Prima che cambi il tempo
Prima che cambi il tempo.
Il freddo filtrava da qualche fessura della finestre mentre la pioggia
cominciava a scrociare. Bonnie alzò lo sguardo dal libro da
cui tentava di carpire qualcosa di utile per il test che avrebbe dovuto
affrontare l'indomani mattina, ma nulla le entrava in testa. Aveva
spento tutte le luci, aveva staccato ogni spina esistente e si era
rintanata nel luogo più sicuro della casa, si sarebbe
rinchiusa nell'armadio se non avesse avuto il terrore di vederlo
diventare la sua bara. I suoi pensieri, da un po' di tempo a quella
parte, erano sinceramente inquietanti e non faticava a immaginare il
motivo di tutte le scene macabre che venivano messe in scena nel suo
cervello. Sospirò, affranta. Non solo non sarebbe riuscita a
cavare un voto decente, ma avrebbe anche passato la notte terrorizzata.
Durante i temporali soleva stare con i suoi, in salotto, fino a tardi
per evitare la stanza abbagliata dal blu dei lampi che illuminavano il
cielo scurissimo e dai tuoni che squarciavano il rumore della pioggia,
che lei riusciva sempre a ridurre, nella sua testa, a un semplice
brusio di fondo. Quel giorno, però, era sola.
Gettò il libro nel mucchio di fianco al letto, sconsolata.
Quando il primo tuono le rimbombò nelle orecchie, si
portò una mano al petto, spaventata a morte. Il cuore le era
salito in gola e batteva furiosamente. Maledizione a lei e al suo
essere così fifona. Prese le cuffie dell'mp3 e le
infilò con rabbia. La canzone partì
immediatamente e il volume le permetteva di fingere che fuori non
stesse infuriando un temporale. Adorava quella canzone e aveva la
pessima abitudine di non riuscire a frenare la sua voglia di
cantacchiare saltellando per casa. Sapeva anche a chi dedicarla.
Ovviamente il centro dei suoi pensieri era lei o meglio lui e il fatto
che non l'avesse mai vista davvero. Avrebbe voluto mandarlo all'inferno
con il primo diretto, ma sarebbe stato sputato fuori anche da
lì e lei lo sapeva bene. Nonostante tutto, cantando quella
canzone non riusciva a non pensare che, in fondo, l'unica a soffrire,
quando vedeva il suo viso, era lei. Era bello da fare male e riusciva a
farlo anche per davvero. Era egoista ed egocentrico. La canzone era
cambiata, ma non il gruppo e mi maledicevo perché una volta
avrei voluto trovare un ragazzo dagli occhi azzurri come quelli del
cantante in questione, ma mi ero ritrovata a pensare che quella era la
mia ultima canzone per un paio di occhi così neri che la
notte sembrava rischiarata dal sole, così profondi da fare
invidia allo spazio. Sapevo che era inutile dire quella sarebbe stata
l'ultima canzone, ma volevo illudermi che il titolo e il testo
riuscissero a darmi la forza per staccarmi da quella follia. Continuavo
a cantare, ignorando il frastuono del vento, i lampi che fingevo essere
delle luci di un palco in un teatro senza spettatori, non avrei mai
avuto nemmeno il coraggio di immaginarmi qualcuno fermo ad ascoltarmi,
a fissarmi, a farmi avvampare con qualche sorriso sarcastico e gli
occhi simili a due pozze di petrolio. Temeva la fine di quella canzone,
la certezza dell'esistenza della canzone successiva la faceva quasi
tremare di rabbia, perché, in fondo, sapeva che dopo sarebbe
toccato ammettere che lui gli mancava e che, alla fine, la speranza
continuava a farla soffrire, a dividerla tra il sogno di averlo per
sé e la consapevolezza di essere solo una ragazzina illusa.
Stava gustando quelle parole, false come le illusioni che un girono lui
si sarebbe accorto di non amare il suo Angelo e si sarebbe presentato
alla sua finestra. La porta non era nel suo stile. Crollò a
terra, ma non smise di cantare, dando sfogo a tutta la sua
frustrazione, alla delusione, a quell'amaro che le riempiva la bocca e
le stringeva la gola in una morsa soffocante, ma che non le
impedì di continuare quel lamento. Doveva ammettere di
essere piuttosto stupida. Insomma chi era il genio che metteva quel
genere di canzoni quand'era depresso? Solo tutto il mondo. Eccetto
Elena, certo, lei non era mai depressa per questioni di cuore a meno
che non si trattasse di un dilemma amletico su chi sciegliere dei
numerosi pretendenti o accontentarsi del ragazzo che aveva accanto e
che non l'amava solo per la sua bellezza, che l'adorava e che accettava
nonostante tutti i suoi difetti. Si morse le labbra piene e per poco
non si ferì. Non serviva essere vampiri per avere denti
affilati e lei non poteva permettersi di vedersi altro rosso addosso.
