle sue
spalle. Se non l’avesse conosciuto fin da quando era bambino,
e avesse posseduto una natura solo un poco più
superstiziosa, avrebbe potuto onestamente credere che lui fosse un
angelo spedito sulla Terra per raccogliere le anime di coloro che se ne
erano andati per portarle con sé nei cieli.
Ma lui non era un angelo. Piuttosto era l’esatto contrario.
Non credeva sarebbe stata un’esagerazione dire che
l’Ordine voleva la sua testa quasi quanto quella di
Voldemort. Per una semplice ragione. Se Grimmauld Place era il loro
inferno, allora lui era il loro Caronte, il barcaiolo che trasportava
le anime dei dannati sul fiume Acheronte e che le portava in un inferno
senza speranza. Lei incolpava lui, tutti loro
incolpavano lui (con la sola eccezione, forse, di Harry) per le
sofferenze che stavano sopportando.
Draco Malfoy aveva portato via loro la speranza. Non aveva ucciso
Silente, forse, ma per qualche motivo quello non sembrava importare. Il
sangue del loro leader imbrattava le sue mani, e ogni volta che un
altro dei loro cadeva, ogni volta che la guerra sembrava ancor
più disperata e il mondo diventava ancor più
cupo, quel sangue sembrava versarsi di nuovo. Senza Silente, non
avevano più una direzione da seguire, e senza guida, stavano
cadendo. Ed era colpa di Draco Malfoy.
Hermione non aveva mai usato una maledizione letale, non l’avrebbe
fatto. Sperava di non doverlo mai fare, perché dubitava che
sarebbe riuscita a sopravvivere sapendo di aver preso la vita di
un’altra persona tra le sue mani e di averla schiacciata via.
Ma, se mai fosse venuto il momento in cui non avrebbe avuto
più nulla da perdere alle spalle e più nulla di
cui preoccuparsi davanti a sé, ecco allora lì, di
fronte a lei, c’era l’uomo che avrebbe scelto di
ammazzare.
Aveva già sollevato la sua bacchetta ed era già
nel mezzo di lanciare una fattura per immobilizzarlo, quando Malfoy
fece qualcosa che le fece fermare la mano. Con un’apparente
incuranza per i suoi vestiti costosi e lindi, si inginocchiò
nella neve e prese, dall’interno del suo mantello una singola
rosa color del sangue, stupefacente nella sua perfezione. Con una
gentilezza di cui non l’avrebbe creduto capace, la depose
sulla tomba, e poi, piegandosi su un ginocchio, chinò
rispettosamente la testa e chiuse gli occhi.
Hermione si sentì improvvisamente persa. Voleva colpirlo,
farlo soffrire per la propria sofferenza, per la sofferenza delle
persone a cui voleva bene, ma non poteva farlo quando lui si stava
chinando con dolore, davanti al sepolcro di qualcuno per cui sembrava
genuinamente addolorato. Così fece l’unica cosa
che poteva fare. Avanzò fino alle sue spalle, furtivamente,
come aveva imparato a fare in quei sei mesi di guerra.
“Non muoverti”, sibilò nella notte
gelida. Stranamente, lui non rispose se non scoccando un indifferente
sguardo sulle sue spalle, prima di ritornare a focalizzare la sua
attenzione sulla tomba davanti a sé.
“Come sei stata melodrammatica, Granger,” disse,
dopo alcuni attimi di silenzio. “Era veramente il meglio che
sei riuscita a mettere insieme? Devo ammettere che sono un
po’ deluso.”
“Che diavolo ci fai qui, Malfoy” sputò,
chiedendosi se quell’ingrato, arrogante bastardo avesse una
qualche idea di quanto fosse fortunato ad essere davanti a quel
particolare membro dell’Ordine, perché se fosse
stato qualsiasi altro, allora sarebbe già stato menomato e
morto un centinaio di volte in quel momento.
“Avrei detto che fosse ovvio,” replicò
con voce piuttosto stanca. “Che altro fa uno in un
cimitero?”
Hermione non riuscì a fermarsi. Fece un passo avanti e
portò la punta della bacchetta a contatto contro il suo
collo pallido, tremante di pura rabbia.
“Abbiamo visto cosa fate voi nei cimiteri, e non è
questo”, sibilò. Fu abbastanza sorpresa nel
vederlo accipigliarsi.
“Sì, suppongo di sì. Avevo detto al
nostro Signore che non ne sarebbe venuto nulla di buono nel dare
all’Ordine ulteriori motivi di vendetta, ma gli piace
indulgere sui capricci dei suoi fedeli, quando si sente
nell’umore di farlo. E così loro si sono
divertiti. È piovuto rosso con il sangue dei morti, quella
notte”, Hermione si sentiva fisicamente male nel sentire il
tono indifferente, ma allo stesso tempo stranamente affascinato, con
cui descriveva le mutilazioni dei corpi delle persone che lei aveva
amato e rispettato.
“Alzati e guardami, lurido bastardo”,
ordinò con una voce che incrinata della rabbia.
Malfoy fece come gli era stato chiesto senza protestare, il che la
innervosì ancor più di una qualsiasi risposta che
avrebbe potuto darle. Quando fu in piedi, in tutta la sua altezza, il
suo primo pensiero fu che era molto più basso di quanto non
ricordasse. Non poteva essere più alto di lei di un paio di
pollici. Ironico che, nei suoi ricordi, il corpo del ragazzo
torreggiasse sul suo, così come il suo indubitabile odio nei
suoi confronti.
