Nascita.
Sembra una bella parola. Di
primo acchito, vengono in mente solo cose positive relative alla nascita: il
sole che sorge al mattino, un cucciolo che viene alla luce dal ventre della
madre, il sentimento che sboccia nei cuori degli
innamorati…
La nascita sembra essere il
polo positivo dell’indissolubile binomio vita-morte, la parte vivibile dell’esistenza
umana.
Eppure, per ogni mattino che
arriva, la notte cala dall’altra parte del mondo; per ogni vita che nasce, ce
n’è una che muore; per ogni amore che sboccia, un odio prende
forma…
Questa storia parla di una
nascita. Un atto di amore, difficile per i tempi e per i modi in cui avvenne.
Una sorta di riscatto dalla mediocrità che ognuno di noi non può fare a meno di
apprezzare.
Eppure, eppure,
eppure…
Maria Anna piangeva. Le sue
erano lacrime discrete e silenziose, piccole e tiepide: le lacrime della serva
che non deve disturbare il padrone. Maria Anna era una domestica che da tanti
anni serviva bene il suo padrone e sapeva come comportarsi, in caso di lacrime:
come nasconderle, come strozzarle in gola in modo che non facessero rumore. Ma
non era abbastanza vecchia per nascondere anche il dolore che, vittorioso,
traspariva dalle pieghe della sua pelle, dagli occhi arrossati, dal naso gonfio.
Ma non un fiato usciva dalla sua bocca pressata: nell’anno di grazia 1831 una
donna nubile di 41 anni non aveva nemmeno il diritto di pretendere più un
marito, figurarsi quello di urlare la sua rabbia. Maria Anna, oltretutto,
nemmeno riusciva a considerarsi una donna libera: una serva austriaca a servizio
di un vecchio ebreo, ecco cos’era lei per sé stessa. Una brava, capace e
silenziosa serva che aspettava un bambino.
Di colpo, Maria Anna si era
trasformata in un ingombrante ed imbarazzante fardello, per la morale comune. Se
non fosse stato per i tanti anni di onorato servizio, il padrone non le avrebbe
neanche dato le due monete e la giornata libera per concederle di fare quello
che doveva fare; l’avrebbe sbattuta per strada dove il freddo e la fame
avrebbero fatto il resto. Per un attimo, Maria Anna agognò a quel resto…ma no,
che eresia! Il padrone era stato fin troppo buono con lei. Si sforzava di
pensarlo ogni singolo istante, ed era per quel motivo che non riusciva a
smettere di piangere.
Il padrone. Quel grasso
vecchio che puzzava sempre di cavolo scotto, col vocione tonante dei mercanti e
il naso grifagno tipico della sua razza. Persino in quel paesino austriaco a uno
sputo dalla Germania chiamarsi Chicklgruber e doversi umiliare per fare da serva
a quell’untuoso mercante era già da solo ritenuto motivo di disonore. Ma Maria
Anna non si era mai lamentata: aveva lavorato sodo, e se la sua schiena era già
curva e le sue mani sciupate, comunque non aveva mai sofferto il freddo e la
fame, nella casa del grasso mercante Frankenberger. Le era sempre bastato quel
pensiero, per sopravvivere. Ma poi…
La levatrice aprì la porta e
fissò il suo sguardo duro su Maria Anna che piangeva rannicchiata sullo
sgabello.
“Ti manda Frankenberger
l’ebreo?” chiese senza mezzi termini, ignorando le sue lacrime
silenziose.
“Sì” rispose Maria Anna,
alzandosi in piedi. Le doleva la schiena e le dolevano le gambe e le doveva il
cuore, ma tutto questo non aveva importanza, in quel momento. L’importante era
sbarazzarsi presto dall’ingombrante fardello che le cresceva nel ventre,
l’apparente frutto della vergogna di una donna nubile che si era concessa con
facilità. Ma per Maria Anna niente era mai stato facile: anche quello che
portava in grembo altro non era che il frutto del sopruso del padrone e della
sua stessa rassegnata, atavica sottomissione da serva.
“Muoviti” disse la levatrice
scostandosi dalla porta cigolante per far entrare Maria Anna nel buio e angusto
locale dove la donna svolgeva il suo segreto mestiere. Tante ragazze erano
passate di lì colme di sogni infranti e di vergogna per liberarsi di quello che
sembrava il prodotto dell’amore ma che in realtà era solo peccato, lussuria e
abbandono. La levatrice chiuse la porta dietro le spalle di Maria Anna che si
guardò intorno smarrita. Un lettuccio di paglia con l’imbottitura che usciva da
tutte le parti, una coperta lercia, un comodino traballante ricoperto da una
pezza di lino con sopra cucchiai e forcelle dalla forma strana, un catino
sbeccato e un asciugamano
grigiastro erano tutto l’arredamento che la stanzetta deprimente offriva. Maria
Anna si fermò in mezzo alla stanza, stretta nello scialle come per ripararsi al
destino: la levatrice sbuffò e la spinse senza troppa gentilezza verso il
lettino.