Insomma, le bastavano i capelli rosso fragola e le labbra naturalmente
rosee, in netto contrasto con la pelle diafana che metteva in evidenza
ogni vena blu che passasse sotto uno strato di pelle più
sottile. Era l'emblema di tutto ciò che un vampiro avrebbe
considerato attraente per una cena, riflette. Si passò una
mano tra i ricci definiti e si accorse di non aver ancora smesso di
cantare. Un accenno di sorriso le comparve sul volto, sentiva le guance
tendersi e distendersi. Le lacrime si erano asciugate e del loro
passaggio rimaneva solo una traccia fastidiosa di qualche sale
appiccicaticcio. Vi sfregò le mani e si sentì
meglio. S'impuntò, doveva riprendersi subito.
Così si alzò e corse in bagno a darsi una
rinfrescata mentre canticchiava allegramente un pezzo che le teneva
compagnia da quando era nata. Sgambettava per la stanza ridacchiando.
Le bastava sempre poco per riprendersi. Un po' di cioccolata o un buon
libro per calmarsi e la musica per sfogare ogni emozione superflua e
negativa. Lei era la solare e dolce Bonnie, era un uccellino indifeso,
ma con il sorriso perenne. Era così presa che quando si
buttò sul letto, esausta, non si accorse di qualcuno che la
guardava dalla finestra. Un corvo la fissava, per quanto fosse strano
vedere un animale squadrare una persona.
Il mattino dopo Bonnie si svegliò lentamente. Il sole afoso
dei giorni precedenti era tornato a splendere filtrando dalle finestre.
Si era scordata di tirare le tende, ma non era importante, le piaceva
svegliarsi con il sole. Si alzò, decisa a farsi una doccia,
tranquilla. Fece scivolare la camiciola da notte ai suoi piedi. Le
piaceva, era nera, si seta. Le ricordava gli occhi di Damon, ma questo
non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura. Il sole le scaldava la
pelle nuda e solo in quel momento s'accorse di essersi immobbilizzata
davanti alla veste, si mise a giocare con un ricciolo mentre,
lentamente, raccoglieva la veste e l'appoggiava, con attenzione, sopra
il letto. Dopo la doccia si sentì decisamente meglio. Sapeva
di dover asciugare i capelli prima che diventassero una massa senza
capo né coda, ma decise che prima si sarebbe vestita.
Entrando nella stanza sentì una leggera brezza accarezzarle
la schiena. Non ricordava di aver aperto la finestre e, reggendo
l'asciugamano, la chiuse stupendosi del repentino cambiamento
climatico. Aprì l'armadio di legno e estrasse le prime cose
che le capitarono a tiro. Non era mai stata una persona attenta, una
ragazza con manie di persecuzione o cose simili, certo, gli avvenimenti
degli ultimi tempi avevano cambiato un po' il suo modo di vedere le
cose, ma ancora non riusciva a modificare il suo modo di fare.
Così, quando si voltò e si ritrovò a
fissare il suo letto tra il terrorizzato e l'imbarazzato, si diede
mentalmente della stupida. Arrossì irrimediabilmente mentre
Damon le diceva - Mi piace come ti sta questa - disse mostrandole la
mini camicia da notte - stacca da tutto il rosso che ti caratterizza e
lo risalta. Sembra quasi il tuo sangue sui miei vestiti, uccellino, lo
sapevi? - Bonnie, in tutta risposta cadde a terra con lo sguardo perso
nel vuoto. La sua espressione cambiava ogni minuto e Damon, annoiato,
decise che non era lì per assistere alla crisi emotiva della
streghetta e se ne andò con noncuranza.