La seconda cosa che notò quasi le mozzò il
respiro. Morto. Quella era la prima parola che le
venne in mente. Una pallida, viva faccia con occhi morti come quelli di
tutte le vittime dell’Avada Kedavra che
aveva visto. Occhi morti nello stesso modo in cui erano morti quelli di
Harry, nello stesso modo in cui erano morti quelli di Arthur Weasley,
nello stesso modo (se doveva essere onesta con se stessa) in cui erano
morti i suoi. Occhi derubati da tutto quello che rende la vita una cosa
desiderabile. Se lei non l’avesse odiato così
intensamente, avrebbe pianto per il vuoto piatto e freddo in quegli
orbi argentei.
Si era aspettata di vedere odio, spirito di vendetta, freddo calcolo e
furia appassionata in Draco Malfoy. Si era aspettata di vederlo fuggire
o combattere o attaccare o fare qualcosa. Non era
pronta a vedere sul suo volto la stessa sconfitta che vedeva nel suo,
di viso, quando racimolava abbastanza coraggio per guardarsi allo
specchio. Lui non stava vincendo? Non aveva
già vinto?
Per un lungo momento si limitarono a fissarsi l’un
l’altra, immobili, a mala pena memori di respirare. Lei vide
una vaga sorpresa passare sopra i tratti del suo volto, quando i suoi
occhi si fermarono sui suoi. Prima che lei riuscisse a fare un
qualunque commento, prima che potesse schiantarlo come aveva
programmato di fare, lui inclinò la sua testa regale su di
un lato, paralizzandola con i suoi freddi occhi morti, nello stesso
modo con cui ci sarebbe riuscito con un ben eseguito Pietrificus
Totalus
.
“Persino tu, Granger?” chiese, quietamente.
Hermione doveva essersi immaginata il disappunto e la disperazione
nella sua voce.
“Persino io, cosa?” rispose, cercando di suonare
impaziente e disinteressata, e fallendo miseramente.
“Ha ucciso anche te.”. Lei non si
scomodò nel fargli notare che lei era, ovviamente,
più che viva lì davanti a lui, perché
parte di lei concordava con lui: non era viva.
“Che cosa?” sussurrò.
“La Guerra.”. La sua voce era gelida come il vento
dicembrino. Hermione non riusciva a pensare a nulla da dire, mentre se
ne stava lì in piedi, paralizzata dalla vacuità
nei suoi occhi. Aveva una stranissima sensazione. Anche se era lei
quella con la bacchetta in mano, era Malfoy quello che aveva il potere.
La disturbava rendersi conto che non aveva paura né di lui
né di quello che avrebbe potuto farle.
Infine, lui ruppe quella situazione di stallo alzando un solo
sopracciglio, perfettamente cesellato, in qualcosa che sembrava
riecheggiare un sardonico divertimento.
“Che cosa pensi di fare con quella, Granger?”
chiese, facendo un cenno con la sua testa verso la bacchetta ancora
puntata alla sua gola. “Uccidermi?”
Per un breve momento, considerò
l’eventualità di rispondergli di sì, o
di dirgli che lo stava per schiantare come aveva inteso fare fin
dall’inizio, ma all’improvviso si rese conto che
non sarebbe stata la verità. Sentì il braccio
caderle lentamente di fianco.
“Che cosa cambierebbe se ti uccidessi?” chiese
infine, travolta da una spossatezza sia fisica che mentale.
“Siamo già entrambi morti.” Sapeva che
era un suicidio lasciar cadere le proprie difese in compagnia di un
noto Mangiamorte, ma lei era così stanca,
e si chiese se veramente si sentiva al sicuro in sua presenza o se era
solo troppo prosciugata perché gliene potesse importare
ancora.
Malfoy sembrò accettare il suo comportamento con
tranquillità, e la studiò per un attimo con una
sconcertante intensità.
“Desideri mai essere una di quei fortunati i cui corpi sono
morti, insieme alla loro anima?” le chiese con calma.
“No”, replicò lei con voce tremula,
mentre vacillava sotto l’onestà nei suoi occhi.
“Quando desidero qualcosa, allora è per la vita
piuttosto che la morte.”.
“Rivuoi indietro la tua vita, quindi?” chiese
ancora.
“No”, mormorò. “Le loro sono
quelle che rivoglio indietro.”. Fece un gesto verso le pietre
tombali accostate solennemente in cima alla collinetta.
“Voglio sentire le loro voci, vederli sorridere. Voglio che
siano al sicuro e felici.”
Malfoy la guardò con la più bizzarra delle
espressioni, come se l’idea di desiderare la vita degli
altri, piuttosto che la morte per se stessi non gli fosse mai venuta in
mente.
“Lei non è mai stata al sicuro, mai
felice”, disse all’improvviso. “Volevo
darle quelle cose. Sono arrivato tardi.”
L’ambiguità della frase lasciò
interdetta Hermione per un momento.
“Chi?”
In risposta, Malfoy fece un passo di lato e voltò il viso
verso la tomba che era venuto a visitare. Hermione strizzò
gli occhi nella fioca luce, finché non riuscì a
leggere il nome inciso nell’ottone.
Narcissa Black in Malfoy
1960-1997
Madre Amata
“Quando?” sussurrò Hermione.
Malfoy si girò verso di lei. Vero dolore, vera sorpresa sul
suo volto.
“Non lo sai?” chiese. Lei scosse la testa, senza
proferire parola, voltando il viso verso la semplice lapide.
