Il cuore del Drago Nero

di Callie_Stephanides
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10.
Non è più tempo

Al riverberare delle torce, le mura di Trier parevano d’oro.
Seguivo le ombre guizzare tra gli interstizi, quasi vene frementi; cercavo nella solida immobilità della pietra un segno della vita che stavo difendendo.
In quella notte serena e fresca, la Capitale era il figlio che non avrei mai avuto, la somma delle speranze e dei desideri di un popolo che guardava a me, la Makemagistra, come a un miraggio di futuro.
I passi risuonavano secchi sull’acciottolato umido; una cadenza marziale, forse persino minacciosa, cui rispondeva il silenzio della città addormentata. Oltre la linea palpitante del fuoco, il buio di mille finestre ti faceva pensare alle orbite cave di un teschio.
“Posso proseguire da sola,” mormorai all’ombra che mi scortava.
Incappucciati, Jail ed io eravamo forse gli ultimi veglianti di Trier.
“Ho avuto ordini precisi e non sono solito disattenderli.”
Il tono non si preoccupava di simulare il calore di sentimenti noti, esibiti senza vergogna. Non era la Makemagistra che scortava, ma la donna che amava da sempre: avrei dovuto ricambiarlo anche solo per l’ostinazione con cui mi ricordava il sapore autentico della vita.
“Non ho bisogno di te.”
Le mie labbra si mossero senza preavviso e quelle parole sgradevoli uscirono quasi a prescindere dalla mia volontà. Quasi, tuttavia: da che il dolore mi aveva spezzata, c’erano due Leya a contendersi il primato della ragione.
A vincere non era mai quella giusta; non al momento opportuno, almeno.
L’espressione di Jail non mutò: non eravamo mai stati tanto vicini quanto nelle ultime settimane e quella nuova familiarità – era evidente – gli dava il coraggio di osare.
“Mi chiedo piuttosto quando ti arrenderai.”
“A cosa?”
Jail mi scoprì il capo. L’onda sanguigna delle chiome si vestì di riflessi dorati, unica nota di luce in quella notte senza luna.
“Ti ho visto perdere il sonno sulle mappe e conquistare il Generale; hai bevuto con noi soldati e sudato tra caditoie e barbacane. Ti ho sentito imprecare e consolare e istruire, ma ridere mai.”
Sollevai un sopracciglio. “Non è stagione da…”
Le dita di Jail mi sfiorarono la guancia. “Quando hai scelto Lukas, mi sono arreso alla tua decisione, perché ne intravedevo le ragioni. Era il migliore di noi e sapevo che saresti stata felice.”
Strinsi le labbra. C’era un’infinita dolcezza in quelle parole, ma più forte ancora era il disagio che m’inoculavano. Il passato era il cadavere gonfio e sfigurato della donna che avevo mandato a morte.
La donna che ero.
“Ora, tuttavia… Non sono sicuro che Lukas abbia ancora una parte.”
Evitai il suo sguardo: se mi avesse giudicato, forse non mi sarei sentita altrettanto nuda e vulnerabile.
“Sono la Makemagistra. Le mie scelte non ti riguardano.”
Pensavo di aver posto un punto fermo a quell’improbabile confronto ma Jail mi sorprese.
“Non resterai per sempre una Ygeia e allora…”
Stirai le labbra in una smorfia scettica e crudele. “E allora? Allora cosa? T’illudi che possa diventare la tua donna? Magari proprio la madre dei tuoi figli?”
La mia voce, depurata da ogni accento, era gelida e rancorosa. Rifiutare un amore faceva male, ed era un dolore diverso da quello che conoscevo: sapeva della paura che simulavo con l’arroganza dei miei toni; sapeva delle notti bagnate in cui avevo stretto tra le braccia la solitudine di un ricordo sbiadito.
Jail mi parlava di Leya, della ragazza che ero stata: era uno specchio che rifletteva le macerie fumanti della donna uccello.
“Sì, è quello che vorrei.”
La sua non era la sicurezza sognante degli illusi, ma una certezza stagna, piena di pretese.
Gli diedi le spalle.
“C’è solo una cosa che voglio ed è che Trier veda un nuovo inverno.”
Jail avanzò di un altro passo, ma non gli permisi di toccarmi.
“Appartengo al Collegio e appartengo alla Capitale. Ho già una figlia e si chiama Eleutheria: il mio ventre è pieno di lei e tanto basta.”
“Ma…”
“Torna alla tua postazione, soldato,” sibilai. “È un ordine.”
 