Non era stata una decisione facile, ma doveva ancora nutrirsi e averla
guardata per tutta la notte non faceva che destabilizzare il suo
autocontrollo. Non voleva chiederle sangue perché sapeva che
lei non si sarebbe opposta, ma che poi si sarebbe pentita. Aveva
assistito alla crisi di pianto del giorno prima e sapeva di essere la
causa principale di quello stato emotivo incontrollabile. Non che si
sentisse in colpa, lui non sapeva sentirsi in colpa, però
non gli piaceva vederla piangere. Bonnie era così diversa da
Elena che fare un raffronto era quasi ridicolo, eppure gli venne
spontaneo. Il suo Angelo non faceva che pestare i piedi a terra se non
otteneva qualcosa, si intestardiva ed era terribilmente orgoliosa,
tanto da voler controllare sia lui che il fratello, era abbastanza
concentrata su se stessa da non vedere che Meredith doveva sempre
stringere la mano a Bonnie quando le sue dimostrazioni d'affetto, verso
di lui, diventavano plateali. Non si curava del fatto che Stefan
soffrisse e a lui non importava molto di questo, la cosa davvero
assurda era la sua noncuranza di fronte al fatto che anche lui
soffriva. La sua indecisione faceva stare bene solo lei, a scapito
degli altri. Per quanto fosse bella ed eterea era anche molto
consapevole dell'effetto che aveva sugli altri e ne aproffittava per
ottenere ciò che voleva. Spesso le faceva tenerezza,
probabilmente si era avvicinato a lei proprio per la loro somiglianza,
ma capì, in quel momento, di doversi ricredere. Lui
ammetteva di far soffrire le persone e, sebbene non cambiasse le cose,
ciò lo rendeva ben diverso dal modo di fare di Elena. Lei
non voleva vedere la sofferenza e non voleva accettare il fatto di
essere lei a procurarla. Infilava la testa sotto la sabbia, faceva i
capricci, ci aggiungeva un paio di moine e tutti la trattavano come la
vittima della situazione. Bonnie era fragile, non credeva in se stessa
e ogni sua azione era guidata dai seentimenti e da ciò che
le passava per la testa in quel momento. Era quieta e rilassata, a
volte era triste. Si dispiaceva, s'imbarazzava, s'intestardiva, ma
senza l'autorità di Elena. Era difficilissimo farla
arrabbiare e lui lo sapeva, da quando la conosceva si impegnava per
farle perdere le staffe e non c'era ancora riuscito, nemmeno quella
mattina. Lo spettacolo che gli aveva offerto prima di farsi la doccia
aveva rischiato di mandarlo al manicomio e aveva dovuto artigliare
l'albero da cui la spiava per evitare di aprire quella finestra e farle
chissà cosa. Era davvero bellissima anche se in maniera del
tutto poco convenzionale. Era bassa, a differenza di Elena, e smilza
anche se il tutto non la slanciava come avrebbe dovuto. Quando si era
stiracchiata aveva visto la sua spina dorsale inarcarsi e per un
istante aveva perso ogni contatto con la realtà. I suoi
capelli scendevano sulla sciena come una cascata di lingue di fuoco che
le accarezzavano la pelle esangue. Aveva dei piedi piccoli e graziosi,
non era da lui notare quel genere di cose. Se fosse stato in
sé avrebbe ripensato al suo seno non più grande
di una seconda ben riempita. Se fosse stato in sé avrebbe
ripensato al dove terminava la sua schiena e a quanto fosse perfetto.
Se fosse stato in sé avrebbe ripensato alla curva del suo
collo invitante. Tutto ciò che riusciva a pensare in quel
momento, però, era a come fosse proporzionata. Non riusciva
a togliersi dalla mente il sorriso estasiato mentre cantava, gli occhi
nocciola ricolmi di lacrime mentre piangeva, alla piccola mano che
asciugava le guance e il nasino perfetto, ricoperto di efelidi. Non
smetteva si sentire un dolore lancinante alla bocca dello stomaco e un
calore insolito propagarsi nel petto, ma era così
dannatamente allegro che il tempo aveva seguito le sue sensazioni.
Arrivato al pensionato non riuscì a credere di essere
riuscito a pensare a tutte quelle cose in così poco tempo e
si accorse appena di Elena che si accicinava per abbracciarlo. Si
scansò senza pensarci, ma non riuscì a chiedersi
che cosa gli fosse preso. Di solito avrebbe sogghignato, raggiante per
quella conquista, ma in quel momento aveva ben altro per la testa.
Bonnie, d'altro canto, ci aveva messo un po' a riprendersi dai tremori.