“E’ morta al San Mungo lo scorso mese. Era
lì fin da quando il Ministero ha setacciato il Maniero alla
mia ricerca, quest’estate.” Hermione
scandagliò nella sua memoria per trovar traccia di quei
tempi agitati. Sembrava essere trascorsa una vita da allora.
“Oh, era stata ferita, giusto?” esclamò
all’improvviso, un articolo della Gazzetta le era tornato in
mente. Malfoy rise crudelmente.
“E’ stata torturata,
Granger”, sputò con furia tagliente. Hermione
sentì il sangue gelarle nelle vene e lo stomaco chiudersi
pericolosamente.
“Cosa? Chi…?”
“Chi pensi?” il suo volto era una maschera di odio
e vendetta.
“Loro non avrebbero…”
protestò Hermione debolmente, sebbene quell’idea
sembrava troppo terribilmente corretta per non essere vera. Gli occhi
di Malfoy, mentre si girava di nuovo verso la lapide, erano scuri per
il dolore.
“Mi stavano cercando” mormorò piano, e a
Hermione parve che si fosse dimenticato che lei fosse lì.
“Venti anni passati nell’ombra dei nemici di mio
padre e il peggio che le era capitato era stato essere di poco mancata
da uno schiantesimo. Due settimane nella mia vita da fuggitivo ed
è stata torturata fino alla pazzia dai bravi
ragazzi.”.
“Non lo sapevo”, sussurrò Hermione,
sentendo il fantasma della perdita intorno a sé, mentre il
vento invernale fischiava intorno a lei.
“No, suppongo che non lo sapessi”, disse Malfoy a
voce bassa, al suo fianco. “Avevi i tuoi morti da
piangere.”
Sicuramente lei li aveva avuti, ma si rese improvvisamente conto di non
essere l’unica ad avere perso qualcuno e qualcosa.
“E’ una bellissima rosa. Sono sicura che
l’apprezzerà” offrì Hermione,
senza nessuna ragione. Il pallido eco di un sorriso veleggiò
agli angoli delle sue labbra.
“Sono sicuro che le piacerà. È del suo
giardino. Amava le sue rose. A volte ho pensato che le amasse
più di me, o persino di mio padre. Mi ricordano sempre lei.
Stanno morendo da quando lei è stata portata via, non
importa quanto io tenti di tenerle in vita. Questa era
l’ultima.” La sua voce era così piatta
che quasi le spezzò il cuore, per una ragione che non
riusciva nemmeno a sfiorare.
“Ti manca?” chiese, le sue parole portate via nella
fredda notte.
“La conoscevo a mala pena” sussurrò
Malfoy. Non era una vera risposta, ma in un certo senso lo era.
Hermione rimase con lui ferma in quello strano silenzio confortevole,
per un lungo momento.
“E’ il primo Natale che trascorriamo senza di loro.
Credi che manchiamo a loro quanto a noi mancano loro?” chiese
Hermione. Alzò lo sguardo verso di lui, quando non rispose,
e lo trovò a fissare la lapide con una bizzarra espressione
sul volto.
“Spero che, dovunque siano, non debbano più
provare sentimenti come perdita e malinconia”, rispose dopo
un momento. Girò quegli occhi che riflettevano la luce della
luna per guardarla. “E’ davvero Natale?”
Hermione sbatté le ciglia, come se si fosse svegliata
improvvisamente.
“Certo, certo che lo è” rispose,
chiedendosi a che gioco stesse giocando con lei, ora. “Non lo
sapevi?” Lui scrollò le spalle, con eleganza.
“Ha poco significato per me. Non andrò certamente
a sprecare il mio tempo per celebrare una vacanza ridicola, con il solo
scopo di stimolare l’economia Babbana e ricevere inutili beni
materiali di poca qualità e ancor meno valore.”.
Hermione sbatté gli occhi, più che leggermente
affrontata dalla mordace descrizione di un momento dell’anno
che per lei era sacro e miracoloso.
“E’ una cosa orribile da dire, Malfoy”,
mormorò, più vicina ora alle lacrime di quanto
non lo fosse stata da molto tempo.
“Bene, io sono un uomo orribile”, disse in maniera
distaccata, ma anche vagamente disperata, tanto che le fece pensare che
forse lui potesse sbagliarsi.
“Il Natale è molto più di
quello”, sussurrò, scegliendo di ignorare il suo
ultimo commento. Lui rise, in maniera stranamente simile
all’ululato del vento che rimbomba nel tronco cavo di un
albero.
“E’ solo un giorno, Granger. Solo un inutile
giorno, come qualsiasi altro inutile giorno dell’anno.
Accadono cose brutte, guerre vengono combattute, muore altra gente.
È solo un giorno.” Rise derisoriamente, e i suoi
occhi luccicarono, piatti. “Così tanta magia al
mondo, tutto intorno a voi, e voi Babbani idioti la cercate
nell’unico posto dove non può essere
trovata.”.
“C’è magia in questo giorno, Malfoy.
Tanta. È un giorno di salvazione e miracoli e redenzione. Se
questa non è magia, che
cos’è?” Voleva così tanto
farglielo capire, sebbene non avrebbe saputo dire il perché
neanche sotto minaccia di morte. Lui scosse la testa verso di lei, come
s fosse stata una bambina recalcitrante, ostinata.
“Questa non è magia. È
un’illusione che ti convinci a credere perché non
c’è più nulla di tangibile a cui
credere.”.
“Non lo credi davvero”, mormorò
Hermione.