Era ancora pronto a obbedirmi, benché fossi una simulatrice penosa?
È una domanda senza risposta, perché la clessidra si rovesciò di nuovo e il punto zero fu una deflagrazione che illuminò a giorno la notte.
 
“Al riparo!” gridò Jail, spingendomi con urgenza oltre la rientranza del contrafforte.
Fissai il cielo: il proiettile incendiario aveva lasciato dietro di sé una lunga coda fumante. Nell’aria si avvertiva un penetrante odore di polvere e zolfo, mentre al silenzio protettivo delle tenebre si sostituiva il brusio inquieto di un’atterrita consapevolezza: li avevamo aspettati per giorni, fissando l’orizzonte immobile, e ora il nemico ci dispensava dall’incomodo.
Erano tornati.
Vinus era tornato.
“Attaccano di notte.”
Non riconobbi la mia voce: il cuore nel petto batteva impazzito, ma a parlare era stata la Makemagistra. Ero funi e argani e carrucole. Ero la rocca.
“Un simile cambio di strategia può significare solo una cosa…”
Tornai a coprirmi il capo; un sorriso crudele m’increspò le labbra.
“Nephyl aveva ragione: il Drago Nero non è in grado di combattere.”

*

Haga d’Avenio indossò il lugubre elmo quasi fosse una tiara; sciolte, le chiome erano un manto di neve che le velava la schiena sino ai fianchi. “Sono pronta,” disse, presentandosi al principe per cui era vissuta e – lo sapeva – sarebbe morta.
Vinus la sfiorò con lo sguardo, ma era una carezza senza calore, perché la dedizione della lupa bianca rappresentava il prezzo della sua debolezza: non avrebbe guidato l’armata, non quella volta.
Non sarebbe tornato vittorioso, quale fosse l’esito della battaglia. Forse non sarebbe tornato e basta.
“Attaccando di notte, sarà più facile confondere il nemico,” disse. “Non c’è bisogno che tu…”
Haga, per tutta risposta, sguainò la spada. “Mi hai insegnato a vivere e a combattere, mio signore. Mi hai dato qualcosa per farlo.”
Vinus le offrì un sorriso mesto e amarissimo.
Per quella bocca, una donna poteva morire: l’avrei presto scoperto a mie spese.
“Aiutami a indossare la corazza. Non abbiamo più tempo.”
Era un’espressione ambigua ma Haga l’avrebbe compresa, perché sentiva con il suo stesso cuore.
 
Non è più tempo di vivere.
Non è più tempo di sperare.
Non è più tempo d’illudersi.
Non è più tempo di sognare.
 
Non se l’erano mai concesso, loro due, eppure quella certezza senza appello pungeva comunque.
 
“Sarà bello,” sussurrò Haga. “Promettimi che non morirai, Vinus.”
Il principe di Lephtys evitò il suo sguardo, perché non avrebbe tollerato di scorgervi delusione o pena. Fu onesto e spietato, tuttavia: con se stesso, prima ancora che con quella coraggiosissima puttana.
“Cadrò da re: è l’unica certezza che possiedo.”
 
Furono le ultime parole prima della fine.
 
 
A Vinus bastò montare Niktos per capire che sarebbe crepato come un cane: cavalcava da che aveva memoria e mai aveva accusato fatica o disagio; all’improvviso, invece, era quasi avere il corpo trafitto da mille aghi.
Sensibile agli stati d’animo del padrone, il liocorno rallentò l’andatura, finché il Drago Nero non fu che il fanalino di coda di una processione di morti.
Alla testa dell’esercito, Haga d’Avenio era l’emblema di una sconfitta annunciata.

*

“Usano il buio per confonderci,” disse Nephyl, non appena lo raggiunsi.
Non sembrava sorpreso dall’attacco repentino e i suoi uomini, disposti nell’ordine che avevamo studiato, riflettevano la geometrica intelligenza del Generale.
Nelle lunghe notti consumate fianco a fianco, avevo preso a considerarlo una sorta di padre spirituale: Leonar – intelligente, gentile e innocuo – non bastava alla donna che ero diventata; Nephyl solo possedeva l’esperienza e il pragmatismo necessari per comprendere il nemico e, forse, prevederne le scelte.
Già in quei giorni, nei fatti, anticipava i piani di Koiros.
 