Sapeva che se lui era lì allora era sempre stato
lì. L'imbarazzo le imporporava le guancie, ma quella volta
qualcosa irruppe a sconvolgere le sensazioni che era abituata a
provare. Dallo stomaco le partì una fitta di bile che
arrivò al cervello, rendendola vigile e attenta. Si
vestì velocemente con i vestiti che ancora stringeva in
mano. Si tastò i capelli ormai irrimediabilmente asciutti e
maledisse Damon Salvatore. Si alzò, indossando velocemente
un paio di converse e si diresse a passo spedito verso il pensionato
mentre una serie di pensieri fastidiosi aumentavano la sua rabbia fino
a farle toccare il suo potere come se fosse stato a un passo da lei. Lo
sentiva spandersi e sentiva il bisogno di bearsi di quella presenza.
Odiava essere quella debole, quella da salvare o quella da mettere in
imbarazzo. Odiava essere la seconda scelta. In quel momento odiava
Elena e le sue manie di protagonismo e odiava Damon per il suo essere
un pervertito doppiogiochista. Sentiva la rabbia scorrerle dentro.
Sempre la seconda, sempre indietro di un passo di troppo, sempre
inferiore e mai abbastanza. Non era mai stata abbastanza per essere
presa in considerazione, ma almeno lei sapeva di essere fatta
così e di bastare a se stessa. Per quanto fosse innamorata
di Damon aveva saputo soffrire in silenzio senza cedere, senza
diventare un vegetale come avrebbe fatto Elena, forse a volte si era
compatita, ma poi aveva ripreso in mano la sua vita e si era data da
fare per non sentirsi meno di lei e per evitare di diventare come lei.
Lei non aveva paura della solitudine e ci conviveva senza problemi, ma
era stufa che tutti pensassero a lei come ad una personcina senza spina
dorsale, poco coraggiosa e con scarse capcità. Lei non si
sentiva migliore di nessuno, ma era consapevole di non essere inferiore
a nessuno. Non era meno bella di Elena, anche se non era bella nel suo
stesso modo, non era meno di Meredith sppure non avesse la stessa
spiccata tendenza a razionalizzare tutto. Lei viveva, viveva le cose,
viveva il dolore e viveva la gioia e non le importava un bel niente di
cosa avrebbero pensato gli altri, in quel momento voleva solo
riscattarsi, voleva vivere tutto quello che poteva, voleva essere
migliore e dimostrare a chi non credeva in lei che lei viveva molto
più di loro. Così decise di vivere quella
sensazione di fastidio che le stava scaldando il corpo, prese il suo
potere come se fosse stato una ventata e lo sferzò sulla
porta del pensionato che si aprì di scatto rivelando i
ragazzi fermi sulle scale, intenti a discutere. Quando fece il suoi
ingresso tutti si immobilizzarono e per un momento giurò di
vederli sopresi, poi spaesati e infine quasi, spaventati. Tutto
ciò, per quanto insano, per un momento, per un solo istante,
la fece sentire bene. Era una sensazione così perversa e
cattiva che le risultò insana ed estranea, ma era una parte
di sé che non aveva mai saputo accettare e che ora stava
abbracciando per sentirsi quello che era. Inoltre non sarebbe stato
così male diversi con la sopresa dei suoi amici. Era
pericolosamente sbagliato, ma così dannatamente divertente
che, per una volta, si lavò le mani del giudizio altrui,
delle emozioni del prossimo e scateno la sua ira.
* * *
Ecco a voi uno sclero momentaneo che ha portato a scrivere
ciò che è accaduto prima di 'Le ragioni del
tempo.' che vi invito a leggere, in caso vi piaccia questo momento di
ordinaria follia. Passiamo ai chiarmienti, in realtà devo
ringraziare gli All-American Rejects che grazie a Gives You
Hell e The Last Song (yeah la 'famosa' ultima canzone) hanno dato il
via a questo delirio, ai Simple Plan e alla buona dose di disperazione
data da Untitled che hanno permesso a Bonnie di sfogarsi un po' e agli
Skillet che con buona parte della loro discografia (degne di nota sono
le canzoni del CD 'Comatose' che hanno, in buona parte, accompagnato la
stesura di questo pezzo). Ringrazio la mia mente malata (e il mio fisco
altrettanto cagionevole) per aver partorito questo come seguito al
testo sopracitato. In realtà è un prequel quindi
mi sto esprimendo male, ma credo che sia normale. Spero vi piaccia e
che spendiate una minuscola quantità di tempo a
recensirla!
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