“Sì che ci credo. ‘Felice
Natale!’” disse con sarcasmo. I suoi occhi
brillarono all’improvviso, di rabbia. “Che diritto
hai di essere felice? Che ragione hai di essere felice? Che ragione ha
ciascuno di noi per esserlo?” Il suo tono era ricolmo di
lacerante disperazione.
Hermione era arrabbiata, ora. Il Natale significava qualcosa per lei,
significava qualcosa di speciale e di bellissimo, e lui stava tentando
di portarle via anche quello, così come le aveva portato via
tutto il resto.
“Non ti ascolterò per un altro secondo. Solo
perché tu non riesci a vedere il potere di questo giorno non
significa che non ci sia! Sono venuta qui per iniziare il Natale con le
persone che amo, e non sprecherò un altro secondo
-” si fermò all’improvviso, come se
qualcosa di fondamentale le fosse venuto alla mente. “Aspetta
un attimo. Se tu non sapevi che era Natale, che ci fai qui a visitare
la tomba di tua madre nel mezzo della notte?”
Pensò che quella fosse la prima volta, in tutto il tempo che
lo aveva conosciuto, in cui Draco Malfoy assunse
un’espressione colpevole. I suoi occhi sfuggirono i suoi e
lui continuava a spostare il peso da un piede all’altro.
“Beh, io… era solo…”
Roteò gli occhi e si passò una mano agitata tra i
suoi capelli serici. “Oh, maledizione! Sto scappando via,
okay?” scattò. “E’ questo
quello che volevi sentire? Me ne sto andando e volevo dire
addio.”
“Cosa vuoi dire con ‘scappando
via’”? chiese Hermione, senza respiro.
“Non sarai più un Mangiamorte?”
“Non hai imparato nulla in questa guerra,
Granger?” scattò con rabbia. “Uno non
smette di essere un Mangiamorte. Solo la morte può liberarti
da quel vincolo. No, io sto scappando via.”
“Quindi li stai lasciando? Hai smesso di credere a quello che
dicono?” Sentiva le vertigini alla sola idea.
“Per smettere di credere, avrei dovuto avere fede
all’inizio, no?” replicò con sarcasmo.
Il fuoco della rabbia sembrava essersi spento dal suo volto, e lui
sembrava star affondando su se stesso. Si appoggiò di fianco
alla lapide che aveva di fianco, chinandosi come se non avesse
più neanche la forza di reggersi in piedi da solo. I suoi
occhi erano chiusi e il suo volto rivolto verso l’alto, come
se stesse cercando di bagnarsi con le lacrime gelati che piovevano dal
cielo.
“Mi è passato tutto davanti così in
fretta” sussurrò, e Hermione si chiese ancora se
fosse consapevole della sua presenza o se pensasse di star parlando con
qualcun altro. “Pensavo di sapere quello che stavo facendo.
Stavo tentando di fare quello che ci si aspettava da me, quello che mi
era stato insegnato per tutta la mia vita. Pensavo che se avessi fatto
quello che mi avevano chiesto, mi avrebbero lasciato in pace, e io e
lei saremmo stati al sicuro.”. Hermione cercò di
raccogliere tutta la rabbia che possedeva nell’ascoltare le
sue ragioni per le azioni che avevano condotto alla morte di Silente,
ma tutta quella rabbia sembrava essersi volatilizzata via. Non lo
interruppe, e lui continuò.
“Un minuto ero un bambino viziato che seguiva le orme di mio
padre, e quello successivo era un soldato che combatteva nella guerra
di qualcun altro. Prima che me ne rendessi conto, avevo più
sangue sulle mia mani, di quanto potrò mai lavarne
via.”. I suoi occhi si spalancarono e si fissarono su quelli
della ragazza, a pregarla per qualcosa che lei non capì.
“Io voglio solo fermarmi. Non ho sentito nessuna altra
sensazione che non fosse la vacuità per così
tanto tempo, e non riesco più a sopportarlo. Me ne sto
andando via, dove non dovrò più uccidere, o
combattere, o fare il mio dovere.”.
Sputò l’ultima parola come se fosse un veleno
mortale sulla sua lingua. “E quando il mio Signore mi
troverà, darò il benvenuto alla mia morte. Mi
merito di peggio per quello che ho fatto.”
“Se ti senti così, perché non cerchi di
riparare gli errori?” chiese Hermione, pacata. La sua risata
fu aspra, un suono vuoto nella notte.
“Riparare gli errori?” ripeté con
sarcasmo. “Hai dimenticato quello che ho fatto, Granger? Il
tuo prezioso Silente è morto a causa
mia! Ho ucciso e torturato e distrutto, senza pietà
né rimorso. Sono stato uno schiavo al servizio del mago
più malvagio al mondo.”. Fece un passo in avanti,
invadendo lo spazio personale della ragazza, come a volerla far
rimpicciolire sotto il suo sguardo ferreo. “Ho fatto cose che
ti farebbero arricciare il sangue se le sapessi. Come potrei riparare i
miei errori?”
“Unisciti a noi”, mormorò con urgenza.
Malfoy sbatté le palpebre, puro shock sul suo volto.
“Dicci quello che sai. Se odi Voldemort così
tanto, torna da lui e aiutaci a distruggerlo. Redimiti con la tua
lealtà.”.
“Sei pazza quanto lo era il vecchio”,
sogghignò. “Non è rimasto nulla da
redimere in me, Granger.”
“Non ci credo”, sussurrò.
“T’ho visto con tua madre. Non sei ancora
perso.”. I suoi occhi luccicarono con… qualcosa
per un brevissimo attimo, ma immediatamente quel qualcosa se ne era
andato e la vacuità era tornata. Le sembrava di star
guardando delle lamiere d’acciaio.