“Sdraiati” ordinò con
malagrazia.
Sì, pensò Maria Anna, ma non
lo disse. Non riuscì a dirlo e questo la sconvolse.
Maria Anna guardava il
lettino e non riusciva a vederlo. Al di là del velo delle lacrime vedeva
finalmente quello che non aveva mai visto prima: sé stessa. Una donna incolore
dallo sguardo sfuggente, curva, grigia. Una donna debole senza dignità e senza
gloria che aveva sempre permesso che gli altri la calpestassero. Maria Anna si
rese conto, davanti a quel lettino che puzzava di alcool e di disfatta, che non
si era mai opposta alla volontà del destino. Non aveva mai lottato per qualsiasi
cosa, né per sé stessa, né per le ingiustizie che gli altri perpetravano su di
lei. Non aveva mai scelto una strada, per quanto difficile potesse
essere.
Sdraiati, le aveva ordinato
la levatrice, ma Maria Anna non riusciva a muoversi. Qualcosa di mastodontico si
era mosso dentro di lei; fu una sensazione strana, come la scoperta di un nuovo
muscolo sconosciuto, debole eppure potenzialmente potentissimo. Alzò gli occhi
sulla levatrice, sorpresa, anzi, sconvolta da quello che stava per
fare.
“No” rispose, e la sua voce
scaturì dai recessi polverosi della sua anima, grattando di ribellione le pareti
rinsecchite del suo cuore.
Rimbombò tra le quattro
pareti spoglie della stanzetta e il suo tono di comando sembrava appartenere a
qualcun altro. Di sicuro non alla piccola, debole Maria Anna.
La levatrice, dopo qualche
attimo di attonito silenzio, si strinse nelle spalle, lasciando che un malevolo
sorriso le stirasse le labbra rinsecchite.
“Come vuoi” rispose con
amara cattiveria “Ma lasciati dare un consiglio: Frankenberger non scucirà un
centesimo per il suo bastardo. Dovrai cavartela da sola”
Il ritorno a casa fu lento e
spossante. Ogni passo pesava come se avesse un macigno attaccato al piede mentre
il freddo mordeva il viso con i suoi dentini appuntiti. Quasi non se ne
accorgeva, Maria Anna. Camminava ed ogni passo era faticoso come se fosse in
mezzo alle sabbie mobili, ma il suo cuore, oh, il suo cuore…per la prima volta
nella sua vita esultava. Ancora contornato di stupefatta meraviglia, quel
rinsecchito organo che aveva sempre e solo sanguinato batteva ritmando un canto
di vittoria e di liberazione. Sembrava impossibile che fosse ancora capace di
tanto entusiasmo, dopo tutti quegli anni di tristezza e di solitudine…ma ora
aveva qualcosa per cui gioire, qualcosa per cui valesse davvero la pena di
continuare a fare il suo lavoro, pompare sangue, sopravvivere. Era per il
bambino? Era per quella minuscola sfera di meraviglia che si era aggrappata al
suo grembo che ora si sentiva così viva e così disposta a
lottare?
No. Almeno, non ancora. Era
per il Segreto che quel bambino custodiva. Tiepido e avvolgente come una coperta
di lana scaldata davanti al camino, il Segreto abbracciava le spalle curve di
Maria Anna e la faceva sorridere con il sorriso segreto delle serve, ancora più
segreto delle loro lacrime.
“Anna…oh, Anna sei tanto
bella…”
Non lo era, naturalmente.
Era vecchia, secca e taciturna e aveva perso tutti i suoi sogni per strada, ma a
lui non importava. Lui la vedeva “tanto bella…”.
Era lui ad essere bello,
invece. Bellissimo, anzi. La bellezza fuggevole e caduca della giovinezza,
quella che non dura più di un alito di vento. Lui aveva vent’anni e le mani
lisce di chi non ha mai dovuto lavorare. Lui era gentile e sapeva leggere
bellissimi racconti, ricchi di quelle avventure che erano sogni, una volta, nei
pensieri di Maria Anna. Lui era il figlio del mercante Frankenberger e Maria
Anna l’aveva amato con la dedizione assoluta del cane verso il suo padrone che a
malapena gli passa un osso ogni tanto, fedele e adorante per il solo fatto di
essere stata guardata come una donna. Una donna “tanto bella”. Col senno di poi,
al figlio del padrone erano bastate davvero poche e misere parole per riuscire
ad infilarsi nel letto di Maria Anna; ma lui non sapeva che erano comunque
infinitamente di più di tutto l’amore che lei avesse mai ricevuto.