“Se è vero quanto si dice,” mi confidò, “Vinus è un diversivo. Il signore dell’Icengard è un grosso gatto ingordo e noi siamo il suo topo. Se cadessimo, finirebbe il gioco. Finché vorrà giocare, però…”
 
Quell’illazione mi tornava alla mente, mentre, oltre la merlatura, spiavo il liquido ondeggiare di una massa indistinta di corpi: stavamo ancora giocando, o era l’ultima mano?
 
“Quanti sono?”
“Meno di quel che pare. Direi cavalieri, in massima parte, e pochi demoni.”
“Come potete affermarlo?”
“Perché le creature delle falesie emettono un curioso riverbero al buio.”
“Non lo sapevo,” replicai, sebbene al mio orgoglio ripugnasse ammettere che, al pari di mio padre, ostentavo una pericolosa ignoranza proprio sul fronte che meglio avrei dovuto dominare.
 
Demone’ era un’etichetta, una scatola vuota: non un rimedio, non una soluzione. Come Vinus mi avrebbe insegnato, invece, i Falesi erano di tali e tante varietà che solo l’arroganza degli uomini poteva ridurli a un nome.
 
“Poiché gli Specula non sono utilizzabili, resta una buona nuova.”
Il Generale annuì. “Ci hanno provocato con proiettili incendiari, eppure non assaltano le porte. Probabilmente cercano lo scontro aperto e temo d’intuirne le ragioni.”
Ingiunsi a una vedetta di portarmi una torcia, che usai per rischiarare la visuale. Fu un attimo, ma bastò perché avessi quella certezza: Vinus era in prima linea e mi aspettava.
“Quali?”
“L’attacco notturno è una strategia d’emergenza riservata alla cavalleria. Vi ricorre chi ha pochi uomini da spendere e un importante obiettivo da assicurarsi.”
“Il cane vuole la mia testa, vero?”
“È possibile,” replicò Nephyl, “per questo non dovete esporvi, Magistra.”
Le sue parole mi rassicurarono, ma non spensero del tutto il desiderio di rivalsa che mi bruciava dentro dal giorno in cui, sotto gli occhi di Vinus, avevo tremato come il più indifeso dei cuccioli.
“Non è mio interesse ostacolarvi,” replicai, “ma non concediamo loro il beneficio della prima mossa.”
Nephyl volse lo sguardo ai soldati. “Non possiamo combattere alla cieca, ma se accendessimo le torce, diverremmo bersagli alla loro mercé.”
“Allora apriamo le porte,” dissi.
Il Generale sussultò, quasi l’avesse morso un serpente velenoso. Pareva un’idea suicida, la mia, ma mi conosceva abbastanza da sapere quanto fossi scaltra.
Troppo, per morire.
“… Dopo aver armato il barcane.”
Nephyl sogghignò. “Farò preparare due squadre di arcieri. Quanto alla cavalleria…”
 
“Vorrei che mi offriste la possibilità di guidarla.”
 
La voce di Rael ci raggiunse da un cono d’ombra, inaspettata al punto da strapparci un sussulto.
Non vedevo mio fratello da giorni; l’avevo accantonato, piuttosto, quasi fosse un pensiero molesto, perché ricordarmi di lui avrebbe condotto la mente a Leonar, alla Nornika, al prezzo di un inaccettabile silenzio.
Invece eccolo, il figlio preferito.
Il dracomanno. Il drago.
 
“Che…”
 
Rael avanzò di un passo: che fosse guarito o meno pareva non importare, perché sua era la sicurezza di cui avevamo bisogno. “Se c’è qualcuno che può frenare Vinus, quello…”
Schiusi le labbra ma Nephyl mi anticipò. “Non possiamo affidarci all’iniziativa individuale: l’abbiamo già fatto ed è stata una scelta suicida. Qui non si decide chi sia il guerriero migliore, quanto il futuro di Eleutheria.”
Rael non chinò il capo, né si ritrasse. A fissare il volto dei soldati presenti, tuttavia, riusciva facile cogliere il segno di un nuovo entusiasmo; di quella speranza, anzi, che non ero mai stata altrettanto brava a mantenere viva: se il nostro drago era pronto a combattere, allora Trier non sarebbe caduta.
“Non chiedo per me la parte dell’eroe,” disse Rael, “ma una possibilità di riscatto. Voglio difendere la Capitale accanto ai miei uomini, perché Trier è la mia famiglia e la mia casa.”
Nephyl mi cercò con lo sguardo, ma non trovò risposta nella mia esitazione.
Amavo Rael di un affetto sincero, eppure odiavo Vinus con un’intensità che vinceva ogni altro sentimento. Era la libra delle emozioni a condannarlo, prima ancora del mio egoismo.
“Se è quello che volete, Capitano,” disse Nephyl, “allora disponetevi nel vestibolo del barbacane. Chi dei loro scamperà agli arcieri, dovrà incontrare la vostra spada.”
Rael s’inchinò grato e si dileguò rapido com’era apparso.
 