“Servirebbe un miracolo per portarmi indietro”,
mormorò lui con un pizzico di disperazione.
“E’ una buona osa, allora, che oggi sia un giorno
di miracoli, no?” replicò. Le sembrò di
vedere il fantasma di un sorriso aleggiare sulle sue labbra, ma se ne
era andato troppo in fretta, per poterlo dire con sicurezza. Lui scosse
la sua testa e iniziò ad allontanarsi da lei.
“Te l’ho già detto, Granger. Non credo a
quelle vaccate”, disse con disprezzo, in un tono che
suggeriva come stesse cercando di convincere se stesso, ancor prima che
lei. Hermione si sentì inesplicabilmente arrabbiata per il
suo rifiuto alla propria offerta.
“Va bene, allora”, scattò, senza curarsi
del volume della sua voce, che stava crescendo abbastanza da rischiare
di attirare attenzione se qualcuno fosse passato, per caso, vicino al
cimitero. “Scappa e sii un codardo, se è quello
che vuoi. Vivi il resto della tua vita come un fuggiasco, marchiato
come traditore da entrambe le parti. Muori sapendo di non aver fatto nulla
di degno con il tempo prezioso che ti è stato donato,
persino avendo avuto la possibilità di cambiare il destino
del tuo mondo. Suppongo che tu abbia ragione. Non ti meriti nulla di
meglio.”
Il volto di Malfoy arrossì e i suoi tratti si irrigidirono
in una maschera di rabbia. Aprì la bocca, come a voler
replicare. Prima di lanciarsi a briglie sciolte in qualunque fosse la
tirata che stava crescendo dentro di lui, sbatté le palpebre
per lo stupore e la fissò senza parole per un momento.
“Questo mi ha fatto arrabbiare”, disse lentamente,
quasi che fosse una cosa a cui non potesse credere.
“Bene, bene”, scattò
Hermione. Lei voleva che lui fosse arrabbiato. Lei
lo era di certo.
“Era da tanto tempo che non mi arrabbiavo. Era tanto che non
sentivo nulla”, spiegò
lentamente. “Nulla se non paura e spossatezza.”.
“Anch’io”, ammise Hermione, con
pacatezza.
“Tutto il mondo mi sembra assopito”,
commentò lui, e lei tremò
all’accuratezza della sua descrizione.
“E’ come se la Guerra avesse messo un muro di vetro
tra me e tutto il resto. Non mi ferisco più, ma a volte
vorrei farlo. Sarebbe meglio.”.
“Se ci feriamo, significa che siamo ancora vivi”,
continuò per lui Hermione. “Se ci feriamo,
significa che ricordiamo come è non
essere feriti, e significa che c’è ancora
speranza.” Chiuse gli occhi, desiderando che le lacrime
sgorgassero.
“E’ passato così tanto tempo da quando
ne abbiamo avuta un po’, che sto iniziando a dimenticarmi
cosa vuol dire averla”, mormorò, Quando
riaprì gli occhi, lui la stava fissando, e lei
pensò che lì c’era l’unica
persona che l’aveva ascoltata da fin
troppo tempo.
Inclinò la testa, nella sua maniera tipica, e
iniziò a camminare verso di lei, con un passo misurato,
deliberato. Infine, lei fu costretta a fare un passo indietro, e si
ritrovò contro il tronco di una quercia innevata.
“Che stai facendo?” chiese, sentendosi come se
tutta l’aria nel suo petto se ne fosse andata per il calore
del suo scuro sguardo argenteo.
“Sono così stanco di essere
intorpidito,” mormorò. “Voglio sentire
qualcosa ancora una volta, ancora una volta prima di
morire…”
Il respiro di lui aleggiava sulle labbra di Hermione, più
bollente di migliaia di falò nella notte gelata di Dicembre.
Lei tremò per la sua stretta, ma non trovò la
forza di allontanarlo.
“Non penso…”, iniziò, ma lui
scosse la testa, appoggiandola, poi, contro quella della ragazza e
facendole dimenticare quello che stava per dire.
“Esattamente. Non pensare.” Non avrebbe potuto
controbattere neanche se l’avesse voluto… e, che
Merlino l’aiutasse, non lo voleva. Era
stanca anche lei, stanca di sopravvivere senza vivere, stanca di
esistere senza sensazioni. Quando Malfoy abbassò le sue
labbra sulle sue, non oppose resistenza.
Non era quello che si sarebbe aspettata da un bacio con Draco Malfoy.
Non era né seducente, né elegante, e nemmeno
null’altro di quello che aveva sempre sentito associare a
lui. Le loro labbra screpolate sfregavano le une sulle altre quasi
dolorosamente, e quel bacio non aveva nulla di tenero, ma tutto di
disperazione e bisogno. Non era il miglior bacio che lei avesse
ricevuto; era molto lontano dall’esserlo, in effetti. Ma lei
lo stava sentendo, lo sentiva fin nelle punte dei
piedi, e nella stretta delle dita del ragazzo intrecciate nelle sue
(quando si erano intrecciate?). Non aveva mai sentito nulla di simile
in così tanto tempo, forse da sempre.
Era come svegliarsi dopo un sonno di giorni e giorni di fila. La brezza
sembrava più sferzante; il tronco contro la sua schiena,
più ruvido; la sofferenza e l’afflizione, che
giacevano pesanti nel suo petto, sembravano aver acquisito angoli
più taglienti e aver causato ferite più profonde.