L’amore fino a quel momento
per Maria Anna era stato il corpo grasso e peloso dell’ebreo Frankenberger che
faceva i suoi comodi con la sua serva ormai sfiorita, grugnendo come un animale
in calore, sollevando le vesti della donna sopra alla testa ed esponendo solo il
suo sesso alla vergogna del sopruso.
Il suo surrogato di amore!
Erano anni che Maria Anna chiudeva gli occhi e pensava alla lista della spesa,
al carbone da mettere nel camino, a qualsiasi cosa non riguardasse i grugniti
del padrone al di là della sua veste alzata. Poi c’erano state due mani delicate
e lisce, un viso imberbe dall’espressione dolce, una voce sussurrata
all’orecchio, senza l’ingombro delle vesti, solo pelle su pelle, solo desiderio
su desiderio.
“Anna…oh, Anna sei tanto
bella…”
Di nascosto dal padre e
padrone, ogni attimo era stato vissuto con la paura di essere scoperti e con il
desiderio di sfruttare ogni singolo secondo, consumando una brama, una fame di
amore che Maria Anna non sognava nemmeno di avere. Il Segreto che si teneva nel
cuore, alimentandolo come un fuoco caldo e benedetto, era che il suo bambino era
frutto dell’amore. Non di certo l’amore del figlio del padrone, che aveva
abbandonato molto presto il letto di Maria Anna per infilarsi in quello della
sguattera Annika prima del termine delle vacanze estive.
Era il frutto dell’amore di
Maria Anna verso sé stessa, la nascita della consapevolezza di poter amare…di
voler amare.
Maria Anna arrivò davanti
alla porta di casa. Di solito entrava dal retro, lesta e curva come una ladra.
Ma non quel giorno.
Quel giorno era il primo di
una nuova vita, decise Maria Anna, inebriandosi di quella fiducia in sé stessa
che cresceva come pasta lievitata nel forno caldo del suo cuore. Adesso c’era un
bambino che voleva il suo amore, un bambino che avrebbe voluto davvero bene alla
vecchia e rinsecchita serva del mercante ebreo.
Maria Anna, a testa alta,
salì le scale ed entrò dalla porta principale. Le sue spalle erano dritte, il
suo sguardo lucente e tre parole sole uscirono dalle sue labbra, dopo che il
padrone le venne incontro, corrucciato e sottilmente
ansioso.
“Terrò il bambino”
Il mio cuore è con Maria
Anna. La sua fu una scelta dettata dal coraggio dell’amore, la sola per cui
valga davvero la pena lottare. La nascita del suo unico figlio fu forse il suo
unico atto di eroismo, il momento dove riuscì a riscattare il significato della
sua grigia e deprimente esistenza. Nascita come ribellione…nascita come luce del
mattino che sorge.
Dov’è, allora, la
notte?
La coraggiosa Maria Anna
ottenne dal vecchio ebreo Frankenberger una retta mensile per pagare gli studi
al figlio illegittimo, che chiamò Alois. Cinque anni dopo la sua nascita, Maria
Anna e il figlioletto si trasferirono a Strones dove la donna, all’età di 47
anni, incontrò e sposò il mugnaio Georg Hiedler il quale, per non perdere il
vitalizio mensile del figliastro, non lo riconobbe come figlio adottivo. Nel
1847 Maria Anna morì e il patrigno di Alois sparì lasciandolo solo a casa del
fratello, il mugnaio Johann Hutler. Alois intraprese la professione di
doganiere, spostandosi in varie parti dell’Austria. Ebbe due mogli e rimase per
due volte vedovo, generando due figli, Alois jr. e Angela. Durante il suo primo
matrimonio aveva preso a servizio la quindicenne Klara Poelzl, sua nipote perché
figlia di una figlia di suo zio mugnaio, Johann. Morta anche la seconda moglie,
Alois, ottenuta una dispensa speciale dalla chiesa, sposò Klara. Il patrigno
scomparso ritornò quando Alois aveva 40 anni e, per questioni di eredità, si
decise a legittimarlo, dandogli il proprio cognome: sul registro battesimale
della parrocchia di Dollerstein il nome di Alois Chicklgruber venne sostituito
con quello di Alois Hitler.
Alle 6.30 di sera del 20
aprile 1889 in una locanda di Braunau , Klara diede alla luce il terzo
dei cinque figli che ebbe da Alois Hitler.
Lo chiamarono
Adolf.
Il resto è storia.
E
notte.
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