 
“Voi siete la signora della guerra, Magistra, come vostro fratello ne è la lama. Forse è per questo che la dea vi ha offerti a Eleutheria.”
 
Non risposi. Non avevo il coraggio di ammettere che no, non credevo più a un Ordine Superiore.
Era il cuore degli uomini che moveva la ruota della Storia.
Il cuore degli uomini e quello dei draghi.

*

Quando le porte di Trier si aprirono, vomitando all’interno del barbacane l’armata dei liocorni neri, Haga d’Avenio era alla testa dei cavalieri. Protetta dalla lorica di adamanto, i capelli nivei a lambirle le spalle, somigliava più che mai al mio nemico giurato.
Se l’urgenza di sopravvivere non ci avesse resi tutti insensibili ai dettagli, avremmo registrato senz’altro che il Drago Nero era troppo minuto, che non frustava l’aria con una lunga coda scagliosa e che, soprattutto, non montava il terribile Niktos.
La guerra, tuttavia, non è contesto da sottigliezze o sfumature, perché se solo si permettesse al grigio di scivolare sul campo di battaglia, allora non vi sarebbe più nulla per cui combattere.
 
Sapeva difendersi, Haga: impugnava la spada per vivere, ma non temeva di morire; questo offriva ai suoi colpi un equilibrio raro e un’efficacia che molto suggeriva dell’esperienza di un maestro d’eccezione.
Ho pensato spesso a loro due – Haga e Vinus – seminudi impugnare una spada e sfidarsi e amarsi a filo di lama.
Ho sentito i morsi della gelosia sbranarmi il cuore e diventare rabbia.
Ho ricordato la fine della lupa bianca e accettato il peso del passato: non puoi temere quel che è stato, come non puoi fendere la nebbia.
 
Lei era là, quella notte: al suo fianco e al suo posto.
Era là perché Vinus vivesse, perché io potessi torturarlo e umiliarlo e, infine, amarlo più di me stessa.
Lei era là per un futuro che non le spettava, ma che io avrei vissuto.
Lei era là anche per me.
Era là per morire.
 
Superò l’insidia degli arcieri, lanciata in velocità sull’acciottolato del terrapieno. Ignorava che il muro della cavalleria di Trier l’aspettava al varco per stringerla in un’implacabile tagliola, ma anche a saperlo, probabilmente, non si sarebbe arrestata.
La lingua batteva contro il palato, in un rauco ululato di guerra.
Dall’alto della torre, la seguivo con lo sguardo e vedevo Vinus: l’odiato, il temuto, il terribile Drago Nero.
È il momento, Rael. È l’ora, pensavo.
Mio fratello, tuttavia, arretrato rispetto ai propri uomini, non si muoveva.
Il figlio di Freil aveva fiutato l’inganno: sapeva che quel sangue gli apparteneva.
 
Ad abbattere Haga, decollandola con il taglio di una scure affilata, fu un guerriero schivo e silenzioso: Lothar di Divio.
Compagno d’armi di Nephyl e veterano dell’Eisenthar, odiava l’armata di Koiros con un accanimento che ricordava il mio; per questo, forse, il Caso aveva voluto che fosse il braccio di un’esecuzione annunciata.
Lo vidi prendere la mira e calibrare il lancio.
Il cuore accelerò i battiti, mentre i denti affondavano nel labbro, quasi ad anticipare il sangue che avrei visto scorrere.
L’autentico Drago Nero avrebbe frustato l’aria e deviato la scure, ma Haga era solo un fantasma bianco.
Era amore e nebbia.
Erano occhi sbarrati in un’espressione di attonito stupore, mentre la lama incontrava la carne e le svelleva il capo.
 
La testa rotolò tra le zampe rostrate dei liocorni, eppure lo scontro non si arrestò come avevo sperato.
Fu allora che mio fratello si mosse, spronando lo Shire e indirizzandolo a un punto preciso della mischia.
“Vinus!” ruggì, e quel rauco grido giunse fino al cielo – fino a me.
 
Il principe di Lephtys era ancora vivo.





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