Ma anche quello era perfetto. Voleva che Draco
Malfoy continuasse a baciarla finché il mondo intorno a loro
non fosse ridotto in cenere, fino a quando continuasse a tenere lontano
il torpore.
Quando lui iniziò ad allontanarsi, sembrò troppo,
troppo presto. Lei trattenne il respiro, mentre lui si ritirava da lei
di un altro passo, aspettando che quell’orribile vuoto
tornasse… ma non accadde. Il suo volto era ancora freddo, il
suo cuore ancora perseguitato con il dispiacere e una vaga paura. Era
passato tanto tempo dall’ultima volta che l’aveva
avvertita, tanto che quasi non riusciva a ricordarsi com’era,
ma era quasi certa che l’emozione che le stava nascendo nel
petto fosse gioia.
Malfoy la stava fissando come se non fosse interamente sicuro che i
suoi occhi non lo stessero ingannando. C’era un colore sulle
sue guance che lei non credeva avesse nulla a che fare con il freddo, e
il suo respiro stava fuoriuscendo dalle sue labbra in rapidi sbuffi
bollenti nella notte. Osservando lui, il suo volto troppo tirato, dai
tratti taglienti, i suoi occhi color del fumo (se lo stava immaginando,
o c’era una scintilla di vita, in quegli occhi, che non
c’era stata prima?), le venne improvvisamente voglia di
baciarlo ancora. Voleva che lui la baciasse, e quel desiderio non aveva
più nulla a che fare con lo scacciar via la malinconia, la
solitudine o il doloroso vuoto nel suo petto, e questo la spaventava
più che ogni altra cosa.
“Devo andare”, disse lui d’un tratto, una
nota di panico nella sua voce. Fece per voltarsi, poi la
guardò stringendo gli occhi. “Mi
fermerai?”
“No”, rispose prima di poterci pensare troppo.
“Perché no?”
“Non lo so”, replicò. Lui
assentì leggermente, e si giro per andarsene.
“Malfoy?” riprese, all’improvviso. Lui si
fermò e tornò a guardarla. Per un momento,
guardando quegli scuri occhi grigi (come aveva potuto pensare che erano
glaciali, quando vorticavano con tale profondità, con tale
calore?), si dimenticò cosa voleva dire. “Che cosa
farai?”
“Non lo so”, le fece eco, piano.
L’espressione che aveva addosso in quell’istante
avrebbe dovuto essere troppo dolce per i suoi tratti, ma in qualche
modo non stonava. Chinò il capo, nell’accenno di
un delicato inchino. Poi, con uno svolazzo di nero e fiocchi di neve,
se ne andò.
Hermione strizzò le palpebre, guardando il punto che lui
aveva occupato solo istanti prima. Si girò ad osservare la
solenne fila di lapidi che si stagliavano sulla collinetta, ma si rese
conto che non sentiva più il bisogno di ritornare
lì. Per la prima volta da tanto tempo non si sentiva sola.
Si aprì in un sorriso in mezzo alla neve cadente.
“Buon Natale, Malfoy”, mormorò nella
notte. Poi, con un piccolo pop, anche lei
sparì.
La mattina successiva, Hermione si svegliò con la luce del
sole che colpiva il suo volto. Rimase sdraiata sul letto per un
momento, cercando di capire se gli strani eventi della notte precedente
fossero davvero successi o tutto fosse stato solo un sogno regalatole
in quella sequenza di orrori che infestavano i suoi riposi. Solo quando
s’accorse che il vuoto nel suo petto s’era
alleggerito, che per la prima volta da troppi mesi non temeva di
alzarsi dal letto, capì che era successo davvero.
Qualche minuto dopo, Hermione stava scendendo dalle scale, avvolta
nelle sue vesti e in pantofole, per essere accolta dalla,
probabilmente, più solenne mattina natalizia della storia
del mondo. Arthur Weasley era seduto sul divano con Fred e George,
tutti e tre stavano fissando l’albero decorato, ma il loro
sguardo era perso nel vuoto. Tonks e Lupin erano seduti vicini su due
poltrone, vicini. Tonks stringeva la mano di Lupin talmente forte che
le sue nocche erano bianche. Ron era appoggiato contro la parete, stava
guardando fuori dalla finestra con una tazza di caffé in
mano, circondato da una nuvola di fumo. Qualche altro membro
dell’Ordine era sparso per la stanza, a sorseggiare del
tè o del caffé e con lo sguardo perso. Nessuno
stava parlando.
“Buon giorno”, disse Hermione, piano. Un paio di
occhi disinteressati si voltarono verso di lei, e Arthur Weasley le
offrì un debole sorriso.
“Buon Natale”, continuò, esitante.
“Buon Natale, Hermione”, le rispose Harry, alle sue
spalle. Si girò per vederlo entrare dalla porta
d’ingresso, il suo naso arrossato dal freddo e qualche fiocco
di neve tra i suoi capelli scuri. Tra le sue braccia aveva qualche
pacchetto, tutti, ad eccezione del più grande, erano
impacchettati con carta natalizia. Gli tolse alcune dalle scatole dalle
mani e, insieme, le portarono tutte sotto l’albero, dove un
modesto numero di regali era già presente.
“Arrivi dell’ultima ora”, disse Harry con
falsa felicità. “E’ stata una bella
camminata faticosa andare fino alla guferia con questa neve, ma pensavo
ne valesse la pena.”
“Sono sicura che tutti apprezzano il tuo gesto,
Harry”, gli replicò Hermione, cercando di
schermarsi dalla piattezza degli occhi del suo amico.
Sistemò meglio i regali, poi si girò verso gli
altri occupanti della stanza, con un sorriso fragile sul volto, fragile
come lei si sentiva.
“Chi vuole aprire il primo regalo?” chiese
vivacemente. Nessuno rispose, così Hermione si
voltò a prendere il primo pacchetto che le capitò
sotto mano. “Ron, è per te”,
annunciò. Rispettosamente, Ron avanzò e
aprì il suo regalo, un paio di guanti di cuoio di drago da
parte di suo padre. Elargì i ringraziamenti di rito, e un
ciclo simile si ripeté per i pacchi successivi.
Hermione stava pensando che ci sarebbe stata più
pietà, forse, se ognuno si fosse ritirato nelle proprie
stanze con i propri scarni regali, così da non dover essere
costretti a sopportare quella odiosamente sconfortevole situazione,
quando la sua mano sfiorò un tessuto particolare. Si
girò a guardare e vide che aveva toccato la scatola grande
che era arrivata giusto quella mattina. La prese in mano, per leggere
il biglietto, solo per scoprire che non c’era nessun
biglietto ad accompagnarla. La scatola era avvolta in carta marrone,
con una busta ben assicurata al coperchio.
“Harry, sai chi ha mandato questa?” chiese,
sentendo la paura sprigionarsi nel suo petto, come un serpente.
Sentendo un bizzarro timbro nella sua voce, Harry aggrottò
le sopracciglia, girandosi a guardarla.
“No, era appoggiata insieme alle altre. Ho pensato che il
gufo che l’aveva portata si fosse stancato di aspettare e se
ne fosse ritornato a casa. Perché? Cosa
c’è che non va?”
“Non c’è nessun nome, nessun
biglietto”, sussurrò Hermione. L’ansia
eruppe immediatamente negli occupanti della stanza, e quella piccola
riunione fu subito immersa in quello spirito di cautela che
caratterizzava veramente troppi dei momenti che passavano insieme.
Harry si avvicinò a lei, e gentilmente le tolse la scatola
dalle mani. Anche Lupin s’alzò e venne verso di
loro. Lanciò un paio di incantesimi di prova sulla scatola,
prima di slegare la busta sul coperchio.
“Non sembra essere pericolosa”, concluse con voce
tesa, mentre apriva la lettera. “Sta attento,
Harry.”. Harry assentì, rigido, prima di svolgere
la scatola dalla carta che la ricopriva e aprirla con la massima cura.
Mentre il resto della stanza tratteneva il respiro, estrasse dalla
scatola… un fascicolo di documenti.
“Che cos’è tutto questo?”
chiese, suonando più arrabbiato e spaventato di quello che
Hermione si sarebbe aspettata. I suoi occhi smeraldo scorsero
velocemente il documento in cima. Il suo volto si gelò in
un’espressione di shockata incredulità, mentre
procedeva a rileggere con più calma il foglio che aveva in
mano. Improvvisamente, iniziò a sfogliare rapidamente il
plico, i suoi occhi che si allargavano alla vista di ogni documento.
“Tattiche, piani di battaglia, rapporti statistici, lettere
confidenziali…” alzò lo sguardo verso
le facce tirate dei suoi compagni, la sorpresa nei suoi occhi
scintillanti. “Da parte di qualcuno dall’altra
parte. Chi può averlo fatto?”
“Un Mangiamorte”, sussurrò Lupin,
fissando la lettera, non letta, che aveva tolto dalla cima del pacco.
“Qualcuno che ha tradito?” chiese una voce dal
fondo della stanza. Hermione, ormai, non li stava quasi più
ascoltando. Non sentiva quasi più nulla, a parte il violento
battito del suo cuore. Non poteva essere, di sicuro, non
poteva essere…”
“Draco Malfoy”, annunciò Lupin, la sua
voce quasi minuta per lo shock. Tutti si guardarono gli un gli altri,
l’incredulità sui loro volti. Hermione si
sentì svenire forse per la prima volta nella sua vita, e si
lasciò cadere sulle ginocchia sul tappeto, di fianco ad
Harry.
“Non ci credo”, sibilò il ragazzo.
“E’ un trucco.”.
“Potter”, iniziò a leggere Lupin, con la
sua voce calma, che non giudicava. “Ho abbandonato il
sentiero che era stato tracciato per me. Non chiedermi
perché, non te lo dirò, e tu non mi crederesti se
io lo facessi. Piuttosto che morire da fuggiasco con una vita buttata
al vento, ho deciso di fare qualcosa di degno prima di essere ucciso
per il mio tradimento. In questo pacco ho racchiuso tutto quello che so
dei piani del Signore Oscuro. Dove si trovano i nostri punti di forza,
e un’incompleta, ma piuttosto accurata lista di tutti i miei
compagni Mangiamorte. I tuoi Auror, lo so, hanno la
possibilità di verificare la validità di questi
documenti. Forse allora mi crederai. Ti spedirò ulteriori
informazioni quando le riceverò e il più spesso
possibile, senza mettere in pericolo il mio status nel circolo del
Signore Oscuro. Che tu possa aver successo dove io ho fallito, e che tu
possa fare quello per cui sei stato destinato. Firmato, Draco Lucius
Malfoy.”
Nessuno parlò per un lungo momento. Poi, Tonks si
alzò e prese tutti i documenti raccolti nella scatola,
appoggiandoli su un tavolo lì vicino, e la lettera che li
accompagnava. Mormorò qualche incantesimo, facendo diventare
i fogli rosa e le parole scritte sulla loro superficie di un
iridescente blu. Infine tracciò degli strani simboli, che si
materializzarono, verdi, sopra il tavolo, a mezz’aria.
“Sta dicendo la verità”, disse, non
senza soggezione.
“Lo sapevo”, Hermione sentì Harry
sussurrare al suo fianco, mentre lui si alzava per aggiungere i
documenti che ancora aveva in mano a quelli sul tavolo. Li fece cadere
in mezzo agli altri, sulla superficie lignea, con un thump che
sapeva di soddisfazione.
Come se quello fosse una specie di segnale, la stanza eruppe in
ferventi chiacchiericci, ordini urlati, rumori pazzi e scoppi di
incredule, bellissime, impossibili, risate. Solo Hermione era rimasta
immobile. Prese la scatola svuotata e ne estrasse un piccolo pacchetto,
discreto, non notato dagli altri. Non era segnato, ma Hermione seppe
istintivamente per chi era.
Con mani tremanti, tolse la carta che lo avvolgeva con una lentezza
agonizzante. Dentro, vi trovò un foglio spiegazzato e una
esile collanina d’argento con un pendente formato da una
sola, perfetta, rosa, che luccicava nella luce del mattino.
Strinse la collana in una mano, così forte da far sbiancare
le nocche, senza accorgersene. Spiegò il foglio e lo lesse,
mentre la stanza gioiva, intorno a lei.
Una donna saggia mi ha ricordato, un giorno, che il Natale
è un giorno di salvezza e miracoli e redenzione. Io voglio
credere che abbia ragione, e poiché è
più di tutto quello che mi è stato offerto in
tanto tempo, voglio proporle di darle tre cose. Primo, le offro la mia
conoscenza del nemico, così che possa esserle
d’aiuto nella sua lotta. Secondo, le offro la mia eterna
lealtà, così che lei possa trionfare e che io
possa ritrovare la strada per abbandonare
l’oscurità. Infine, le offro una rosa…
un’altra delle rose di mia madre, in realtà,
perché possa sempre ricordarsi della notte in cui
è stata la mia salvezza, il mio miracolo, la mia redenzione.
Buon Natale.
Una goccia d’acqua colpì la superficie
del foglio, e ci volle un momento perché Hermione si
rendesse conto che era una lacrima, una sua lacrima, che stava
piangendo, e ridendo, e sentendo, e che non era l’unica a
farlo. Alzò lo sguardo verso gli altri occupanti della
stanza, ascoltando gli eccitati bisbigli, guardando Ron stringere Tonks
in un leggero abbraccio, vedendo Lupin sorridere dolcemente, mentre
guardava Fred e George danzare con esuberanza al centro della sala.
Incrociò gli occhi di Harry, e lui le sorrise, le sorrise
davvero, per la prima volta da mesi. Se le lacrime non le stessero
già sgorgando, avrebbe iniziato a piangere allora.
Guardò ancora la lettera striata che aveva tra le mani, e
sillabò un silenzioso grazie al suo scrittore, sebbene lui
non potesse sentirla e avrebbe probabilmente deriso quella gratitudine,
se avesse potuto farlo. Non era per la bellissima collana che lo stava
ringraziando, nemmeno per le informazioni che avevano appena cambiato
le loro vite e il corso della guerra. Quello per cui offriva i suoi
ringraziamenti era lo scintillio negli occhi dei suoi compagni,
l’improvvisa esuberanza che aveva avvolto la stanza, e,
soprattutto, il piccolo, timido, miracoloso sorriso sulle labbra di
Harry.
Il suo regalo non erano stati gioielli o segreti. Il suo Caronte li
aveva raccolti dalle lande del Limbo e li aveva traghettati indietro,
sul fiume Acheronte. E, nel farlo, aveva dato loro il bene
più prezioso di tutti: la speranza.
Tolse gli occhi dal foglio inzuppato di lacrime tra le mani, per
portarlo alle persone che parlavano, di fronte a lei, che risplendevano
di una luce che aveva creduto persa per sempre. Ripiegò la
lettera e si allacciò la collana intorno al collo, poi si
unì a loro.
All’esterno, il vento sibilò tra le fronde
luccicanti degli alberi, facendo risuonare per tutto il mondo una
distante risata cristallina. Lontano, all’ombra di un antico
maniero, in un giardino, tra cespugli morti e aiuole abbandonate, un
singolo bocciolo di rosa fiorì, là dove qualcuno
aveva pensato che nulla avrebbe mai più potuto crescere
ancora. La luce del sole mattutino abbagliava, riflessa dalla fresca
neve, intorno ad esso e il bocciolo, in mezzo a
quell’evidenza di guerra e distruzione, continuò a
prosperare.
The End
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Citazioni e idee, rubate senza vergogna:
1. “Non lo credi davvero.”/”Lo credo.
‘Felice Natale!’ Che diritto hai di essere felice?
Che ragione hai di essere felice?”
Libera citazione da “A Christmas Carol”
(Canto di Natale) di Charles Dickens
2. “Cosa cambierebbe se ti uccidessi? Siamo entrambi
già morti”
Libera citazione da Lost, telefilm
3. L’idea di lasciare i letti sfatti, tratta dalla fanfiction
Room Serviced, che potete leggere qui
4. Tutte le informazioni riguardante la mitologia su Caronte e sui
gironi dell’Inferno (per come sono riportati in questa fic)
possono essere trovate nell’Inferno di
Dante.
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